Le migliori poesie inserite da Nello Maruca

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Scritta da: Nello Maruca

Il garofano

Era un giugno luminoso
che compare rigoglioso,
nell'orto del mio ostello,
il garofano assai bello.

Nasce accosto alla rosa
che da un po' s'era già posa
là, nel mezzo alle viole
per far splendere più il sole.

Il garofano all'istante
rende il sol'incandescente
giacché in faccia gli riflette
com'esso alle alte vette.
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    Scritta da: Nello Maruca

    L'ingannevole

    Al nefasto giudicio che destommi tema
    desolato mi dipartii e senza speme.
    Fu il dispero, tutto mi fu nero
    spiraglio alcuno non vedea, invero.
    Conobbi l'impotente debolezza,
    nullo e nessuno davami certezza.
    Nel Tempio mi trovai degl'Alemanni
    come deporre i tanti, molti affanni.
    Andò per tempo, non ricordo quanto,

    dalla Croce, la vista, all'Azzurro Manto.
    D'automa movenza fu all'accender cero,
    col cuore lo feci palpitante e nero.
    Quella fiammella tremula, pencolante
    poscia per l'alma mia fu illuminante.
    Parea un varco mi si fosse aperto
    in mezzo quel che grande era sconcerto.

    E, poi, di nuovo cupa desolazione
    e immensa ancora fu disperazione.
    Col cuore infranto, stanco, sconfortato
    in casa mi trovai, da trasportato.
    Mentre mi riportavo al luogo mesto **
    fu il pensiero mio determinato e desto
    a ripassar in quel ch'è Sacro Luogo
    onde scrollarmi del pesante giogo.

    Lì, rimasi infreddolito e stanco
    con quella spina che pungeami il fianco;
    Lo guardo riandò su l'Effige Santa
    e poi portossi alla Donna Santa,
    e mentre la guardavo la pregavo
    e nella prece tutto mi donavo
    e mi pareva d'essere ascoltato
    e mi pareva d'essere consolato.

    E più guardavo quell'Effige Santa:
    Abbi fiducia, abbine sì tanta
    e più parea che cenno mi facesse
    quasi che dir qualcosa mi volesse.
    L'Effige ch'è in Croce mi rispose,
    sulla testa Maria la Mano santa pose
    e quel ch'accadde, poi, non parmi vero:
    Schiarito fu, quel ch'era tutto nero.

    Ed il sorriso ritornommi in viso,
    lievi sentii le spalle, senza peso;
    leggero dentro, senz'alcun tormento
    un guardo, un grazie volsi al Firmamento.
    Schiacciato fu il diagnosticato prima
    poiché riposto avea tutta mia stima
    al Creator di tutto, al Redentore
    che sa donare gioia ad ogni cuore.

    Quanto l'Onnipotente è umile e verace
    tanto sei, uomo, tronfio e fallace.
    Composta lunedì 30 novembre 1998
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      Scritta da: Nello Maruca

      Il patimento

      In quel quarantatré, dai suoi albori
      di quante tristi cose furon'orrori,
      quante anormali cose ebber processo
      tutto in memoria bene m'è impresso.
      Per quanto m'opri e sproni l'intelletto
      su carta, certo, non può esser detto
      quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto
      in quel periodo nero, infame e tristo.

      Aleggiava miseria tutt'intorno
      e pane non era più in nessun forno;
      grano non era né farina o pasta
      e pochi i viveri distribuiti a testa.
      La tessera donava misero diritto
      ad accedere a poco, grame vitto;
      la fame in ogni dove era perenne,
      da sofferenza vecchio era trentenne.

      Prodotto non donava più la terra;
      era periodo tristo, era la guerra!
      Manco erba era agli argini di via
      ch'er'estirpata che nascesse pria.
      Di medicina, poi, non era traccia
      e il patimento si leggeva in faccia.
      V'era, soltanto, del poco chinino
      che scarso lo teneva il tabacchino.

      Nessuno al piede più avea calzare,
      nessuno panni aveva da indossare.
      Occhio scavato, zigomo sporgente,
      testa cadente, sguardo triste e assente.
      Scalza la donna, macilenta e stanca
      di cenci avea coperto spalla e anca;
      gobba teneva e non avea vent'anni,
      curve le spalle per i molti affanni.

