Poesie inserite da Nello Maruca

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Scritta da: Nello Maruca

L'affetto

Bisogno quanto l'aria per la vita,
quanto d'acqua bisognevole n'è corpo,
non meno del sangue circolante in vena,
non meno di vena trasportare sangue,
non meno di lingua a proferir parola,
non meno d'anca per deambulare,
non meno d'intelletto per capire
e quanto occhi necessitano al vedere,
non meno di narici per l'olfatto,
non meno di palato per sapore
e non meno della bocca per respiro.
Quanto di queste cose vogl'affetto.
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    Scritta da: Nello Maruca

    L'attesa

    Alfin ch'io passi dalla Porta angusta
    onde trovarmi nella Città augusta
    è mio intento seguitar via stretta
    ché di quante ne sono è sol la retta.

    Indi, se venir vuoi ad alleviar mia sorte
    aperte fuori e dentro trovi le porte;
    io sono qui che resto ad aspettare
    onde Tu giunga e possati onorare.

    Io nell'attesa sveglio restar voglio
    alfin che non ricada in nessun sbaglio
    ché non so quando e come mi pervieni,
    da quale strada, ché tante ne detieni.

    Se leggi il pensier mio, o Re Risorto,
    vedi che il cuore mio a Te è aperto,
    per questo, o mio Signore Redentore
    vieni, occupa il misero mio cuore.
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      Scritta da: Nello Maruca

      Il destino

      O che sorriso sia oppure lagna
      L'ineluttabile destino t'accompagna
      Così come legge Suprema ha stabilito
      Finché il corso di vita sarà finito.

      Deciso è sin dall'attimo vitale
      Quale d'ognuno sarà il percorso reale;
      potere sovrumano l'ha stabilito
      e mutamento non si avrà all'infinito.

      Per quanto ci si maceri e dimeni
      Nulla si cambia l'oggi né il domani;
      nessuno mutarne mai potrà il corso
      ch'ogn'essere conficcato l'ha nel dorso-
      Così ha deciso il Re, per suo volere,
      Colui che tiene in mano ogni potere.
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        Scritta da: Nello Maruca

        Paese mio

        Accovacciato ai piedi di montagna
        posto è il ridente paese dei miei sogni;
        guarda il Tirreno da sopra la campagna,
        alle spalle coperto è di castagni.

        Imponente svetta Monte Mancuso
        ricco di faggio di verde scuro foglie,
        con l'ontano pregiato di grand'uso
        l'attenzione di chi lo guarda coglie.

        Di piante verdeggianti sempre verdi
        è circondato a mò di mur di cinta,
        la gente l'accarezza di suoi guardi
        innamorata di sua verde tinta.

        Vanta tra nati di suo ventre uomini
        dottii, illustri d'ogni sorta: dottori,
        speziali e ingegneri, sonanti nomi:
        prefetti, generali ed ispettori.

        Ora paesino mio dolce ed amato,
        i tempi sono andati del passato;
        tutti gl'illustri tuoi si son dissolti
        in casse chiuse e in neri panni avvolti.

        Vivono in te solo persone ingrate
        alla materia dal bene già sviate,
        son solo belve ed avvoltoi rapaci
        che d'amor patrio più non son capaci.

        Come appassita pianta dell'alloro,
        non più ridente come gli anni d'oro,
        sol nell'orgoglio tuo mai svalutato
        rimani afflitto, là, dove sei nato.
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          Scritta da: Nello Maruca
          Sentivo dir di te, Padre, che c'eri
          a mamma che a Maria ardeva ceri,
          sentivo dir che stavi in lontan loco
          quando raccolti s'era accanto al fuoco.
          Parlar sentivo d'Africa Orientale:
          Speriamo, si pregava, ritorni per Natale.
          Mamma in ginocchio: a Dio, tua volontà,
          fa che torni a questi bimbi il lor papà.

          Fa che ritorni a noi il gran tesoro:
          Così, faceanci cantare tutti in coro,
          fa che ritorni a noi il dolce amore
          che qui l'aspetta il pezzo del suo cuore.
          Io non sapevo l'Africa che fosse
          né capivo papà che dir volesse,
          ma un giorno don Arlia* nell'Omelia
          disse esser figlio alla Vergine Maria.

