Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

Questo utente ha inserito contributi anche in Frasi & Aforismi, in Indovinelli, in Frasi di Film, in Umorismo, in Racconti, in Leggi di Murphy, in Frasi per ogni occasione e in Proverbi.

Scritta da: Silvana Stremiz

Il vento cala e se ne va

Il vento cala e se ne va
lo stesso vento non agita
due volte lo stesso ramo
di ciliegio
gli uccelli cantano nell'albero
ali che voglion volare
la porta è chiusa
bisogna forzarla
bisogna vederti, amor mio,
sia bella come te, la vita
sia amica e amata come te

so che ancora non è finito
il banchetto della miseria ma
finirà...
Vota la poesia: Commenta
    Scritta da: Silvana Stremiz

    Rio Salto

    Lo so: non era nella valle fonda
    suon che s'udìa di palafreni andanti:
    era l'acqua che giù dalle stillanti
    tegole a furia percotea la gronda.
    Pur via e via per l'infinita sponda
    passar vedevo i cavalieri erranti;
    scorgevo le corazze luccicanti,
    scorgevo l'ombra galoppar sull'onda.
    Cessato il vento poi, non di galoppi
    il suono udivo, nè vedea tremando
    fughe remote al dubitoso lume;
    ma poi solo vedevo, amici pioppi!
    Brusivano soave tentennando
    lungo la sponda del mio dolce fiume.
    Vota la poesia: Commenta
      Scritta da: Silvana Stremiz

      Amore e 'l cor gentil sono una cosa

      Amore e 'l cor gentil sono una cosa,
      sì come il saggio in suo dittare pone,
      e così esser l'un sanza l'altro osa
      com'alma razional sanza ragione.
      Falli natura quand'è amorosa,
      Amor per sire e 'l cor per sua magione,
      dentro la qual dormendo si riposa
      talvolta poca e tal lunga stagione.
      Bieltate appare in saggia donna pui,
      che piace a li occhi sì, che dentro al core
      nasce un disio de la cosa piacente;
      e tanto dura talora in costui,
      che fa svegliar lo spirito d'Amore.
      E simil face in donna omo valente.
      Vota la poesia: Commenta
        Scritta da: Silvana Stremiz

        Johnny

        Oh, la valle in estate dove io e il mio John
        lungo il profondo fiume andavamo su e giù
        mentre i fiori nell'erba e gli uccelli nell'aria
        ragionavano dolci del reciproco amore,
        e io sulla sua spalla dicevo: "Su, giochiamo":
        ma lui con un cipiglio di tuono se ne andò.

        Oh, il venerdì ricordo, era sotto Natale,
        quando noi due andammo a quel ballo benefico,
        così liscia la pista e chiassosa l'orchestra,
        e Johnny così bello che ero così fiera;
        "Stringimi forte, Johnny, balliamo fino all'alba":
        ma lui con un cipiglio di tuono se ne andò.

        Scorderò mai la sera nel palco al gran galà
        quando pioveva musica da ogni ugola stupenda?
        Pendevano abbaglianti le perle e i diamanti
        da ogni abito di seta argentata o dorata:
        "Oh, Johnny, mi sento in cielo" io dissi in un bisbiglio:
        ma lui con un cipiglio di tuono se ne andò.

        Oh sì, ma era bello come un giardino in fiore,
        alto e slanciato come la grande Torre Eiffel,
        quando si spense il valzer sull'ampia promenade
        oh, quel sorriso e gli occhi mi andaron dritti al cuore;
        "Oh, caro Johnny, sposami, ti amerò e obbedirò":
        Ma lui con un cipiglio di tuono se ne andò.

