E fu Giuseppe per quarant'anni ed oltre a far'inchini e salutar dappresso finché trovossi un dì su stessa coltre * accanto colui che prima era cipresso. Parve, indi, con stupore immenso d'avere inchino da sì alto fusto; anchilosato fu, disse: Che penso? No! Cervello mio: Sei vecchio e guasto.
E chiusi gli occhi, ch'era stanco assai, la destra penzoloni giù dal letto s'assopì pian pianino pensando ai guai ed alla vision ch'oggi fu oggetto. Così restossi: Tempo quanto nol seppe ma parvegli poi da tocco essere scosso mentre affettuosamente: Che fai o Peppe? Sentì stanco quel dire, quanto commosso.
Per i suoi vitrei, da peso oppressi occhi forza non ebbe di guardar chi fosse, chi a voce lo chiamava e piccoli tocchi e debolmente pensava chi esser potesse. Fu il dì di poi, a mattino andato che disteso a letto a lui di presso scorge vetust'uomo, volto emaciato che credere stenta ch'esser sia lo stesso
che per tant'anni ebbe ad inchinarsi. Quello lo guarda e stancamente dice: Ho, qui, nel petto di dolor dei morsi, stanco mi sento e d'essere infelice. Io non pensavo mai, Vossignoria, un giorno di trovarmi accanto a Voi, quest'oggi il cuore mio è in allegria ch'ha la fortuna d'essere con Voi.
Prim'io voglianza avevo di morire che sempre fui più stanco e tribolato sper'ora, invece, manco di guarire ch'accanto Vossignoria sono appagato. Certo! Tu allato sempre sei vissuto e ancorché steso resti consolato. Non me, però, da nobil stirpe nato sempre diverso fui, e non reietto.
Vossignoria restate tale e quale con l'arroganza nelle vostre vene ma l'altezzosità più a nulla vale perché acuisce solo le vostre pene. Da parte mia vi dico: Io vi perdono e mi prosterno a voi per quella gioia che il cuore mio ha ricevuto in dono d'avere accanto a sé vossignoria.
Rosa il tuo nome e rosa eri di viso Ricordo, Mamma, il tuo bel sorriso; ricordo quell'incedere tuo lesto, ricordo radunati i capei a cesto.
Ricordo gli occhi tuoi castano scuro, ricordo del tuo amore sempre puro; ricordo il tuo bel mento ovaleggiante su quel bel viso splendido, raggiante
Ricordo, Mamma, quando al casolare, raccolti accanto al grande focolare raccontavi per noi fatti e romanze di principi e duchesse in grandi stanze.
Principato, ducato e marchesato Quante fiabe per noi hai tu inventato! Altro dare di più non si poteva: in miseria di guerra si viveva.
Ricordo i tempi degl'oscuramenti, i razzi a notte fonda rilucenti, ricordo le nottate fredde, io ignudo, quando il Tuo corpo a me facea da scudo
per quei rumori forti ed assordanti di velivoli in cielo roteanti. Di gran paura si stringeva il core ma Tu coprivi tutto col tuo amore. . Allo scoppio di bombe a noi vicino stringevi a Te più forte il corpicino; lo facevi così, con tant'ardore, che risentirlo lo vorrei a quest'ore.
E, mi ricordo, Mamma, le speranze che in quelle tristi, brutte circostanze trasmettevi nel debol cuoricino Dell'arrivo di Papà così vicino.
Lo facevi con sì tanta fermezza che dissolvevi in me forte l'ebbrezza nella certezza di veder domani il Suo bel volto e le Sue grandi mani.
Or più non sei, dolce mia Mamma cara, di Te solo ricordi in alma serbo, ricordi che mi servono a pensare, ricordi che mi portano a sperare.
Fummo perch'eravamo quand'ancor erano vitali, focosi e fermi Lor; or più non siamo perché saremmo solo se confissi rimasti fossimo in suolo e fosse in noi presenza vista di Loro e nostre ovazioni al Ciel fossero coro; contenti ancor vivremmo com'allora, quel ch'eravamo allora saremmo ancora.
Ma più non è e, più mai così potrà ch'ognuno disperso s'è dritto sentiero, colui che s'accompagna mai vorrà che si ritrovi quel sentiero primiero. China la fronte a ciò che a lor piace, imbelli seguitiamo l'altrui volere, ad altra volontà noi si soggiace. Non intelletto umano ma sol di fere.
Quinto di margherita fiore odoroso ritto cresciuto, bello e rigoglioso, fosti e tuttora sei grande gioiello ultima pietra di sì gran castello.
Buono fosti sempre, rispettoso e quieto, alma sensibile, docile e mansueto d'arbusto sano, prosperoso e scuro da piccoletto già fosti maturo.
