Or a poppa, or all'orza hann'il crudele, che mai non cessa, e vien più ognor crescendo: essi di qua di là con umil vele vansi aggirando, e l'alto mar scorrendo. Ma perché varie fila a varie tele uopo mi son, che tutte ordire intendo, lascio Rinaldo e l'agitata prua, e torno a dir di Bradamante sua.
Calano tosto i marinari accorti le maggior vele, e pensano dar volta, e ritornar ne li medesmi porti donde in mal punto avean la nave sciolta. - Non convien (dice il Vento) ch'io comporti tanta licenza che v'avete tolta; - e soffia e grida e naufragio minaccia, s'altrove van, che dove egli li caccia.
Contra la voluntà d'ogni nocchiero, pel gran desir che di tornare avea, entrò nel mar ch'era turbato e fiero, e gran procella minacciar parea. Il Vento si sdegnò, che da l'altiero sprezzar si vide; e con tempesta rea sollevò il mar intorno, e con tal rabbia, che gli mandò a bagnar sino alla gabbia.
Ti ho disegnato addosso il vestito più bello e ti ho guardato a lungo. Sono arrivata fino alla porta del cuore ho aperto ed ho guardato anche là e mi è piaciuto quello che ho visto, o forse ho visto quello che mi è piaciuto... su, su, sono entrata nella tua testa ed ho letto i pensieri, ho letto quelli scritti con la mia grafia, erano belli e dentro c'ero anch'io.
Ti guardo e penso: se ti spoglio cosa resta? Cosa resta sotto il vestito, dentro il cuore, nella testa... Cosa resta di quello che vedo, di quello che leggo, di quello che penso che tu sia?
Resto io. Resta la mia passione stupida che con la violenza di uno schiaffo sonoro, improvviso, ritorna ogni volta al mittente.
Resti tu. Quello vero, quello che non conosco, che non oso guardare, e che forse non mi piacerebbe neanche...
Ma è così bello il tuo vestito, non toglierlo, voglio guardarti ancora!
Figli di una generazione Uomini della continua lotta camminano nel fumo e nella nebbia arrampicati sulle schegge dei muri. Le canne grigie puntate sui pensieri e le marce come cordoni ombelicali per servire il popolo. Le mani si stringono le tempie riempiono i polmoni di rabbia serpeggia la morte nel volo delle bottiglie. Si diffonde la luce della comune si divulga con sigarette e mozziconi brulicanti ogni parola ha la forza di un proiettile. Nessun suono spara abbastanza per la sordità del tempo e questo tempo non risparmia i sogni non coltiva martiri e seppellisce gli eroi. La propaganda delle risposte imbavagliate con i pugni allo stomaco ribelle e il vomito dell'odio e del dileggio. Figli di una generazione canti rubati per niente e troppi silenzi nelle bare mute.
** riflessione di un estremista degli "anni di piombo"
Palline nere sull'albero dell'indifferenza cioccolatini stremati dopo lunghi giorni di cammino piccole luci nell'esodo della disperazione. Sotto l'albero le mosche come fiocchi sui regali sciamano sopra corpi di mamme bambine dentro la pelle virgulta del loro amorino. Saltano gli occhi rovesciati come il miele sulle nostre belle tavole imbandite ci riportano in sella al confine dell'odio. Passano i pastori di questa cecità brandiscono il macete del genocidio poi si fanno dimenticare in qualche pagina nascosta di quotidiano. Il Natale di Goma.
** Città di confine tra Zaire e Ruanda dove un esercito di profughi si sposta e vaga senza meta alcuna, in un genocidio assurdo tra etnie hutu e tutsi.
Io sogno di vederti dentro me e per questo prendo tempo al sonno… Allungo il dormiveglia con la mano e rincorro la tua forma sul lenzuolo: piatto e freddo è il suo orizzonte e non c'è il sole della tua presenza. Piatto e freddo è il mio rientro da una notte passata dentro te.
Il vivere in un attimo ogni più piccolo minuto atteso nel tempo come acqua nel deserto la chiave di una vita per aprire una porta il sibilo di un pensiero che attraversa la mente la carezza d'uno sguardo che si posa su un viso la luce di un sorriso che irradia una sera la forza di un idea che scuote un mondo la dolcezza di un istante che dura in eterno la rabbia di una lacrima che resta sull'orlo il calore di un abbraccio il ricordo di una vita la tristezza di un'altra la perfezione di un momento il respiro nella notte tranquillo per una volta nel vedere le cose nascoste le stelle nei tuoi occhi illuminano la mia strada
Prendimi fra le braccia, notte eterna, e chiamami tuo figlio. Io sono un re che volontariamente ha abbandonato il proprio trono di sogni e di stanchezze.
La spada mia, pesante in braccia stanche, l'ho confidata a mani più virili e calme; lo scettro e la corona li ho lasciati nell'anticamera, rotti in mille pezzi.
La mia cotta di ferro, così inutile, e gli speroni, dal futile tinnire, li ho abbandonati sul gelido scalone.
La regalità ho smesso, anima e corpo, per ritornare a notte antica e calma, come il paesaggio, quando il giorno muore.