Il mio secolo non mi fa paura, il mio secolo pieno di miserie e di crudeltà il mio secolo coraggioso e eroico. Non dirò mai che sono vissuto troppo presto o troppo tardi. Sono fiero di essere qui, con voi. Amo il mio secolo che muore e rinasce un secolo i cui ultimi giorni saranno belli: il mio secolo splenderà un giorno come i tuoi occhi.
Senza nessuna ragione qualcosa si rompe in me e mi chiude la gola Senza nessuna ragione sobbalzo ad un tratto lasciando a mezzo lo scritto senza nessuna ragione nella hall di un albergo sogno in piedi senza nessuna ragione l'albero sul marciapiede mi batte in fronte
senza nessuna ragione un lupo urla alla luna iroso infelice affamato senza nessuna ragione le stelle scendono a dondolarsi sull'altalena del giardino senza nessuna ragione vedo come sarò nella tomba senza nessuna ragione nebbia e sole nella mia testa senza nessuna ragione mi attacco al giorno che inizia come se non dovesse finire mai più e ogni volta sei tu che sali dalle acque.
Sei appena uscito di prigione e appena uscito ecco tua moglie incinta. La sera la prendi sottobraccio. Ve ne andate a passeggio per le strade del quartiere. Ha il ventre quasi fino al naso tua moglie. E il suo peso sacro lo porta con civetteria. Tu sei fiero e pieno di rispetto. Fa fresco, una freschezza come le mani di un bimbo infreddolito. I gatti del quartiere aspettano attorno alla macelleria. Al primo piano, la macellaia ricciuta, i grossi seni appoggiati sul davanzale, contempla il tramonto. In mezzo al cielo compare una stella, limpida e bella come un bicchier d'acqua. L'estate è durata a lungo quest'anno e se i gelsi sono ingialliti, i fichi sono ancora verdi. Refik, il tipografo, e la figlia più giovane di Jorghi, il lattaio, passeggiano su e giù, con le dita intrecciate. Karabè, il pizzicagnolo, ha già acceso le luci. Quest'armeno non ha dimenticato il massacro di suo padre tra le montagne curde. Ma a te, ti vuol bene. Anche tu non li puoi perdonare quelli che hanno messo questo marchio sulla fronte del popolo turco. I malati, i tisici del quartiere guardano da dietro i vetri. Il figlio di Nuriye, la lavandaia, disoccupato, ingobbito dalla tristezza, s'avvia verso la bettola. In casa di Rahmi si sente il radio-giornale. Hanno mandato 4500 ragazzi in un paese dell'Estremo Oriente per massacrare i loro fratelli, dal viso giallo lunare. Il tuo viso arrossisce di collera e di vergogna. Non sei obiettivo, no, al diavolo, ma triste di una tristezza tua propria, una tristezza con le mani e i piedi legati, come se fossi ancora in prigione, e giù in guardina sentissi i gendarmi battere i contadini . La notte è caduta. Il passeggio serale è terminato. Una jeep della polizia entra nella strada. Tua moglie sussurra: "andrà a casa? ".
I giorni son sempre più brevi le piogge cominceranno. La mia porta, spalancata, ti ha atteso. Perché hai tardato tanto?
Sul mio tavolo, dei peperoni verdi, del sale, del pane. Il vino che avevo conservato nella brocca l'ho bevuto a metà, da solo, aspettando. Perché hai tardato tanto?
Ma ecco sui rami, maturi, profondi dei frutti carichi di miele. Stavano per cadere senz'essere colti se tu avessi tardato ancora un poco.
Ti svegli. Dove sei? A casa. Non hai potuto ancora abituarti: al tuo risveglio trovarti a casa. Ecco quel che ti lasciano tredici anni di carcere.
Chi c'è nel letto, accanto a te? Non è la solitudine, è tua moglie. Dorme coi pugni chiusi, come un angelo. Le dona, essere incinta. Che ore sono? Le otto. Possiamo dunque star tranquilli fino a sera. È l'uso, la polizia non fa irruzione in pieno giorno.