      Ovunque era sporcizia, era lordura,
      di scarafaggi piena ogni fessura;
      di cimice e di mosche era marea,
      pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea.
      Necessità del corpo fisiologica
      soddisfava in vaso di ceramica
      la donna, il maschio, con corruccio
      di cesso ne faceva ogni cantuccio.

      Mesta sonava la campana a lutto
      per annunciare della guerra il frutto;
      quel tocco come freccia il cuor passava,
      piangea la donna, ahimè, chi non tornava.
      Per quella guerra dal passo stanco e lento
      altro Virgulto risultava spento
      e la speme che nutria la giovinetta
      era infilzata dalla baionetta.

      Di fame sofferente e di stanchezza
      gente che perso avea casa e ricchezza
      giungeva con scarsi panni addosso
      ch'al sol vederla umano era commosso.
      Siamo sfollati, venivano dicendo,
      veniamo da lontano, veniamo da Trento.
      Avevamo mestiere professione e arte
      delle vostre miserie deh! Fateci parte.

      Dacché la guerra su nostra Terra regna
      destino cattivo i nostri animi segna;
      dacché l'odio è calato come lampo
      manco nella preghiera avemmo scampo.
      E noi, che poveri eravamo non meno d'essi
      in un abbraccio a loro stemmo commossi,
      le nostre alle loro lacrime mischiammo
      e l'un con l'altro un solo corpo fummo.

      Di militi a cavallo e giacca a vento
      era un esteso, grand'accampamento.
      Militi stavano a guardia per cancello
      e avevano disloco in area Polpicello,
      Portavano divise lacere a stellette
      e a pranzo sgranavano gallette
      con poco vitto ch'era in scatolame,
      per appagare i morsi della fame.

      In questo quadro triste e desolante
      v'era qualcosa, però, di sublimante.
      Era quel canto che s'innalzava al cielo
      da dentro le baracche a verde telo.
      Gl'inni di Patria che i militi intonavano
      con orgoglio pel cielo veleggiavano
      e nell'udirli: Grandezza del Divino!
      Non era fame, nemmen tristo destino.
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        Scritta da: Nello Maruca

        Strazio

        Dolce per l'aria un suono va vagando
        l'orecchio armoniosamente deliziando,
        come del mare l'onda fluttuante
        ora anelante, or più pacatamente.

        Carezzevole un canto l'accompagna
        dal villaggio, pei boschi, alla campagna
        da zeffiro, piacevolmente, sostenuto
        come bianco Angelo in ali convenuto.

        Vecchio canuto dagli occhi penetranti,
        barba a peli bianchi, mani tremanti,
        faccia triste e stanca, espressione mesta,
        la testa tra le mani, pensoso, resta.

        Ripensa al tempo andato, per l'anima
        sprecato, ritorna agli anni d'oro, rivive
        le ballate, le serenate ch'ora non sublima,
        i dolci canti, i suoni, le passioni estive.

        Suo comportar calato l'ha nel fondo,
        i dolci suoni che in aria mena i venti
        gli anni addolcendo, orecchi carezzando,
        per gl'anni ch'ora compie, sono strazianti.

        Chi l'animo ha deterso d'ogni ruina
        e dell'altrui bene ha fatto sua dottrina
        sol egli letificare può del festeggiare
        giacché in petto è amore a spazieggiare.

        Altri non può, l'animo ne ha rigetto;
        percorso non ha la via dal passo stretto
        che dritto mena al benevolo cospetto
        di Chi, per noi, trafitto ha il Santo Petto.
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          Scritta da: Nello Maruca

          Intemperanza politica

          Mi trovavo, di mattino, al Municipio
          giacché sbrigar dovevo un'incombenza;
          di botto fui d'ergumeni in corto spazio
          che perso aveano il senso della decenza.
          L'un volgarmente all'altro si scagliava
          mentre quell'altro, in urla, bestemmiava;
          l'uno del ladro dava al suo collega
          l'altro parea avere gusto a brutta bega.

