Fiume che là specchiasti un casolare cò suoi rossi garofani, qua mura d'erme castella, e tremula verzura; eccoti giunto al fragoroso mare: ed ecco i flutti verso te balzare su dall'interminabile pianura, in larghe file; e nella riva oscura questa si frange, e quella in alto appare; tituba e croscia. E là, donde tu lieto, di sasso in sasso, al piè d'una betulla, sgorghi sonoro tra le brevi sponde; a un po' d'auretta scricchiola il canneto, fruscia il castagno, e forse una fanciulla sogna a quell'ombre, al mormorìo dell'onde.
La luce del crepuscolo si attenua: Inquieti spiriti sia dolce la tenebra Al cuore che non ama più! Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, Sorgenti, sorgenti che sanno Sorgenti che sanno che spiriti stanno Che spiriti stanno a ascoltare Ascolta: la luce del crepuscolo attenua Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra: Ascolta: ti ha vinto la Sorte: Ma per i cuori leggeri un'altra vita è alle porte: Non c'è di dolcezza che possa uguagliare la Morte Più Più Più Intendi chi ancora ti culla: Intendi la dolce fanciulla Che dice all'orecchio: Più Più Ed ecco si leva e scompare Il vento: ecco torna dal mare Ed ecco sentiamo ansimare Il cuore che ci amò di più! Guardiamo: di già il paesaggio Degli alberi e l'acque è notturno Il fiume va via taciturno Pùm! Mamma quell'omo lassù! "
Pace non trovo e non ho da far guerra, e temo e spero; ed ardo e son un ghiaccio; e volo sopra 'l cielo e giaccio in terra; e nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio.
Tal m'ha in pregion, che non m'apre né serra, né per suo mi riten né scioglie il laccio; e non m'ancide Amore e non mi sferra, né mi vuol vivo né mi trae d'impaccio.
Veggio senza occhi e non ho lingua e grido; e bramo di perir e cheggio aita; ed ho in odio me stesso ed amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido; egualmente mi spiace morte e vita; iin questo stato son, Donna, per voi.
Dal gesto di ammazzare con le mani il modo di impastare non diverge (che bello ch'è il progresso, che sollievo: col pulsante qui a destra, eccoti il pane, col pulsante a sinistra, facilmente, anche senza mirare, lancio il missile e il nemico centro).
Amore è volere con tutte le forze il bene dell'altro, anche prima del tuo, e fare di tutto perché l'amato cresca, e poi sbocci e fiorisca, diventando ogni giorno la persona che deve essere e non quello che vuoi modellare sull'immagine dei tuoi sogni.
Sto segnando da tempo con croci di fuoco l'atlante bianco del tuo corpo. La mia bocca era un ragno che passava nascondendosi. In te, dietro te, timorosa, assetata.
Storie da raccontarti sulla sponda della sera, perché tu non sia triste, bambola triste e dolce. Un cigno, un albero, qualcosa che è lontano e gioioso. La stagione dell'uva, la stagione matura e piena di frutti.
Io che ho vissuto in un porto e da lì ti amavo. La solitudine solcata di sogno e di silenzio. Rinchiuso tra il mare e la tristezza. Silenzioso, delirante, tra due gondolieri immobili.
Tra le labbra e la voce, qualcosa va morendo. Qualcosa che ha ali d'uccello, fatto d'angoscia e d'oblio. Così come e reti non trattengono l'acqua. Bambola mia, restano solo gocce tremanti. Eppure, qualcosa canta tra queste parole fugaci. Qualcosa canta, qualcosa sale fino alla mia avida bocca. Oh poterti celebrare con tutte le parole della gioia. Cantare, bruciare, fuggire, come un campanile nelle mani di un folle. Mia triste tenerezza, in cosa muti all'improvviso? Quando o raggiunto il vertice più ardito e freddo il mio cuore si chiude come un fiore notturno.
Improvviso il mille novecento cinquanta due passa sull'Italia: solo il popolo ne ha un sentimento vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia la modernità, benché sempre il più moderno sia esso, il popolo, spanto in borghi, in rioni, con gioventù sempre nuove - nuove al vecchio canto - a ripetere ingenuo quello che fu.
Scotta il primo sole dolce dell'anno sopra i portici delle cittadine di provincia, sui paesi che sanno ancora di nevi, sulle appenniniche greggi: nelle vetrine dei capoluoghi i nuovi colori delle tele, i nuovi vestiti come in limpidi roghi dicono quanto oggi si rinnovi il mondo, che diverse gioie sfoghi...
Ah, noi che viviamo in una sola generazione ogni generazione vissuta qui, in queste terre ora umiliate, non abbiamo nozione vera di chi è partecipe alla storia solo per orale, magica esperienza; e vive puro, non oltre la memoria della generazione in cui presenza della vita è la sua vita perentoria.
Nella vita che è vita perché assunta nella nostra ragione e costruita per il nostro passaggio - e ora giunta a essere altra, oltre il nostro accanito difenderla - aspetta - cantando supino, accampato nei nostri quartieri a lui sconosciuti, e pronto fino dalle più fresche e inanimate ère - il popolo: muta in lui l'uomo il destino.
E se ci rivolgiamo a quel passato ch'è nostro privilegio, altre fiumane di popolo ecco cantare: recuperato è il nostro moto fin dalle cristiane origini, ma resta indietro, immobile, quel canto. Si ripete uguale. Nelle sere non più torce ma globi di luce, e la periferia non pare altra, non altri i ragazzi nuovi...
Tra gli orti cupi, al pigro solicello Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini d'Ivrea gridano, e pei valloncelli di Toscana, con strilli di rondinini: Hor atorno fratt Helya! La santa violenza sui rozzi cuori il clero calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia feroce nel feudo provinciale l'Impero da Iddio imposto: e il popolo canta.
Un grande concerto di scalpelli sul Campidoglio, sul nuovo Appennino, sui Comuni sbiancati dalle Alpi, suona, giganteggiando il travertino nel nuovo spazio in cui s'affranca l'Uomo: e il manovale Dov'andastà jersera... ripete con l'anima spanta nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù resta nel popolo. E il popolo canta.
Apprende il borghese nascente lo Ça ira, e trepidi nel vento napoleonico, all'Inno dell'Albero della Libertà, tremano i nuovi colori delle nazioni. Ma, cane affamato, difende il bracciante i suoi padroni, ne canta la ferocia, Guagliune 'e mala vita! In branchi feroci. La libertà non ha voce per il popolo cane. E il popolo canta.
Ragazzo del popolo che canti, qui a Rebibbia sulla misera riva dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti è vero, cantando, l'antica, la festiva leggerezza dei semplici. Ma quale dura certezza tu sollevi insieme d'imminente riscossa, in mezzo a ignari tuguri e grattacieli, allegro seme in cuore al triste mondo popolare.
Nella tua incoscienza è la coscienza che in te la storia vuole, questa storia il cui Uomo non ha più che la violenza delle memorie, non la libera memoria... E ormai, forse, altra scelta non ha che dare alla sua ansia di giustizia la forza della tua felicità, e alla luce di un tempo che inizia la luce di chi è ciò che non sa.