Le migliori poesie inserite da Nello Maruca

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Scritta da: Nello Maruca

Il garofano

Era un giugno luminoso
che compare rigoglioso,
nell'orto del mio ostello,
il garofano assai bello.

Nasce accosto alla rosa
che da un po' s'era già posa
là, nel mezzo alle viole
per far splendere più il sole.

Il garofano all'istante
rende il sol'incandescente
giacché in faccia gli riflette
com'esso alle alte vette.
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    Scritta da: Nello Maruca

    Il patimento

    In quel quarantatré, dai suoi albori
    di quante tristi cose furon'orrori,
    quante anormali cose ebber processo
    tutto in memoria bene m'è impresso.
    Per quanto m'opri e sproni l'intelletto
    su carta, certo, non può esser detto
    quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto
    in quel periodo nero, infame e tristo.

    Aleggiava miseria tutt'intorno
    e pane non era più in nessun forno;
    grano non era né farina o pasta
    e pochi i viveri distribuiti a testa.
    La tessera donava misero diritto
    ad accedere a poco, grame vitto;
    la fame in ogni dove era perenne,
    da sofferenza vecchio era trentenne.

    Prodotto non donava più la terra;
    era periodo tristo, era la guerra!
    Manco erba era agli argini di via
    ch'er'estirpata che nascesse pria.
    Di medicina, poi, non era traccia
    e il patimento si leggeva in faccia.
    V'era, soltanto, del poco chinino
    che scarso lo teneva il tabacchino.

    Nessuno al piede più avea calzare,
    nessuno panni aveva da indossare.
    Occhio scavato, zigomo sporgente,
    testa cadente, sguardo triste e assente.
    Scalza la donna, macilenta e stanca
    di cenci avea coperto spalla e anca;
    gobba teneva e non avea vent'anni,
    curve le spalle per i molti affanni.

    Ovunque era sporcizia, era lordura,
    di scarafaggi piena ogni fessura;
    di cimice e di mosche era marea,
    pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea.
    Necessità del corpo fisiologica
    soddisfava in vaso di ceramica
    la donna, il maschio, con corruccio
    di cesso ne faceva ogni cantuccio.

    Mesta sonava la campana a lutto
    per annunciare della guerra il frutto;
    quel tocco come freccia il cuor passava,
    piangea la donna, ahimè, chi non tornava.
    Per quella guerra dal passo stanco e lento
    altro Virgulto risultava spento
    e la speme che nutria la giovinetta
    era infilzata dalla baionetta.

    Di fame sofferente e di stanchezza
    gente che perso avea casa e ricchezza
    giungeva con scarsi panni addosso
    ch'al sol vederla umano era commosso.
    Siamo sfollati, venivano dicendo,
    veniamo da lontano, veniamo da Trento.
    Avevamo mestiere professione e arte
    delle vostre miserie deh! Fateci parte.

    Dacché la guerra su nostra Terra regna
    destino cattivo i nostri animi segna;
    dacché l'odio è calato come lampo
    manco nella preghiera avemmo scampo.
    E noi, che poveri eravamo non meno d'essi
    in un abbraccio a loro stemmo commossi,
    le nostre alle loro lacrime mischiammo
    e l'un con l'altro un solo corpo fummo.

    Di militi a cavallo e giacca a vento
    era un esteso, grand'accampamento.
    Militi stavano a guardia per cancello
    e avevano disloco in area Polpicello,
    Portavano divise lacere a stellette
    e a pranzo sgranavano gallette
    con poco vitto ch'era in scatolame,
    per appagare i morsi della fame.