          Indi la mamma che m'avea per mano
          spiegommi che un papà l'ha ogni umano.
          Il tuo, mi disse, sta in altra Terra
          dove chiamato è a far la guerra.
          Ma tosto tornerà: Vedrai che bello!
          La casa allieterà come fringuello
          e mi descrisse, poi, la sua bellezza
          e il cuore mio fu colmo d'allegrezza.

          Fu nell'estate del quarantacinque
          che nelle braccia forti sue mi cinse,
          sul volto dipinto avea l'amore,
          forte batteva il piccolo mio cuore.
          Seguirono, ricordo, giorni felici,
          Non tornarono più: Furon fugaci.
          Furono quando la mano sua possente
          davami il senso d'essere saliente.

          Erano tempi duri, era la fame;
          necessitava ricercare il pane.
          Lo facesti, Papà, coi bidoni in mano
          andando dalla casa ancor lontano.
          A cavalcioni stavi ai respingenti
          di quei vagoni merce traballanti
          ché posto non era su miglior convoglio
          per chi non possedeva portafoglio.

          Fosti amico duro ma sincero,
          ti dimostrasti uomo, un uomo vero,
          burbero padre fosti m'affettuoso
          e pur nell'austerità giammai odioso.
          Sotto finzione della noncuranza
          d'amor profondo segno era presenza.
          Lo sguardo torvo, l'animo benevolo
          piccolo sorriso tradiva finto nuvolo.

          Mi torna alla memoria il tuo dispero
          allorquando finir potevo in cimitero.
          Er'avvilito, confuso e desolato:
          Ah! Povero figlio mio, che sfortunato.
          Ma tutto è solo nella mia memoria;
          l'Anima tua s'è alzata in aria
          e il ricordo ch'è nel mio pensiero
          è che di Te, Padre, fui e sono fiero.
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            Scritta da: Nello Maruca

            La prece

            Quando il dispero l'alma avea invaso
            dell'ineluttabilità già persuaso
            un pensier fosco insinuò la mente
            e del cervello ne fu preminente
            per quel qualcosa che portommi via
            nella certezza ch'essere più non sia.
            Altro non era ragionar diverso
            ch'ogni pensier gentile era disperso.

            Prostato, un giorno, mi apprestai al Divino
            e grazia domandai pel mio destino,
            lo feci con fiducia mai avuta
            a Colui che sollievo dona, ama ed aiuta.
            Di naufrago che a tavol'aggrappato
            da fort'ondate a lungo sballottato
            che già fiducia tutta avea perduto
            e in quel relitto ebbe un fort'aiuto.

            Io aggrappommi all'Essere Supremo
            che della barca tiene timone e remo,
            pace Gli domandai con la mia prece
            e nella prece riedemi la perduta pace.
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              Scritta da: Nello Maruca

              La carità

              Amore per chi odia e che non ama,
              amore per il debole e negletto,
              amore a chi ha sete di giustizia
              e amore per lo sciocco beffeggiato
              e ancora per lo storpio e per il cieco.
              Amore per il sano e l'ammalato,
              amore per il forte e per il debole
              e pure pel potente e pel meschino.
              Amore per il sole e per la luna
              e amore per la luce e per le tenebre,
              amore per la notte e per il giorno
              e pur'anco per ognuna le stagioni.
              Amore per le fonti e per i fiumi,
              amore per i laghi e per i mari,
              amore per i monti e per i piani
              e amore per i rettili e gl'uccelli.
              Amore per la fauna e per la flora,
              amore per il cielo e il firmamento
              e amore pel creato e Creatore,
              amor per tutto quanto ci circonda
              e amore del donare senz'avere.
              Quest'è la carità, la vera carità.
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                Scritta da: Nello Maruca

                Il turbamento

                La vita è un pozzo fondo, senza fine
                ch'è pieno zeppo di miserie umane,
                per quanto tempo dura, fino alla fine,
                non son giornate che non siano vane.

                Per quanti sforzi son, per quanto t'opri,
                per quanto ti dibatti ed arrovelli,
                per quanto pace che bisogni copra
                non v'è cosa che plachi quel cervello.

                Non ragionamento che lo porta altrove,
                non problemi di natura maggiore,
                lo ritrovi ovunque e in ogni dove
                ch'è tutto scuro, pur bianco colore.