          L'uno la Benemerita invocava
          l'altro, la strozza, d'un balzo afferrava;
          quello di stazza grossa ed imponente
          rendea quell'altro nullo ed impotente.
          Fortuna l'ali stese, in quel frangente,
          giacché trovavansi vigorosa gente
          che, il piccolo sollevava con veemenza
          e al bisonte entrava in colluttanza.

          Ed or, ciò detto, pure il mio pensiero,
          mi si consenta esponga: Degrado
          peggiore esser non potrebbe se al guado
          d'aspettar il collega l'altro n'è altero:
          Miserabili, di cordata, furon compagni
          per conquistare un umile sgabello
          e non disdegnaro neppur loschi convegni
          amando coda di leone a capo d'agnello.

          Di bega e lascivia la gente non ha usanza,
          nel rispetto di legge vuole governanza;
          necessita, d'amministratori, vera presenza
          che alla comunità dia rispondenza.
          Uomini, quindi, di governo degni
          di rispetto intrisi, non di sdegni,
          ch'abbiano per sol fine bene comune
          e interessenze mai, giammai niune.

          Chi della cosa pubblica ha la reggenza
          non stia un letargo e misera temperanza;
          s'adoperi a togliere crosta e indecenza,
          dimostri ancor fermezza e sua prestanza
          pur senza dare sfogo all'impazienza.
          Ridoni al popolo suo persa speranza,
          fà che ripudio non tocchi comunanza
          e designi il consigliere per competenza.
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            Scritta da: Nello Maruca

            Il mare

            Distesa immensa d'azzurr'acque
            che l'uman'occhio non discerne fine
            ché al ciel che sovrasta non trova confine
            mai duoma d'uomo, ch'anzi sempre soggiacque
            a tua possanza, mano divin ti mena
            ch'innalza l'onde e infrange sulla rena,
            con fragor le riporta nel tuo seno
            e, come se grembo fosse troppo pieno

            le confonde, le avvolge, le sparpaglia,
            le compatta, le invola come vento paglia,
            con vigor le rigetta sulla spiaggia
            e tutt'intorno è nugolo di pioggia.
            Di superficie pianeggiante e liscia
            come prat'erboso dove capra pasce
            ricca nel fondo di mollusco e pesce
            custode, pure, di crostaceo e bisce.

            Abitatori, nel ventre, mostri marini
            culli come in seno mamma bambini.
            Li trasporti dall'uno all'altro lido
            pari rondine verme al proprio nido.
            Prodiga nel dare gioia e contento
            rallegri umanità piccola e grande;
            l'onde sen vanno al ritmo del vento
            ponendo a spiaggia altalenanti fronde

            divelte d'intemperia alle madri piante.
            Al pari delle gioie che son tante
            di dispiaceri l'umanitade inondi
            e quelle ch'eran pria carezzevol'onde
            brute divengono in un sol'istante,
            né suppliche odon, mai, né lamenti,
            né grida le scuotono e nemmeno pianti,
            seminano lutti senz'alcun compianto.

            Nessuno su di esse ebbe mai vanto.
            Mare! Del Globo in ogni terra vivi,
            i fiumi tutti raccogli e in grembo
            porti e sempre stesse emozion rivivi
            sia che balena carezzi o pesce rombo.
            Mare possente! Che le fort'onde, sulla
            spiaggia, schiumeggianti abbatti;
            mai cosa al mondo, niuno e nulla

            osato pensare han mai che ti combatti.
            Spengi perfino gl'incendiari razzi
            che repentinamente annienti e abissi.
            Mai tema avesti d'uomini e di mezzi
            contro ogni cosa e ognuno segni successi.
            Or burrascoso sei ed ora quieto,
            ora nervoso appari ed or disteso
            e i pesci pasci senz'alcun divieto,

            natanti porti di gran mole e peso.
            L'orca gestisci dal vorace istinto
            com'anco l'alice a cattiveria non usa.
            Alla Sirena dal divino canto
            tua porta, da sempre, lasci schiusa.
            Bellezza tant'è in te, mare divino!
            Somiglia il tuo splendore a bel giardino.
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              Scritta da: Nello Maruca
              Sentivo dir di te, Padre, che c'eri
              a mamma che a Maria ardeva ceri,
              sentivo dir che stavi in lontan loco
              quando raccolti s'era accanto al fuoco.
              Parlar sentivo d'Africa Orientale:
              Speriamo, si pregava, ritorni per Natale.
              Mamma in ginocchio: a Dio, tua volontà,
              fa che torni a questi bimbi il lor papà.

