Bisogno quanto l'aria per la vita, quanto d'acqua bisognevole n'è corpo, non meno del sangue circolante in vena, non meno di vena trasportare sangue, non meno di lingua a proferir parola, non meno d'anca per deambulare, non meno d'intelletto per capire e quanto occhi necessitano al vedere, non meno di narici per l'olfatto, non meno di palato per sapore e non meno della bocca per respiro. Quanto di queste cose vogl'affetto.
Alfin ch'io passi dalla Porta angusta onde trovarmi nella Città augusta è mio intento seguitar via stretta ché di quante ne sono è sol la retta.
Indi, se venir vuoi ad alleviar mia sorte aperte fuori e dentro trovi le porte; io sono qui che resto ad aspettare onde Tu giunga e possati onorare.
Io nell'attesa sveglio restar voglio alfin che non ricada in nessun sbaglio ché non so quando e come mi pervieni, da quale strada, ché tante ne detieni.
Se leggi il pensier mio, o Re Risorto, vedi che il cuore mio a Te è aperto, per questo, o mio Signore Redentore vieni, occupa il misero mio cuore.
O che sorriso sia oppure lagna L'ineluttabile destino t'accompagna Così come legge Suprema ha stabilito Finché il corso di vita sarà finito.
Deciso è sin dall'attimo vitale Quale d'ognuno sarà il percorso reale; potere sovrumano l'ha stabilito e mutamento non si avrà all'infinito.
Per quanto ci si maceri e dimeni Nulla si cambia l'oggi né il domani; nessuno mutarne mai potrà il corso ch'ogn'essere conficcato l'ha nel dorso- Così ha deciso il Re, per suo volere, Colui che tiene in mano ogni potere.
Sentivo dir di te, Padre, che c'eri a mamma che a Maria ardeva ceri, sentivo dir che stavi in lontan loco quando raccolti s'era accanto al fuoco. Parlar sentivo d'Africa Orientale: Speriamo, si pregava, ritorni per Natale. Mamma in ginocchio: a Dio, tua volontà, fa che torni a questi bimbi il lor papà.
Fa che ritorni a noi il gran tesoro: Così, faceanci cantare tutti in coro, fa che ritorni a noi il dolce amore che qui l'aspetta il pezzo del suo cuore. Io non sapevo l'Africa che fosse né capivo papà che dir volesse, ma un giorno don Arlia* nell'Omelia disse esser figlio alla Vergine Maria.
Indi la mamma che m'avea per mano spiegommi che un papà l'ha ogni umano. Il tuo, mi disse, sta in altra Terra dove chiamato è a far la guerra. Ma tosto tornerà: Vedrai che bello! La casa allieterà come fringuello e mi descrisse, poi, la sua bellezza e il cuore mio fu colmo d'allegrezza.
Fu nell'estate del quarantacinque che nelle braccia forti sue mi cinse, sul volto dipinto avea l'amore, forte batteva il piccolo mio cuore. Seguirono, ricordo, giorni felici, Non tornarono più: Furon fugaci. Furono quando la mano sua possente davami il senso d'essere saliente.
Erano tempi duri, era la fame; necessitava ricercare il pane. Lo facesti, Papà, coi bidoni in mano andando dalla casa ancor lontano. A cavalcioni stavi ai respingenti di quei vagoni merce traballanti ché posto non era su miglior convoglio per chi non possedeva portafoglio.
Fosti amico duro ma sincero, ti dimostrasti uomo, un uomo vero, burbero padre fosti m'affettuoso e pur nell'austerità giammai odioso. Sotto finzione della noncuranza d'amor profondo segno era presenza. Lo sguardo torvo, l'animo benevolo piccolo sorriso tradiva finto nuvolo.
Mi torna alla memoria il tuo dispero allorquando finir potevo in cimitero. Er'avvilito, confuso e desolato: Ah! Povero figlio mio, che sfortunato. Ma tutto è solo nella mia memoria; l'Anima tua s'è alzata in aria e il ricordo ch'è nel mio pensiero è che di Te, Padre, fui e sono fiero.
Se fortemente speri avere ciò che non hai, se con mente vagando vai sinceramente, se desiderio ch'è in te è puro e vero, se il vagheggiar rivolto è a Dio, aspettativa, desiderio tutto s'avvererà; ché questo sogno Dio mai eluderà.
