Vive e muore molte volte l'uomo, fra le sue due eternità, della stirpe l'una, dell'anima l'altra, ben lo sapeva l'antica Irlanda. Sia che nel suo letto muoia, o che lo atterri un colpo di fucile, il peggio che ha da temere è una breve dipartita da quei cari. Benché la fatica dei becchini sia lunga, affilati sono i loro badili, forti i loro muscoli nell'opera. Non fanno che ricacciar i loro morti nella mente umana ancora.
E labra ha di rubino ed occhi ha di zaffiro la bella e cruda donna ond'io sospiro. Ha d'alabastro fino la man che volge del tuo carro il freno, di marmo il seno e di diamante il core. Qual meraviglia, Amore, s'ai tuoi strali, ai miei pianti ella è sì dura? Tutta di pietre la formò la natura.
Odoravano i fior di vitalba per via, le ginestre nel greto; aliavano prima dell'alba le rondini nell'uliveto. Aliavano mute con volo nero, agile, di pipistrello; e tuttora gemea l'assiolo, che già spincionava il fringuello. Tra i pinastri era l'alba che i rivi mirava discendere giù: guizzò un raggio, soffiò su gli ulivi; virb... disse una rondine; e fu giorno: un giorno di pace e lavoro, che l'uomo mieteva il suo grano, e per tutto nel cielo sonoro saliva un cantare lontano.
C'è sopra il mare tutto abbonacciato il tremolare quasi d'una maglia: in fondo in fondo un ermo colonnato, nivee colonne d'un candor che abbaglia: una rovina bianca e solitaria, là dove azzurra è l'acqua come l'aria: il mare nella calma dell'estate ne canta tra le sue larghe sorsate. O bianco tempio che credei vedere nel chiaro giorno, dove sei vanito? Due barche stanno immobilmente nere, due barche in panna in mezzo all'infinito. E le due barche sembrano due bare smarrite in mezzo all'infinito mare; e piano il mare scivola alla riva e ne sospira nella calma estiva.
Era pieno inverno. Soffiava il vento della steppa. E aveva freddo il neonato nella grotta Sul pendio della collina.
L'alito del bue lo riscaldava. Animali domestici stavano nella grotta, sulla culla vagava un tiepido vapore.
Scossi dalle pelli le paglie del giaciglio e i grani di miglio, dalle rupi guardavano assonnati i pastori gli spazi della mezzanotte.
Lontano, la pianura sotto la neve, e il cimitero e recinti e pietre tombali e stanghe di carri confitte nella neve, e sul cimitero il cielo tutto stellato.
E lì accanto, mai vista sino allora, più modesta d'un lucignolo alla finestrella d'un capanno, traluceva una stella sulla strada di Betlemme.
…
Per quella stessa via, per le stesse contrade degli angeli andavano, mescolati alla folla. L'incorporeità li rendeva invisibili, ma a ogni passo lasciavano l'impronta d'un piede.
Una folla di popolo si accalcava presso la rupe. Albeggiava. Apparivano i tronchi dei cedri. E a loro, "chi siete? " domandò Maria. "Noi, stirpe di pastori e inviati del cielo, siamo venuti a cantare lodi a voi due". "Non si può, tutti insieme. Aspettate alla soglia".
Nella foschia di cenere, che precede il mattino, battevano i piedi mulattieri e allevatori. Gli appiedati imprecavano contro quelli a cavallo; e accanto al tronco cavo dell'abbeverata mugliavano i cammelli, scalciavano gli asini.
Albeggiava. Dalla volta celeste l'alba spazzava, come granelli di cenere, le ultime stelle. E della innumerevole folla solo i Magi Maria lasciò entrare nell'apertura rocciosa.
Lui dormiva, splendente, in una mangiatoia di quercia, come un raggio di luna dentro un albero cavo. Invece di calde pelli di pecora, le labbra d'un asino e le nari d'un bue.
I Magi, nell'ombra, in quel buio di stalla Sussurravano, trovando a stento le parole. A un tratto qualcuno, nell'oscurità, con una mano scostò un poco a sinistra dalla mangiatoia uno dei tre Magi; e quello si voltò: dalla soglia, come in visita, alla Vergine guardava la stella di Natale.
Quale febbre ha mai l'uomo! Che guardare ai suoi giorni mortali con il sangue temperato non sa, che tutto sciupa le pagine del libro della vita e deruba virtù al suo buon nome. È come se la rosa si cogliesse da sé; o quand'è matura la susina la sua scura lanugine raschiasse; o a guisa di un folletto impertinente la Naiade oscurasse la splendente sua grotta di una tenebra fangosa. Ma sullo spino lascia sé la rosa, che vengano a baciarla i venti e grate se ne cibino le api: e la susina matura indossa sempre la sua veste bruna, il lago non tocco ha di cristallo la superficie. Perché dunque l'uomo, importunando il mondo per averne grazia, deve sciupar la sua salvezza in obbedienza a un rozzo, falso credo?
Un sepalo, un petalo e una spina In un comune mattino d'estate, Un fiasco di rugiada, un'ape o due, Una brezza, Un frullo in mezzo agli alberi - Ed io sono una rosa!