Quando il chiurlo gorgheggia, non so dove sia. Profumo di sapone sulla pelle, di prato: ora le parole acquistano quasi significato. Chi leggerà questo, un giorno? Sai dove sono, come ti capisco?
Un dolore immenso Stringeva il mio esule Corpicino. Mi sentivo spingere Ma non capivo Cosa stesse succedendo. In un attimo Vidi un chiarore accecante In lontananza. Poi raggiunsi quel chiarore E capii che era luce. Sentivo la mamma Che urlava, non avevo mai sentito la mamma urlare. Non sapevo Se le urla Fossero bene o male… Forse la mamma Provava male Come me. Una bella signora Mi stava prendendo… Ma c'erano più signore Attorno a me. Una di loro Mi ha liberato Da un fastidio Dentro la pancia È ho pianto per il male. Un'altra signora Mi ha fatto conoscere La mamma. È bella La mia mamma. La signora Mi ha preso E mi ha lavata. Ma c'era anche un signore Con loro E sono stato con lui in braccio: ho scoperto chi è il mio papà. Ho chiesto al papà Di ringraziarvi Per avermi aiutato A nascere. Ringrazio la signora Che mi ha preso la testina, la signora che bagnava la mia mamma, la signora che ha tagliato la mamma per farmi uscire più comoda, e la signora che mi ha lavato e la signora che ha fatto le punture per non fare sentire dolore alla mia mamma.
Notte fosca, attaccata ai vetri, ammanta, d'un drappo nero la città, ombre lunghe, s'allungano dai lampioni e le luci, chiarore delle insegne, i cartelli ed i neon, cose velate dal buio, assumono solo contorni vaghi; ed i pensieri, affondano nella tenebra, e si spandono, nella notte cosmica; vie desertiche, qualche rara bici, passa via; ascoltare il silenzio del buio, pensare mille pensieri, in uno, cercare di fermare tutto, per un momento.
Appare J. Kirk, in maglia gialla e mostrine, spalle larghe, torace vigoroso, guarda lo schermo, a volte volteggia sulla schiena, impugna la pistola, prende il tri corder, domanda a Spock, sguardo astuto, e risoluto, e la sua figura, vive ormai nella leggenda d'una serie, che non finisce mai.
Eccoci qua, alla mattina alle tre, cappuccino e caffè; e poi a prendere il bus, e in fretta, a galoppar, al megaufficio, che è un gran supplizio, col linguone fuori, e gran inchini, e spesso scivoloni non tanto fini, e con la lingua pastosa a dire - come è umano lei; e il piccolo ragioniere, abbassa la testa, rassegnato, e sempre pagherà, la gran cattiveria del mondo, tra i potenti, sempre più bravacci e fetenti; e una speranza c'è, la giustizia, in un paese che non c'è.
Ascoltami straniero, o visto pulviscoli lontani, nella via lattea, la terra infuocata di marte, o scorto, navi in fiamme ai confini d’Orione, desiderare, provare, esistere, più vita, padre, più vita creatore, al replicante; tra metropoli, macchine volanti, miasmi e ciminiere, smog e pioggia perenne, con città affollate, come vicoli, con dirigibili pubblicitari, bar-sushi, esseri extra mondo, vie buie e umide; dammi più vita, padre, prima che la colomba della vita, voli via; muori sporco poliziotto, che mi rubi, la poca vita rimasta, prima della fine.
Di altra luce tu rispondi - madre Luna non è tuo il sonno che ritempra dove getti quando esplode vita perché sia verde di erba prato che vita slenta a bruciante dissenno - e vita calpestano tuoi raggi i corpi che solo intendono quel bianco quel sonno quel dissenno - di nuovo, di nuovo si rintana nella notte- ma in verde prato, Luna, persino in bianco suo dissenno Padre potrai gettarti di esistenza.
Sfioriti corpi pesanti - esistenza, sei prato che leva a ustione di luce graffiante: infamia il desiderio che ti lorda e l'ira dentro, blu - cobalto che fende antracite di tenebre.
Perché tu hai vita, ma sepolta giace, mio amore, distorto ramo disseccato dove d'incausto verde urlo stride e vorrebbe gettare, ma non leva a penetrare sconfiggendo il legno e non azzarda si riduce peggio di frammenti di luce che bianco di materia discaccia da ritorno al primo grembo: coltre di neve se bianco implacato possiede, madre che inerme ti ha gettato.