    In questo quadro triste e desolante
    v'era qualcosa, però, di sublimante.
    Era quel canto che s'innalzava al cielo
    da dentro le baracche a verde telo.
    Gl'inni di Patria che i militi intonavano
    con orgoglio pel cielo veleggiavano
    e nell'udirli: Grandezza del Divino!
    Non era fame, nemmen tristo destino.
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      Scritta da: Nello Maruca

      Lacché

      Lo rossore assomiglia ad un bel fiore;
      se lo coltivi, lo curi e l'hai nel cuore
      dal gambo alla corolla resta splendore
      e in ogni ora t'inebria del suo odore.
      Ma se nol curi, lo strappi e lo calpesti
      è qual morente dagli occhi spenti e pesti.
      E se pure lo raccogli tutto quanto
      mai riavrà la primiera bellezza del suo manto.

      Così è l'uomo se decoro mantiene,
      se saldo lo rossore sempre detiene;
      ma se perde o oscura la sua faccia
      è pari al verme che sguazza nella feccia.
      E qui dire vorrei del topo di fogna
      che nella melma vive e la vergogna;
      ed è quell'uomo che col capo chino
      striscia qual biscia mentre fa l'inchino.

      È faccia porcina, aspetto orripilante,
      nel letto dell'avverso trovasi d'amante
      e sol per qualche chicco di lenticchia
      tradisce la famiglia e la sua cerchia.
      Pezzente! Fare poteva solo l'inserviente
      ma lo portaro in cima: Ad assistente.
      E pure se insuperbito dell'alto rango
      la nostalgia lo rituffò nel fango...

      Di limo in limo, ahimè, vaga strisciando
      ed or questo padrone or quel servendo
      ansimando ricerca lo caldo d'altro fuoco
      ma ognuno lo manda altrove: In altro loco.
      Stolto! Crede di fare dell'inciucio
      e non s'accorge d'esser nato ciuccio.
      Cerca di gareggiare con abili cervelli
      ma è solamente il re degl'asinelli.

      Assicurando va d'essere paladino
      del cittadino e del suo destino.
      Nemmanco fosse il Grande Napolitano
      che nel costume è retto, integro, sano.
      Invece, il vero chiodo ch'ha in mente
      è rimanere lacché del presidente.
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        Scritta da: Nello Maruca

        Strazio

        Dolce per l'aria un suono va vagando
        l'orecchio armoniosamente deliziando,
        come del mare l'onda fluttuante
        ora anelante, or più pacatamente.

        Carezzevole un canto l'accompagna
        dal villaggio, pei boschi, alla campagna
        da zeffiro, piacevolmente, sostenuto
        come bianco Angelo in ali convenuto.

        Vecchio canuto dagli occhi penetranti,
        barba a peli bianchi, mani tremanti,
        faccia triste e stanca, espressione mesta,
        la testa tra le mani, pensoso, resta.

        Ripensa al tempo andato, per l'anima
        sprecato, ritorna agli anni d'oro, rivive
        le ballate, le serenate ch'ora non sublima,
        i dolci canti, i suoni, le passioni estive.

        Suo comportar calato l'ha nel fondo,
        i dolci suoni che in aria mena i venti
        gli anni addolcendo, orecchi carezzando,
        per gl'anni ch'ora compie, sono strazianti.

        Chi l'animo ha deterso d'ogni ruina
        e dell'altrui bene ha fatto sua dottrina
        sol egli letificare può del festeggiare
        giacché in petto è amore a spazieggiare.

        Altri non può, l'animo ne ha rigetto;
        percorso non ha la via dal passo stretto
        che dritto mena al benevolo cospetto
        di Chi, per noi, trafitto ha il Santo Petto.
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          Scritta da: Nello Maruca

          Intemperanza politica

          Mi trovavo, di mattino, al Municipio
          giacché sbrigar dovevo un'incombenza;
          di botto fui d'ergumeni in corto spazio
          che perso aveano il senso della decenza.
          L'un volgarmente all'altro si scagliava
          mentre quell'altro, in urla, bestemmiava;
          l'uno del ladro dava al suo collega
          l'altro parea avere gusto a brutta bega.

          L'uno la Benemerita invocava
          l'altro, la strozza, d'un balzo afferrava;
          quello di stazza grossa ed imponente
          rendea quell'altro nullo ed impotente.
          Fortuna l'ali stese, in quel frangente,
          giacché trovavansi vigorosa gente
          che, il piccolo sollevava con veemenza
          e al bisonte entrava in colluttanza.