Finché ancora tempo, mio amore e prima che bruci Parigi finché ancora tempo, mio amore finché il mio cuore è sul suo ramo vorrei una notte di maggio una di queste notti sul lungosenna Voltaire baciarti sulla bocca e andando poi a Notre-Dame contempleremmo il suo rosone e a un tratto serrandoti a me di gioia paura stupore piangeresti silenziosamente e le stelle piangerebbero mischiate alla pioggia fine.
Finché ancora tempo, mio amore e prima che bruci Parigi finché ancora tempo, mio amore finché il mio cuore è sul suo ramo in questa notte di maggio sul lungosenna sotto i salici, mia rosa, con te sotto i salici piangenti molli di pioggia ti direi due parole le più ripetute a Parigi le più ripetute, le più sincere scoppierei di felicità fischietterei una canzone e crederemmo negli uomini.
In alto, le case di pietra senza incavi né gobbe appiccicate coi loro muri al chiar di luna e le loro finestre diritte che dormono in piedi e sulla riva di fronte il Louvre illuminato dai proiettori illuminato da noi due il nostro splendido palazzo di cristallo.
Finché ancora tempo, mio amore e prima che bruci Parigi finché ancora tempo, mio amore finché il mio cuore è sul suo ramo in questa notte di maggio, lungo la Senna, nei depositi ci siederemmo sui barili rossi di fronte al fiume scuro nella notte per salutare la chiatta dalla cabina gialla che passa - verso il Belgio o verso l'Olanda? - davanti alla cabina una donna con un grembiule bianco sorride dolcemente.
Finché ancora tempo, mio amore e prima che bruci Parigi finché ancora tempo, mio amore.
Entrate, amici miei, accomodatevi siate i benvenuti mi date molta gioia. Lo so, siete entrati per la finestra della mia cella mentre dormivo. Non avete rovesciato la brocca nè la scatola rossa delle medicine. I visi nella luce delle stelle state mano in mano al mio capezzale.
Com'è strano vi credevo morti e siccome non credo nè in Dio nè all'aldilà mi rammaricavo di non aver potuto offrirvi ancora un pizzico di tabacco.
Com'è strano vi credevo morti e voi siete venuti per la finestra della mia cella entrate, amici miei, sedetevi siate i benvenuti mi date molta gioia.
Hascìm, figlio di Osmàn, perché mi guardi a quel modo? Hascìm figlio di Osmàn è strano non eri morto, fratello, a Istanbul, nel porto caricando il carbone su una nave straniera? Eri caduto col secchio in fondo alla stiva la gru ti ha tirato su e prima di andare a riposare definitivamente il tuo sangue rosso aveva lavato la tua testa nera. Chi sa quanto avevi sofferto.
Non restate in piedi, sedetevi. Vi credevo morti. Siete entrati per la finestra della mia cella i visi nella luce delle stelle siate i benvenuti mi date molta gioia.
Yakùp, del villaggio di Kayalar salve, caro compagno, non eri morto anche tu? Non eri andato nel cimitero senz'alberi lasciando ai tuoi bambini la malaria e la fame? Faceva terribilmente caldo, quel giorno e allora, non eri morto?
E tu, Ahmet Gemìl, lo scrittore? Ho visto coi miei occhi la tua bara scendere nella fossa. Credo anche di ricordarmi che la tua bara fosse un po' corta per la tua statura.
Lascia stare, Gemìl vedo che ce l'hai sempre, la vecchia abitudine ma è una bottiglia di medicina, non di rakì. Ne bevevi tanto per poter guadagnare cinquanta piastre al giorno e dimenticare il mondo nella tua solitudine.
Vi credevo morti, amici miei state al mio capezzale la mano in mano sedete, amici miei, accomodatevi. Benvenuti, mi date molta gioia.
La morte è giusta, dice un poeta persiano, ha la stessa maestà colpendo il povero e lo scià. Hascìm, perché ti stupisci? Non hai mai sentito parlare di uno scià morto in una stiva con un secchio di carbone? La morte è giusta, dice un poeta persiano.
Yakùp mi piaci quando ridi, caro compagno non ti ho mai visto ridere così quando eri vivo ... Ma lasciatemi finire la morte è giusta dice un poeta persiano ...
Lascia quella bottiglia, Ahmer Gemìl, non t'arrabbiare, so quel che vuol dire affinché la morte sia giusta bisogna che la vita sia giusta.
Il poeta persiano ... Amici miei, perché mi lasciate solo?