La sceneggiatur'alterna buone intuizioni a trucchi manipolativi/-ori che finiscono per compromettere l'importanza del messaggio e pure la storia d'amore fra le due star principali.
In mano a Truffaut si sarebbero salvate alcune scen'e il resto o sarebbe stato buttato via o sarebbe stato affrontato in maniera del tutto diversa. Muccino ha qualche idea azzeccata e pure ispirata, ma palesa una devastante discontinuità.
Citando "Mr. Smith va a Washington" (Capra, 1939) e "Oltre il giardino" (Ashby, 1979), l'utopia sociopolitica second'i reduci del Leoncavallo e del Teatro dell'Elfo (con Gabriele Salvatores, Paolo Rossi, Silvio Orlando). Si prendono sul serio, dimenticando volutamente che pure quell'utopia s'è dimostrata fallimentare.
Squalliduccio, però null'al confronto del sequel: 3 sceneggiatori e zero idee, cast folto ma inetto, regista non pervenuto se non per la sua atavica fissa col conflitto intergenerazionale.
Rispetto alla situazione odierna, immagino che il marxism'ortodosso di Loach sia inattual'e bisognoso d'un profondo aggiornamento, però alcuni cardini non sono mutati. 1) "Ritiro l'offerta, Padre. Lei ascolta [nel confessionale], ma soltanto quando siamo in ginocchio" ("I take it back, Father. You do listen [in the confessional], but only when we're on our knees." Nel 2° dopoguerra Bloch avrebbe chiamato questa strenua difesa della dignità umana "l'ortopedia del camminare eretti" ("the orthopedics of the upright posture"). 2) Agghiacciante pure la frase del capitalista, convinto d'essere l'unico vero benefattore dell'umanità grazie alla sua filantropia.
Dopo ch'a Reeves è morta la donna, in "Matrix" così come nella vita real'e in questo film, gl'è rimast'un odio vendicativo e monoespressivo da giustiziere ammàzzatutti, fra una baldoria di carneficina, coreografie di sparatorie, balletti di violenza, adrenalin'omicìda vers'ogni "man in black" di NY. Un po' action, un po' noir, un po' wuxia, un po' splatter: i consuet'ingredienti da cinegame cartoonesco per un b-movie con sequel già pronto. Ritrovate una donn'a Keanu, plz. E magari pur'un nuovo Maestro: evidente che la pet therapy non gli basta.
In collaborazione con Orietta Anibaldi
Uno dei capolavori d'Allen, il suo lascito testamentario intriso di formaldeide come neppure "Il settimo sigillo" dell'amato Bergman. Se in "Basta che funzioni" (2009) l'aspirante suicìda ancora si salvava atterrando sulla donna che sarebbe diventata la sua futura compagna, stavolta fra Eros e Thanatos quest'ultimo vince senza riserve e la funzione esorcistica dell'umorismo s'arrende senza condizioni. Cupo e amarissimo, al cospetto del Tempo che schianta il desiderio amoroso di giovani e anziani e che irride l'effimera immortalità d'accatto della notorietà, ambientato nell'Urbe Eterna già scelta per analoghe conclusioni sia ne "L'imperatore di Roma" (1987) che ne "Il ventre dell'architetto" (sempre 1987), è un film disturbante da cui si prendono le distanze spacciandolo per ciò che non è, un'opera incentrata sui cliché del malcostume nostrano, una "vacanza romana" del (quello sì) macchiettistico newyorkese psiconevrotico, ossessivo e compulsivo. Troppo indigesto per poter essere compreso e apprezzato nel suo nucleo essenziale: il ventaglio completo delle sfaccettature identitarie di Woody triturate e annientate dinanzi alla Morte. "Ridi pagliaccio" fra stradine e viottoli laterali di matrice neorealistica, omaggio al meglio dell'arte italiana.
Uno dei capolavori d'Allen, il suo lascito testamentario intriso di formaldeide come neppure "Il settimo sigillo" dell'amato Bergman. Se in "Basta che funzioni" (2009) l'aspirante suicìda ancora si salvava atterrando sulla donna che sarebbe diventata la sua futura compagna, stavolta fra Eros e Thanatos quest'ultimo vince senza riserve e la funzione esorcistica dell'umorismo s'arrende senza condizioni. Cupo e amarissimo, al cospetto del Tempo che schianta il desiderio amoroso di giovani e anziani e che irride l'effimera immortalità d'accatto della notorietà, ambientato nell'Urbe Eterna già scelta per analoghe conclusioni sia ne "L'imperatore di Roma" (1987) che ne "Il ventre dell'architetto" (sempre 1987), è un film disturbante da cui si prendono le distanze spacciandolo per ciò che non è, un'opera incentrata sui cliché del malcostume nostrano, una "vacanza romana" del (quello sì) macchiettistico newyorkese psiconevrotico, ossessivo e compulsivo. Troppo indigesto per poter essere compreso e apprezzato nel suo nucleo essenziale: il ventaglio completo delle sfaccettature identitarie di Woody triturate e annientate dinanzi alla Morte. "Ridi pagliaccio" fra stradine e viottoli laterali di matrice neorealistica, omaggio al meglio dell'arte italiana.