        Oh, questa notte, Johnny, io ti ho sognato, amore,
        su un braccio avevi il sole e sull'altro la luna,
        tutto azzurro era il mare ed era verde l'erba,
        ogni stella agitava un tamburello tondo;
        io ero in un abisso giù a diecimila miglia:
        ma tu con un cipiglio di tuono te ne andavi.
        Vota la poesia: Commenta
          Scritta da: Silvana Stremiz

          Pioggia

          Cantava al buio d'aia in aia il gallo.
          E gracidò nel bosco la cornacchia:
          il sole si mostrava a finestrelle.
          Il sol dorò la nebbia della macchia,
          poi si nascose; e piovve a catinelle.
          Poi fra il cantare delle raganelle
          guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.
          Stupìano i rondinotti dell'estate
          di quel sottile scendere di spille:
          era un brusìo con languide sorsate
          e chiazze larghe e picchi a mille a mille;
          poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:
          di stille d'oro in coppe di cristallo.
          Vota la poesia: Commenta
            Scritta da: Silvana Stremiz

            Il canto popolare

            Improvviso il mille novecento
            cinquanta due passa sull'Italia:
            solo il popolo ne ha un sentimento
            vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
            la modernità, benché sempre il più
            moderno sia esso, il popolo, spanto
            in borghi, in rioni, con gioventù
            sempre nuove - nuove al vecchio canto -
            a ripetere ingenuo quello che fu.

            Scotta il primo sole dolce dell'anno
            sopra i portici delle cittadine
            di provincia, sui paesi che sanno
            ancora di nevi, sulle appenniniche
            greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
            i nuovi colori delle tele, i nuovi
            vestiti come in limpidi roghi
            dicono quanto oggi si rinnovi
            il mondo, che diverse gioie sfoghi...

            Ah, noi che viviamo in una sola
            generazione ogni generazione
            vissuta qui, in queste terre ora
            umiliate, non abbiamo nozione
            vera di chi è partecipe alla storia
            solo per orale, magica esperienza;
            e vive puro, non oltre la memoria
            della generazione in cui presenza
            della vita è la sua vita perentoria.

            Nella vita che è vita perché assunta
            nella nostra ragione e costruita
            per il nostro passaggio - e ora giunta
            a essere altra, oltre il nostro accanito
            difenderla - aspetta - cantando supino,
            accampato nei nostri quartieri
            a lui sconosciuti, e pronto fino
            dalle più fresche e inanimate ère -
            il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

            E se ci rivolgiamo a quel passato
            ch'è nostro privilegio, altre fiumane
            di popolo ecco cantare: recuperato
            è il nostro moto fin dalle cristiane
            origini, ma resta indietro, immobile,
            quel canto. Si ripete uguale.
            Nelle sere non più torce ma globi
            di luce, e la periferia non pare
            altra, non altri i ragazzi nuovi...

            Tra gli orti cupi, al pigro solicello
            Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
            d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
            di Toscana, con strilli di rondinini:
            Hor atorno fratt Helya! La santa
            violenza sui rozzi cuori il clero
            calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
            feroce nel feudo provinciale l'Impero
            da Iddio imposto: e il popolo canta.

            Un grande concerto di scalpelli
            sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
            sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
            suona, giganteggiando il travertino
            nel nuovo spazio in cui s'affranca
            l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
            jersera... ripete con l'anima spanta
            nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
            resta nel popolo. E il popolo canta.

            Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
            e trepidi nel vento napoleonico,
            all'Inno dell'Albero della Libertà,
            tremano i nuovi colori delle nazioni.
            Ma, cane affamato, difende il bracciante
            i suoi padroni, ne canta la ferocia,
            Guagliune 'e mala vita! In branchi
            feroci. La libertà non ha voce
            per il popolo cane. E il popolo canta.

            Ragazzo del popolo che canti,
            qui a Rebibbia sulla misera riva
            dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
            è vero, cantando, l'antica, la festiva
            leggerezza dei semplici. Ma quale
            dura certezza tu sollevi insieme
            d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
            tuguri e grattacieli, allegro seme
            in cuore al triste mondo popolare.

            Nella tua incoscienza è la coscienza
            che in te la storia vuole, questa storia
            il cui Uomo non ha più che la violenza
            delle memorie, non la libera memoria...
            E ormai, forse, altra scelta non ha
            che dare alla sua ansia di giustizia
            la forza della tua felicità,
            e alla luce di un tempo che inizia
            la luce di chi è ciò che non sa.
            Vota la poesia: Commenta