          Ed or, ciò detto, pure il mio pensiero,
          mi si consenta esponga: Degrado
          peggiore esser non potrebbe se al guado
          d'aspettar il collega l'altro n'è altero:
          Miserabili, di cordata, furon compagni
          per conquistare un umile sgabello
          e non disdegnaro neppur loschi convegni
          amando coda di leone a capo d'agnello.

          Di bega e lascivia la gente non ha usanza,
          nel rispetto di legge vuole governanza;
          necessita, d'amministratori, vera presenza
          che alla comunità dia rispondenza.
          Uomini, quindi, di governo degni
          di rispetto intrisi, non di sdegni,
          ch'abbiano per sol fine bene comune
          e interessenze mai, giammai niune.

          Chi della cosa pubblica ha la reggenza
          non stia un letargo e misera temperanza;
          s'adoperi a togliere crosta e indecenza,
          dimostri ancor fermezza e sua prestanza
          pur senza dare sfogo all'impazienza.
          Ridoni al popolo suo persa speranza,
          fà che ripudio non tocchi comunanza
          e designi il consigliere per competenza.
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            Scritta da: Nello Maruca

            Il mare

            Distesa immensa d'azzurr'acque
            che l'uman'occhio non discerne fine
            ché al ciel che sovrasta non trova confine
            mai duoma d'uomo, ch'anzi sempre soggiacque
            a tua possanza, mano divin ti mena
            ch'innalza l'onde e infrange sulla rena,
            con fragor le riporta nel tuo seno
            e, come se grembo fosse troppo pieno

            le confonde, le avvolge, le sparpaglia,
            le compatta, le invola come vento paglia,
            con vigor le rigetta sulla spiaggia
            e tutt'intorno è nugolo di pioggia.
            Di superficie pianeggiante e liscia
            come prat'erboso dove capra pasce
            ricca nel fondo di mollusco e pesce
            custode, pure, di crostaceo e bisce.

            Abitatori, nel ventre, mostri marini
            culli come in seno mamma bambini.
            Li trasporti dall'uno all'altro lido
            pari rondine verme al proprio nido.
            Prodiga nel dare gioia e contento
            rallegri umanità piccola e grande;
            l'onde sen vanno al ritmo del vento
            ponendo a spiaggia altalenanti fronde

            divelte d'intemperia alle madri piante.
            Al pari delle gioie che son tante
            di dispiaceri l'umanitade inondi
            e quelle ch'eran pria carezzevol'onde
            brute divengono in un sol'istante,
            né suppliche odon, mai, né lamenti,
            né grida le scuotono e nemmeno pianti,
            seminano lutti senz'alcun compianto.

            Nessuno su di esse ebbe mai vanto.
            Mare! Del Globo in ogni terra vivi,
            i fiumi tutti raccogli e in grembo
            porti e sempre stesse emozion rivivi
            sia che balena carezzi o pesce rombo.
            Mare possente! Che le fort'onde, sulla
            spiaggia, schiumeggianti abbatti;
            mai cosa al mondo, niuno e nulla

            osato pensare han mai che ti combatti.
            Spengi perfino gl'incendiari razzi
            che repentinamente annienti e abissi.
            Mai tema avesti d'uomini e di mezzi
            contro ogni cosa e ognuno segni successi.
            Or burrascoso sei ed ora quieto,
            ora nervoso appari ed or disteso
            e i pesci pasci senz'alcun divieto,

            natanti porti di gran mole e peso.
            L'orca gestisci dal vorace istinto
            com'anco l'alice a cattiveria non usa.
            Alla Sirena dal divino canto
            tua porta, da sempre, lasci schiusa.
            Bellezza tant'è in te, mare divino!
            Somiglia il tuo splendore a bel giardino.
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              Scritta da: Nello Maruca

              Il destino

              O che sorriso sia oppure lagna
              L'ineluttabile destino t'accompagna
              Così come legge Suprema ha stabilito
              Finché il corso di vita sarà finito.

