Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Carità cristiana

Er Chirichetto d'una sacrestia
sfasciò l'ombrello su la groppa a un gatto
pè castigallo d'una porcheria.
- Che fai? - je strillò er Prete ner vedello
- Ce vò un coraccio nero come er tuo
pè menaje in quer modo... Poverello!...
- Che? - fece er Chirichetto - er gatto è suo? -
Er Prete disse: - No... ma è mio l'ombrello! -.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    La diplomazia

    Naturarmente, la Dipromazzia
    è una cosa che serve a la nazzione
    pè conservà le bone relazzione,
    cò quarche imbrojo e quarche furberia.

    Se dice dipromatico pè via
    che frega cò 'na certa educazzione,
    cercanno de nasconne l'opinione
    dietro un giochetto de fisonomia.

    Presempio, s'io te dico chiaramente
    ch'ho incontrato tù moje con un tale,
    sarò sincero, sì, ma sò imprudente.

    S'invece dico: - Abbada cò chi pratica...
    Tu resti cò le corna tale e quale,
    ma te l'avviso in forma dipromatica.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      L'alba meridionale

      Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
      del capitale, l'epifenomeno (infimo)
      dell'avanguardia. La polizia tributaria
      (quasi accertamento filosofico
      sugli incartamenti di un poeta)
      fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
      contaminati da carità, dolenti
      di inspiegabili consunzioni, e pieni
      di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
      però con mia gongolante leggerezza perché qua,
      non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
      Torno, e trovo milioni di uomini occupati
      soltanto a vivere come barbari discesi
      da poco su una terra felice, estranei
      ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
      della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
      riprendo a Roma le mie abitudini
      di bestia ferita, che guarda negli occhi,
      godendo del morire, i suoi feritori….
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Ballata delle madri

        Mi domando che madri avete avuto.
        Se ora vi vedessero al lavoro
        in un mondo a loro sconosciuto,
        presi in un giro mai compiuto
        d'esperienze così diverse dalle loro,
        che sguardo avrebbero negli occhi?
        Se fossero lì, mentre voi scrivete
        il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
        o lo passate a redattori rotti
        a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

        Madri vili, con nel viso il timore
        antico, quello che come un male
        deforma i lineamenti in un biancore
        che li annebbia, li allontana dal cuore,
        li chiude nel vecchio rifiuto morale.
        Madri vili, poverine, preoccupate
        che i figli conoscano la viltà
        per chiedere un posto, per essere pratici,
        per non offendere anime privilegiate,
        per difendersi da ogni pietà.

        Madri mediocri, che hanno imparato
        con umiltà di bambine, di noi,
        un unico, nudo significato,
        con anime in cui il mondo è dannato
        a non dare né dolore né gioia.
        Madri mediocri, che non hanno avuto
        per voi mai una parola d'amore,
        se non d'un amore sordidamente muto
        di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
        impotenti ai reali richiami del cuore.

        Madri servili, abituate da secoli
        a chinare senza amore la testa,
        a trasmettere al loro feto
        l'antico, vergognoso segreto
        d'accontentarsi dei resti della festa.
        Madri servili, che vi hanno insegnato
        come il servo può essere felice
        odiando chi è, come lui, legato,
        come può essere, tradendo, beato,
        e sicuro, facendo ciò che non dice.

        Madri feroci, intente a difendere
        quel poco che, borghesi, possiedono,
        la normalità e lo stipendio,
        quasi con rabbia di chi si vendichi
        o sia stretto da un assurdo assedio.
        Madri feroci, che vi hanno detto:
        Sopravvivete! Pensate a voi!
        Non provate mai pietà o rispetto
        per nessuno, covate nel petto
        la vostra integrità di avvoltoi!

        Ecco, vili, mediocri, servi,
        feroci, le vostre povere madri!
        Che non hanno vergogna a sapervi
        – nel vostro odio – addirittura superbi,
        se non è questa che una valle di lacrime.
        È così che vi appartiene questo mondo:
        fatti fratelli nelle opposte passioni,
        o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
        a essere diversi: a rispondere
        del selvaggio dolore di esser uomini.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Poesie mondane