Quando il dispero l'alma avea invaso dell'ineluttabilità già persuaso un pensier fosco insinuò la mente e del cervello ne fu preminente per quel qualcosa che portommi via nella certezza ch'essere più non sia. Altro non era ragionar diverso ch'ogni pensier gentile era disperso.
Prostato, un giorno, mi apprestai al Divino e grazia domandai pel mio destino, lo feci con fiducia mai avuta a Colui che sollievo dona, ama ed aiuta. Di naufrago che a tavol'aggrappato da fort'ondate a lungo sballottato che già fiducia tutta avea perduto e in quel relitto ebbe un fort'aiuto.
Io aggrappommi all'Essere Supremo che della barca tiene timone e remo, pace Gli domandai con la mia prece e nella prece riedemi la perduta pace.
Amore per chi odia e che non ama, amore per il debole e negletto, amore a chi ha sete di giustizia e amore per lo sciocco beffeggiato e ancora per lo storpio e per il cieco. Amore per il sano e l'ammalato, amore per il forte e per il debole e pure pel potente e pel meschino. Amore per il sole e per la luna e amore per la luce e per le tenebre, amore per la notte e per il giorno e pur'anco per ognuna le stagioni. Amore per le fonti e per i fiumi, amore per i laghi e per i mari, amore per i monti e per i piani e amore per i rettili e gl'uccelli. Amore per la fauna e per la flora, amore per il cielo e il firmamento e amore pel creato e Creatore, amor per tutto quanto ci circonda e amore del donare senz'avere. Quest'è la carità, la vera carità.
In quel quarantatré, dai suoi albori di quante tristi cose furon'orrori, quante anormali cose ebber processo tutto in memoria bene m'è impresso. Per quanto m'opri e sproni l'intelletto su carta, certo, non può esser detto quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto in quel periodo nero, infame e tristo.
Aleggiava miseria tutt'intorno e pane non era più in nessun forno; grano non era né farina o pasta e pochi i viveri distribuiti a testa. La tessera donava misero diritto ad accedere a poco, grame vitto; la fame in ogni dove era perenne, da sofferenza vecchio era trentenne.
Prodotto non donava più la terra; era periodo tristo, era la guerra! Manco erba era agli argini di via ch'er'estirpata che nascesse pria. Di medicina, poi, non era traccia e il patimento si leggeva in faccia. V'era, soltanto, del poco chinino che scarso lo teneva il tabacchino.
Nessuno al piede più avea calzare, nessuno panni aveva da indossare. Occhio scavato, zigomo sporgente, testa cadente, sguardo triste e assente. Scalza la donna, macilenta e stanca di cenci avea coperto spalla e anca; gobba teneva e non avea vent'anni, curve le spalle per i molti affanni.
Ovunque era sporcizia, era lordura, di scarafaggi piena ogni fessura; di cimice e di mosche era marea, pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea. Necessità del corpo fisiologica soddisfava in vaso di ceramica la donna, il maschio, con corruccio di cesso ne faceva ogni cantuccio.
Mesta sonava la campana a lutto per annunciare della guerra il frutto; quel tocco come freccia il cuor passava, piangea la donna, ahimè, chi non tornava. Per quella guerra dal passo stanco e lento altro Virgulto risultava spento e la speme che nutria la giovinetta era infilzata dalla baionetta.
Di fame sofferente e di stanchezza gente che perso avea casa e ricchezza giungeva con scarsi panni addosso ch'al sol vederla umano era commosso. Siamo sfollati, venivano dicendo, veniamo da lontano, veniamo da Trento. Avevamo mestiere professione e arte delle vostre miserie deh! Fateci parte.
Dacché la guerra su nostra Terra regna destino cattivo i nostri animi segna; dacché l'odio è calato come lampo manco nella preghiera avemmo scampo. E noi, che poveri eravamo non meno d'essi in un abbraccio a loro stemmo commossi, le nostre alle loro lacrime mischiammo e l'un con l'altro un solo corpo fummo.
Di militi a cavallo e giacca a vento era un esteso, grand'accampamento. Militi stavano a guardia per cancello e avevano disloco in area Polpicello, Portavano divise lacere a stellette e a pranzo sgranavano gallette con poco vitto ch'era in scatolame, per appagare i morsi della fame.
In questo quadro triste e desolante v'era qualcosa, però, di sublimante. Era quel canto che s'innalzava al cielo da dentro le baracche a verde telo. Gl'inni di Patria che i militi intonavano con orgoglio pel cielo veleggiavano e nell'udirli: Grandezza del Divino! Non era fame, nemmen tristo destino.