              Deciso è sin dall'attimo vitale
              Quale d'ognuno sarà il percorso reale;
              potere sovrumano l'ha stabilito
              e mutamento non si avrà all'infinito.

              Per quanto ci si maceri e dimeni
              Nulla si cambia l'oggi né il domani;
              nessuno mutarne mai potrà il corso
              ch'ogn'essere conficcato l'ha nel dorso-
              Così ha deciso il Re, per suo volere,
              Colui che tiene in mano ogni potere.
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                Scritta da: Nello Maruca
                Sentivo dir di te, Padre, che c'eri
                a mamma che a Maria ardeva ceri,
                sentivo dir che stavi in lontan loco
                quando raccolti s'era accanto al fuoco.
                Parlar sentivo d'Africa Orientale:
                Speriamo, si pregava, ritorni per Natale.
                Mamma in ginocchio: a Dio, tua volontà,
                fa che torni a questi bimbi il lor papà.

                Fa che ritorni a noi il gran tesoro:
                Così, faceanci cantare tutti in coro,
                fa che ritorni a noi il dolce amore
                che qui l'aspetta il pezzo del suo cuore.
                Io non sapevo l'Africa che fosse
                né capivo papà che dir volesse,
                ma un giorno don Arlia* nell'Omelia
                disse esser figlio alla Vergine Maria.

                Indi la mamma che m'avea per mano
                spiegommi che un papà l'ha ogni umano.
                Il tuo, mi disse, sta in altra Terra
                dove chiamato è a far la guerra.
                Ma tosto tornerà: Vedrai che bello!
                La casa allieterà come fringuello
                e mi descrisse, poi, la sua bellezza
                e il cuore mio fu colmo d'allegrezza.

                Fu nell'estate del quarantacinque
                che nelle braccia forti sue mi cinse,
                sul volto dipinto avea l'amore,
                forte batteva il piccolo mio cuore.
                Seguirono, ricordo, giorni felici,
                Non tornarono più: Furon fugaci.
                Furono quando la mano sua possente
                davami il senso d'essere saliente.

                Erano tempi duri, era la fame;
                necessitava ricercare il pane.
                Lo facesti, Papà, coi bidoni in mano
                andando dalla casa ancor lontano.
                A cavalcioni stavi ai respingenti
                di quei vagoni merce traballanti
                ché posto non era su miglior convoglio
                per chi non possedeva portafoglio.

                Fosti amico duro ma sincero,
                ti dimostrasti uomo, un uomo vero,
                burbero padre fosti m'affettuoso
                e pur nell'austerità giammai odioso.
                Sotto finzione della noncuranza
                d'amor profondo segno era presenza.
                Lo sguardo torvo, l'animo benevolo
                piccolo sorriso tradiva finto nuvolo.

                Mi torna alla memoria il tuo dispero
                allorquando finir potevo in cimitero.
                Er'avvilito, confuso e desolato:
                Ah! Povero figlio mio, che sfortunato.
                Ma tutto è solo nella mia memoria;
                l'Anima tua s'è alzata in aria
                e il ricordo ch'è nel mio pensiero
                è che di Te, Padre, fui e sono fiero.
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                  Scritta da: Nello Maruca

                  Il fico

                  Ogn'anno al giungere dell'estate afosa
                  a noi che al fresco tuo ci si riposa
                  fico, che vecchio ti ricordo d'anni assai,
                  di frutto dolce non fosti avaro mai.

                  Delle cure avute, quasi a dispetto,
                  quest'anno di pregiati fichi fai difetto,
                  giacché confronto non è coi passat'anni
                  di pene mi riempi e tant'affanni.

                  Ma ora che ci penso, mi ricordo,
                  tutto mi torna in mente or che ti guardo:
                  Tu pure l'anno scorso fosti fermo
                  e prim'ancora ti mostrasti infermo.