Or che cresciuto sei null'hai mutato; dolce, sensibile e buono sei restato; solo un momento di tristezza in core scalfir voluto avrebbe il tuo spessore.
Di quercia gran querciuolo ben nutrito della vita all'intemperie hai resistito e con la perspicacia che t'è nota t'aggrappasti alla mamma assai devota.
Di me ti ricordasti, e ti son grato d'avermi posto pure all'altro lato, lesto come a padre si conviene ricorsi, tosto, all'opra pel tuo bene.
Restar devi la quercia che sei nato mai giunco esser devi, in null'annata, né vento mai ti scuotono, pioggia o gelo, davanti agli occhi mai aver più velo.
Quest'è l'augurio che ti manda mamma, mentr'io lo dico a mò di telegramma: Resta leone di ruggito feroce non fare che ti mettano alla croce.
Sono credente, sì, ma non fervente e sublimante vedo il prepotente. Se fossi più credente e più fervente in alto vedrei solo l'Onnipotente.
In basso, meno forte e simil niente vedrei l'essere duro e imponente; saprei per certo, ch'è essere indigente e che mai fu importante né potente.
La fede incerta, poca e barcollante volge lo sguardo mio all'arrogante assiso in vetta grande, troneggiante, la mente a tal pensiero va vagante.
Scritto in pagina di Libro rilevante è che l'essere umano è barcollante, il trono cui è assiso è traballante, nullo è, quello che pare, esser gigante.
Torna il pensiero mio alle passate cose, torna ove veduto avea bocciol di rose; rincontra il pensier mio l'allegre spose ch'or le vede stanche e assai nervose.
Quelle figure d'allora meravigliose agli occhi sono immagini dogliose, qualcosa son che cercano vogliose e di trovarla appaiono ansiose.
Muta cani scorta cavaliere egregio a cavalcioni d'un destriero bigio, ognuno s'inchina a detto personaggio mentre sul cavallo è di passaggio.
Rintocco di campana s'ode mogio in quella sera del mese di maggio; annuncia la fine del signore egregio e dice che grandezza è sol miraggio.
Significa che di Grande ve n'è Uno e la potenza Sua non l'ha nessuno; chiunque può pensare esser qualcuno ma in fondo resta solo come ognuno.
Vuoi per mola, per faccia ed andatura, per volgarità d'animo e costumanza, per trivialità di far la sua pastura* da porcara, dei porci ha stessa usanza.
Il puzzo che sprigiona è come puzzola, più di vipera ha dente avvelenato; subdolo insetto al pari di tignola cui l'operare il male è gusto innato.
Di cattiveria pregno il suo giaciglio, tutt'intorno l'aria puzza del Maligno e manco l'incenso dato a gran sparpaglio riesce a profumar quel volto arcigno.
Spregevole più di Circe per tranelli ch'avea, però, un corpo snello e bello e tramutava in porci questi e quelli onde tenere Ulisse nel suo ostello.
A differenza ha vita orripilante, maestra nel ferire esseri in norma, nessun per essa mai fu spasimante mancante essa di modi, d'arte e forma.
Se maggiore uso dello specchio avesse, se riuscisse a contemplarsi dentro, se sol di coscienza a conoscenza fosse vedrebbe la lordura cui sguazza al centro.
D'umano parmi sì, ch'abbia qualcosa: é un grave atteggiamento a lavandaia; no! Per la categoria è offesa a iosa in quanto oggetto dell'immondezzaio.
All'apparire del solstizio estivo vaga la rondine per il ciel sereno e tutt'intorno inonda del garrir festivo. Ora repente in alto, ora s'abbassa or brevemente librasi, ora il terreno volteggiando lambe con scattante mossa. Nella belletta posasi per la materia del costruendo nido e alla rana che nella fanghiglia sguazza solitaria: Rotoli sozza e gracidi contenta e stai in cotanta puzzolente melma. In acqua, però, poi, mi rituffo attenta dice la rana; non tu che ne fai letto e giorno e notte ci rimani accolta. Mira il tuo sporco e ner'aspetto così t'accorgi che d'essa resti avvolta.
Quale il motivo di serenità ampia sì tanto, per quanto l'intelletto sproni e affini intendere sol riesco che la Natività n'è causa sola. Intorno, pur al cospetto di giornate nebulose e fredde col sibilare Del vento che in altro tempo tristezza impone, vive nel cuore serenità. Quest'oggi, fitta torrenziale pioggia cade. Copre la nebbia tutto cose intorno. Plumbeo il cielo senza alcun spiraglio; pare sia notte mentre è mezzogiorno. Tutto contemplo dalla mia veranda col cuore colmo di tanta speranza e pare che al posto dell'inverno nero è la festosa, fiorita primavera. Indi mi chiedo ancora: Qual è motivo di sì cotanta speme? Una risposta sola: Natività.