          Ci vediamo in proiezione, ed ecco
          la città, in una sua povera ora nuda,
          terrificante come ogni nudità.
          Terra incendiata il cui incendio
          spento stasera o da millenni,
          è una cerchia infinita di ruderi rosa,
          carboni e ossa biancheggianti, impalcature
          dilavate dall'acqua e poi bruciate
          da nuovo sole. La radiosa Appia
          che formicola di migliaia di insetti
          - gli uomini d'oggi - i neorealistici
          ossessi delle Cronache in volgare.
          Poi compare Testaccio, in quella luce
          di miele proiettata sulla terra
          dall'oltretomba. Forse è scoppiata,
          la Bomba, fuori dalla mia coscienza.
          Anzi, è così certamente. E la fine
          del Mondo è già accaduta: una cosa
          muta, calata nel controluce del crepuscolo.
          Ombra, chi opera in questa èra.
          Ah, sacro Novecento, regione dell'anima
          in cui l'Apocalisse è un vecchio evento!
          Il Pontormo con un operatore
          meticoloso, ha disposto cantoni
          di case giallastre, a tagliare
          questa luce friabile e molle,
          che dal cielo giallo si fa marrone
          impolverato d'oro sul mondo cittadino...
          e come piante senza radice, case e uomini,
          creano solo muti monumenti di luce
          e d'ombra, in movimento: perché
          la loro morte è nel loro moto.
          Vanno, come senza alcuna colonna sonora,
          automobili e camion, sotto gli archi,
          sull 'asfalto, contro il gasometro,
          nell'ora, d'oro, di Hiroshima,
          dopo vent'anni, sempre più dentro
          in quella loro morte gesticolante: e io
          ritardatario sulla morte, in anticipo
          sulla vita vera, bevo l'incubo
          della luce come un vino smagliante.
          Nazione senza speranze! L'Apocalisse
          esploso fuori dalle coscienze
          nella malinconia dell'Italia dei Manieristi,
          ha ucciso tutti: guardateli - ombre
          grondanti d'oro nell'oro dell'agonia.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Alla mia nazione

            Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
            ma nazione vivente, ma nazione europea:
            e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
            governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
            avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
            funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
            una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
            Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
            pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
            tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
            Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
            proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
            E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
            che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
            Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Alla bandiera rossa

              Per chi conosce solo il tuo colore,
              bandiera rossa,
              tu devi realmente esistere, perché lui
              esista:
              chi era coperto di croste è coperto di
              piaghe,
              il bracciante diventa mendicante,
              il napoletano calabrese, il calabrese
              africano,
              l'analfabeta una bufala o un cane.
              Chi conosceva appena il tuo colore,
              bandiera rossa,
              sta per non conoscerti più, neanche coi
              sensi:
              tu che già vanti tante glorie borghesi e
              operaie,
              ridiventa straccio, e il più povero ti
              sventoli.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                A un ragazzo

                "Era un mattino in cui sognava ignara
                nei ròsi orizzonti una luce di mare:
                ogni filo d'erba come cresciuto a stento
                era un filo di quello splendore opaco e immenso.

                Venivamo in silenzio per il nascosto argine
                lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi

                del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
                granaio tra i campi ch'era il nostro rifugio.

                In fondo Casarsa biancheggiva esanime
                nel terrore dell'ultimo proclama di Graziani;

                e, colpita dal solo contro l'ombra dei monti,
                la stazione era vuota: oltre i radi tronchi

                dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l'erba
                del binario, attendeva il treno per Spilimbergo...

                L'ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
                dove dentro un libro di Montale era stretta

                tra pochi panni, la sua rivoltella,
                nel bianco colore dell'aria e della terra.

                Le spalle un po' strette dentro la giacchetta
                ch'era stata mia, la nuca giovinetta... ".
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Supplica a mia madre

                  È difficile dire con parole di figlio
                  ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
                  Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
                  ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
                  Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
                  è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
                  Sei insostituibile. Per questo è dannata
                  alla solitudine la vita che mi hai data.
                  E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
                  d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
                  Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
                  sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
                  ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
                  alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
                  Era l'unico modo per sentire la vita,
                  l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
                  Sopravviviamo: ed è la confusione
                  di una vita rinata fuori dalla ragione.
                  Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
                  Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Non è amore

                    Non è Amore. Ma in che misura è mia
                    colpa il non fare dei miei affetti
                    Amore? Molta colpa, sia
                    pure, se potrei d'una pazza purezza,
                    d'una cieca pietà vivere giorno
                    per giorno... Dare scandalo di mitezza.
                    Ma la violenza in cui mi frastorno,
                    dei sensi, dell'intelletto, da anni,
                    era la sola strada. Intorno
                    a me alle origini c'era, degli inganni
                    istituiti, delle dovute illusioni,
                    solo la Lingua: che i primi affanni
                    di un bambino, le preumane passioni,
                    già impure, non esprimeva. E poi
                    quando adolescente nella nazione
                    conobbi altro che non fosse la gioia
                    del vivere infantile - in una patria
                    provinciale, ma per me assoluta, eroica -
                    fu l'anarchia. Nella nuova e già grama
                    borghesia d'una provincia senza purezza,
                    il primo apparire dell'Europa
                    fu per me apprendistato all'uso più
                    puro dell'espressione, che la scarsezza
                    della fede d'una classe morente
                    risarcisse con la follia ed i tòpoi
                    dell'eleganza: fosse l'indecente
                    chiarezza d'una lingua che evidenzia
                    la volontà a non essere, incosciente,
                    e la cosciente volontà a sussistere
                    nel privilegio e nella libertà
                    che per Grazia appartengono allo stile.
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