                  Qui ti lasciò mio nonno al dipartirsi
                  e ancor prima il bisnonno vide aprirsi
                  la bella chioma che tale fu per anni
                  che, poi, curò mio padre per trent'anni.

                  A loro mai donasti alcun cordoglio
                  ma a me, che t'accarezzo come figlio,
                  dal dispiacere m'hai levato il sonno
                  come non mai a padre, nonno e bisnonno.

                  Io non ho forza più di tolleranza,
                  da me s'è dipartita la pazienza;
                  ora m'appari come fossi morto
                  perciò toglierti voglio dal mio orto.

                  Con quest'arnese ch'è d'acciaio puro
                  ti tolgo il fiato con un colpo duro,
                  levoti, così, dal mio cospetto
                  onde non far mai più alcun dispetto.

                  Molto frutto, per te, questo fusto tira
                  e nulla feci per muovere la tua ira;
                  bene mi comportai sempre finora
                  e riconoscoti mio padrone ognora.

                  Per te produco, nobile signore,
                  nella giornata, fresco, a tutte l'ore,
                  dei tuoi bimbi soggiaccio a frusta e grida
                  ferma la mano, non renderla omicida.

                  La frutta la produco in abbondanza.
                  son sempre pronto, in ogni circostanza,
                  son sempre qui che sono ad aspettarti
                  qual è lo sbaglio, forse il troppo amarti?

                  Osi essere sdegnoso ed arrogante?
                  Dimentichi che sono alto e importante?
                  Tosto ti sfratto dall'orto e dal cospetto
                  perché osi mancarmi di rispetto.

                  Con questa scura ch'è tagliente
                  più di quanto il tuo mordente dente
                  ti stendo lesto sulla nuda terra
                  giacché osasti dichiararmi guerra.

                  No! non toccarmi con quel ferro rozzo;
                  se morir debbo fa che sia in un pozzo:
                  Mi pare a questa fine esser più degno
                  che se pur vecchio, tenero è il mio legno.

                  Per l'affanno di padre, nonno e bisnonno
                  rimanda la mia fine al prossim'anno;
                  fallo pel fresco che ti stai godendo
                  e per il frutto ch'ivi oggi gustando.

                  Taci! Scampo per te alcun non è,
                  schiavo sei, io sono podestà e pure re
                  e fermare non posso l'omicida impulso
                  finché non t'ho da mia vista espulso.

                  Il dolore lasciommi senza fiato
                  giacché pugno violento avea sferrato
                  alla base del fico, della cui ombra
                  affidato avea in sonno le mie membra.
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                    Scritta da: Nello Maruca

                    Il trombatore

                    Quel saccente "Cacasenno"
                    Nella smania di far danno
                    Come sempre, pur quest'anno
                    Ha imbastito altro inganno.
                    Con l'arte del tranello
                    Sospinge il "comparello"
                    buttarsi all'impazzata
                    a tentare la traversata;
                    indi assieme a scarpetta
                    avvelena la polpetta.
                    Acquattato tra le spine
                    te, avversario, tiene a mira
                    e tra rovi e tra spine
                    è con ansia che respira
                    Ha puntato, al petto strette,
                    tutte quante le doppiette
                    pronto a far partir le frecce.

                    Se assurgi e siedi in trono,
                    a dispetto del "nostromo"
                    mi costringi a farti un dono:
                    La promessa fò su strada
                    della sicula contrada.
                    Se sarà tuo il successo
                    venir meno non m'è concesso
                    di donar quel ch'ò promesso.
                    Se, però, ahimè non t'ergi
                    e resti fermo e non emergi
                    della sicula contrada
                    la promessa è ritirata.

                    Se assurgi oppur non ergi
                    il saccente serpentello * *furbetto
                    fuoriesce di cervello.
                    Indi sii vigile e lesto
                    giacché chiusi i luoghi adatti
                    al ricovero dei matti
                    altro posto non l'accetta
                    e perciò con furia matta
                    spranghe impugna e doppietta
                    qual suo ultimo rimedio
                    a placare rabbia e tedio.
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