                Com'erba cattiva che su prato nasce
                che estirpata con certosina usanza
                in perseveranza presto rinasce
                a dimostrar dell'uomo l'impotenza.

                Così, quel turbamento, se si cheta
                riemerge, all'improvviso, dopo poco,
                nel cervello ritorna e non è quieta
                e fin che la vita è fa questo giuoco.

                Invero per chi ha credo è una sol via:
                è quella d'aggrapparsi al Sommo Iddio.
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                  Scritta da: Nello Maruca

                  Il patimento

                  In quel quarantatré, dai suoi albori
                  di quante tristi cose furon'orrori,
                  quante anormali cose ebber processo
                  tutto in memoria bene m'è impresso.
                  Per quanto m'opri e sproni l'intelletto
                  su carta, certo, non può esser detto
                  quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto
                  in quel periodo nero, infame e tristo.

                  Aleggiava miseria tutt'intorno
                  e pane non era più in nessun forno;
                  grano non era né farina o pasta
                  e pochi i viveri distribuiti a testa.
                  La tessera donava misero diritto
                  ad accedere a poco, grame vitto;
                  la fame in ogni dove era perenne,
                  da sofferenza vecchio era trentenne.

                  Prodotto non donava più la terra;
                  era periodo tristo, era la guerra!
                  Manco erba era agli argini di via
                  ch'er'estirpata che nascesse pria.
                  Di medicina, poi, non era traccia
                  e il patimento si leggeva in faccia.
                  V'era, soltanto, del poco chinino
                  che scarso lo teneva il tabacchino.

                  Nessuno al piede più avea calzare,
                  nessuno panni aveva da indossare.
                  Occhio scavato, zigomo sporgente,
                  testa cadente, sguardo triste e assente.
                  Scalza la donna, macilenta e stanca
                  di cenci avea coperto spalla e anca;
                  gobba teneva e non avea vent'anni,
                  curve le spalle per i molti affanni.

                  Ovunque era sporcizia, era lordura,
                  di scarafaggi piena ogni fessura;
                  di cimice e di mosche era marea,
                  pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea.
                  Necessità del corpo fisiologica
                  soddisfava in vaso di ceramica
                  la donna, il maschio, con corruccio
                  di cesso ne faceva ogni cantuccio.

                  Mesta sonava la campana a lutto
                  per annunciare della guerra il frutto;
                  quel tocco come freccia il cuor passava,
                  piangea la donna, ahimè, chi non tornava.
                  Per quella guerra dal passo stanco e lento
                  altro Virgulto risultava spento
                  e la speme che nutria la giovinetta
                  era infilzata dalla baionetta.

                  Di fame sofferente e di stanchezza
                  gente che perso avea casa e ricchezza
                  giungeva con scarsi panni addosso
                  ch'al sol vederla umano era commosso.
                  Siamo sfollati, venivano dicendo,
                  veniamo da lontano, veniamo da Trento.
                  Avevamo mestiere professione e arte
                  delle vostre miserie deh! Fateci parte.

                  Dacché la guerra su nostra Terra regna
                  destino cattivo i nostri animi segna;
                  dacché l'odio è calato come lampo
                  manco nella preghiera avemmo scampo.
                  E noi, che poveri eravamo non meno d'essi
                  in un abbraccio a loro stemmo commossi,
                  le nostre alle loro lacrime mischiammo
                  e l'un con l'altro un solo corpo fummo.

                  Di militi a cavallo e giacca a vento
                  era un esteso, grand'accampamento.
                  Militi stavano a guardia per cancello
                  e avevano disloco in area Polpicello,
                  Portavano divise lacere a stellette
                  e a pranzo sgranavano gallette
                  con poco vitto ch'era in scatolame,
                  per appagare i morsi della fame.

                  In questo quadro triste e desolante
                  v'era qualcosa, però, di sublimante.
                  Era quel canto che s'innalzava al cielo
                  da dentro le baracche a verde telo.
                  Gl'inni di Patria che i militi intonavano
                  con orgoglio pel cielo veleggiavano
                  e nell'udirli: Grandezza del Divino!
                  Non era fame, nemmen tristo destino.
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