              Fa che ritorni a noi il gran tesoro:
              Così, faceanci cantare tutti in coro,
              fa che ritorni a noi il dolce amore
              che qui l'aspetta il pezzo del suo cuore.
              Io non sapevo l'Africa che fosse
              né capivo papà che dir volesse,
              ma un giorno don Arlia* nell'Omelia
              disse esser figlio alla Vergine Maria.

              Indi la mamma che m'avea per mano
              spiegommi che un papà l'ha ogni umano.
              Il tuo, mi disse, sta in altra Terra
              dove chiamato è a far la guerra.
              Ma tosto tornerà: Vedrai che bello!
              La casa allieterà come fringuello
              e mi descrisse, poi, la sua bellezza
              e il cuore mio fu colmo d'allegrezza.

              Fu nell'estate del quarantacinque
              che nelle braccia forti sue mi cinse,
              sul volto dipinto avea l'amore,
              forte batteva il piccolo mio cuore.
              Seguirono, ricordo, giorni felici,
              Non tornarono più: Furon fugaci.
              Furono quando la mano sua possente
              davami il senso d'essere saliente.

              Erano tempi duri, era la fame;
              necessitava ricercare il pane.
              Lo facesti, Papà, coi bidoni in mano
              andando dalla casa ancor lontano.
              A cavalcioni stavi ai respingenti
              di quei vagoni merce traballanti
              ché posto non era su miglior convoglio
              per chi non possedeva portafoglio.

              Fosti amico duro ma sincero,
              ti dimostrasti uomo, un uomo vero,
              burbero padre fosti m'affettuoso
              e pur nell'austerità giammai odioso.
              Sotto finzione della noncuranza
              d'amor profondo segno era presenza.
              Lo sguardo torvo, l'animo benevolo
              piccolo sorriso tradiva finto nuvolo.

              Mi torna alla memoria il tuo dispero
              allorquando finir potevo in cimitero.
              Er'avvilito, confuso e desolato:
              Ah! Povero figlio mio, che sfortunato.
              Ma tutto è solo nella mia memoria;
              l'Anima tua s'è alzata in aria
              e il ricordo ch'è nel mio pensiero
              è che di Te, Padre, fui e sono fiero.
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                Scritta da: Nello Maruca

                Il fico

                Ogn'anno al giungere dell'estate afosa
                a noi che al fresco tuo ci si riposa
                fico, che vecchio ti ricordo d'anni assai,
                di frutto dolce non fosti avaro mai.

                Delle cure avute, quasi a dispetto,
                quest'anno di pregiati fichi fai difetto,
                giacché confronto non è coi passat'anni
                di pene mi riempi e tant'affanni.

                Ma ora che ci penso, mi ricordo,
                tutto mi torna in mente or che ti guardo:
                Tu pure l'anno scorso fosti fermo
                e prim'ancora ti mostrasti infermo.

                Qui ti lasciò mio nonno al dipartirsi
                e ancor prima il bisnonno vide aprirsi
                la bella chioma che tale fu per anni
                che, poi, curò mio padre per trent'anni.

                A loro mai donasti alcun cordoglio
                ma a me, che t'accarezzo come figlio,
                dal dispiacere m'hai levato il sonno
                come non mai a padre, nonno e bisnonno.

                Io non ho forza più di tolleranza,
                da me s'è dipartita la pazienza;
                ora m'appari come fossi morto
                perciò toglierti voglio dal mio orto.

                Con quest'arnese ch'è d'acciaio puro
                ti tolgo il fiato con un colpo duro,
                levoti, così, dal mio cospetto
                onde non far mai più alcun dispetto.

                Molto frutto, per te, questo fusto tira
                e nulla feci per muovere la tua ira;
                bene mi comportai sempre finora
                e riconoscoti mio padrone ognora.

