Sfioriti corpi pesanti - esistenza, sei prato che leva a ustione di luce graffiante: infamia il desiderio che ti lorda e l'ira dentro, blu - cobalto che fende antracite di tenebre.
Perché tu hai vita, ma sepolta giace, mio amore, distorto ramo disseccato dove d'incausto verde urlo stride e vorrebbe gettare, ma non leva a penetrare sconfiggendo il legno e non azzarda si riduce peggio di frammenti di luce che bianco di materia discaccia da ritorno al primo grembo: coltre di neve se bianco implacato possiede, madre che inerme ti ha gettato.
Sia luce oggi, madre Luna, splendidamente nera levati di blu-cobalto, mentre segue l'anima insieme a te ustionando - esigere che l'anima non arda è chiedere al fuoco stesso di grembo di esistenza non più ardere, vivo, soltanto vivo nel silenzio bianco.
Semplicemente hai pensato la luce mio prato lontano da disperdersi, anima che sola tensione hai la clausura- di rado per lievi attimi sfiorata da levarsi di luna livida ustione imprevedibile se desiderio blu - cobalto di avide comete ti sceglie cibo- non trova altro e ha fame.
Il momento del parlare mi tolse fiato, e nella stanza della sera giovane fu un sussulto di coraggio. Nell'istante scrutai i tuoi occhi, le tue mani non ritratte: la mia intenzione ristette, poi si ruppe senza fragore. I sussurri si amalgamarono sui libri, sui muri, contro le finestre, all'ora che chiama l'uomo all'uscire. E uscimmo nel lieve spirare di un vento zingaro.
Tacciono le tue parole, lontane, e volano senza toccarti i miei pensieri a briglia sciolta. Di lungi tuona felice il temporale di luglio, e copre la tua voce assente, baluginante nel ricordo, con lampi incerti di noia. Non saprai quel sentire per te che segreto è al nostro cuore; è un pensiero, un regalo che lumeggia invano alle tue palpebre chiare. È la promessa che solleva foglie d’emozione, e si lascia l’estate alle spalle.
Gli amici sorridono in questa casa sorda, intrecciamo le nostre malinconie, le nostre paure, le nostre speranze giganti a due accordi di chitarra, a un bicchiere di vino che brilla nel buio straniero di questo giorno senza coraggio che è nato.
Sono per ora lontani gli affanni, i sospiri sognati, gli occhi che non abbiamo il coraggio di guardare, gli occhi che non vogliamo dimenticare, i silenzi carichi di angosce forse già vissute, oppure di gioie da cogliere nel soffio dello scirocco.
Questa terra non è nostra, ci culla e ci respinge, torniamo alla pianura senza orizzonte dell'inverno, alla neve che buca la nebbia dei nostri minuti strani, alle usate preoccupazioni dell'oggi senza tempo lontani da quel vento di scirocco che ci seduce e ci abbandona.
Quando, con infantile e spietata ironia, mi svelano innanzi i protagonisti monchi del mio passato come spade, come lance essi penetrano nel mio cuore come se io fossi l’unica colpevole disposta e destinata a pagare. La vergogna e l’inferiorità insensate crescono mio malgrado, ma col mio permesso, ed io stessa in un istante spaventoso percepisco ciò che fino a quel momento mi curavo di ignorare sistematicamente. La mia mente è squassata da ciò che altri dipingono e costruiscono su di me senza curarsi o domandarmi nulla. La loro ingenua e sagace crudeltà, più o meno consapevole, più o meno giustificata o colpevole, gioca a ridurmi in silenzio: un goffo pagliaccio, una marionetta senza nerbo né arbitrio che s’agita ed arrossisce tentando di non attirare attenzione sola sul palcoscenico. Le risate e la pietà del pubblico di cui fino a quel momento non ero cosciente risuonano invadenti nella mia testa, violentandola e lasciandola stordita da un imbarazzante inettitudine per cui, malgrado tanti sforzi, non trovo colpevoli. E mentre cala il sipario sulla mia commedia inconsapevole resto seduta, immobile nel buio aspettando il Secondo Atto e riflettendo amaramente sul fascino dell’ignoranza e sulla sua forza, sulla cattiveria dei punti di vista e del relativismo esistenziale che contemporaneamente mi costringe ad odiare comprendere e invidiare gli atteggiamenti pseudospensierati del mio pubblico umanamente pettegolo
Rimprovero al mio corpo non la sua debolezza, ma la sua forza, la sua solidità, quando, mio malgrado, reagisce ed io muoio della consapevolezza di non riflettere fuori da me la fragilità della mia anima.
Abbiamo costruito templi dorati abitandoli di variopinte divinità, cerchiamo rifugio, ovunque, in terra e in cielo, con ogni mezzo ed ogni fantasia; rifugio da noi stessi, dagli altri, dalla vita e dalla morte. Ci inebriamo di conoscenze illudendoci d’immortalità. Desolati frammenti organici, non capiamo cosa siamo né come sia possibile la nostra esistenza. Entriamo in chiese e laboratori con le stesse paure e le stesse speranze. Temiamo di essere disillusi e invochiamo una qualche certezza comoda al nostro futuro. Ogni giorno ci ubriachiamo di professioni di fede, e ci sentiamo protetti, ci sentiamo conquistatori.