                Per te produco, nobile signore,
                nella giornata, fresco, a tutte l'ore,
                dei tuoi bimbi soggiaccio a frusta e grida
                ferma la mano, non renderla omicida.

                La frutta la produco in abbondanza.
                son sempre pronto, in ogni circostanza,
                son sempre qui che sono ad aspettarti
                qual è lo sbaglio, forse il troppo amarti?

                Osi essere sdegnoso ed arrogante?
                Dimentichi che sono alto e importante?
                Tosto ti sfratto dall'orto e dal cospetto
                perché osi mancarmi di rispetto.

                Con questa scura ch'è tagliente
                più di quanto il tuo mordente dente
                ti stendo lesto sulla nuda terra
                giacché osasti dichiararmi guerra.

                No! non toccarmi con quel ferro rozzo;
                se morir debbo fa che sia in un pozzo:
                Mi pare a questa fine esser più degno
                che se pur vecchio, tenero è il mio legno.

                Per l'affanno di padre, nonno e bisnonno
                rimanda la mia fine al prossim'anno;
                fallo pel fresco che ti stai godendo
                e per il frutto ch'ivi oggi gustando.

                Taci! Scampo per te alcun non è,
                schiavo sei, io sono podestà e pure re
                e fermare non posso l'omicida impulso
                finché non t'ho da mia vista espulso.

                Il dolore lasciommi senza fiato
                giacché pugno violento avea sferrato
                alla base del fico, della cui ombra
                affidato avea in sonno le mie membra.
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                  Scritta da: Nello Maruca

                  La debolezza paterna

                  Allorché l'animo invaso da timori
                  e dubbi spezzommi qual fuscello
                  lo corpo in due non odi, non rancori
                  nulla tenevo e nessun fardello
                  poiché la volontà s'era dissolta
                  e latitante qual fuggiasco ai boschi
                  iva veloce in cupa nebbia avvolta
                  pensieri abbandonando buoni e loschi.

                  Intorno ruotano i conosciuti affetti
                  d'ognuno m'avvidi la profond'amarezza
                  impressa al volto qual medaglia ai petti
                  per repente paterna debolezza.
                  Mi scossi allora e superai l'umana
                  incertezza rizzando il corpo, l'anima
                  svegliando, con piglio fermo e buona
                  rinnovata lena, mi fui qual ero prima.

                  Di ciascuno cogliendo ogni bisogno
                  di giorno in giorno mi fui tanto attento
                  quanto che a me pure quel fare parve sogno
                  giacché lo pensier mio non fu più spento.
                  Quanto saliente fosse lo star me bene
                  intesi che nell'altrui sminuivano le pene
                  e la tristezza che pria copria i volti
                  dissolta fu e prese lieti risvolti.
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                    Scritta da: Nello Maruca

                    Il trombatore

                    Quel saccente "Cacasenno"
                    Nella smania di far danno
                    Come sempre, pur quest'anno
                    Ha imbastito altro inganno.
                    Con l'arte del tranello
                    Sospinge il "comparello"
                    buttarsi all'impazzata
                    a tentare la traversata;
                    indi assieme a scarpetta
                    avvelena la polpetta.
                    Acquattato tra le spine
                    te, avversario, tiene a mira
                    e tra rovi e tra spine
                    è con ansia che respira
                    Ha puntato, al petto strette,
                    tutte quante le doppiette
                    pronto a far partir le frecce.

                    Se assurgi e siedi in trono,
                    a dispetto del "nostromo"
                    mi costringi a farti un dono:
                    La promessa fò su strada
                    della sicula contrada.
                    Se sarà tuo il successo
                    venir meno non m'è concesso
                    di donar quel ch'ò promesso.
                    Se, però, ahimè non t'ergi
                    e resti fermo e non emergi
                    della sicula contrada
                    la promessa è ritirata.

                    Se assurgi oppur non ergi
                    il saccente serpentello * *furbetto
                    fuoriesce di cervello.
                    Indi sii vigile e lesto
                    giacché chiusi i luoghi adatti
                    al ricovero dei matti
                    altro posto non l'accetta
                    e perciò con furia matta
                    spranghe impugna e doppietta
                    qual suo ultimo rimedio
                    a placare rabbia e tedio.
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