Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)
Il fumo
La piccola casa sotto gli alberi sul lago.
Dal tetto sale il fumo.
Se mancasse
Quanto sarebbero desolati
La casa, gli alberi, il lago!
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La piccola casa sotto gli alberi sul lago.
Dal tetto sale il fumo.
Se mancasse
Quanto sarebbero desolati
La casa, gli alberi, il lago!
La neve cade, la neve cade
Alle bianche stelline in tempesta
Si protendono i fiori del geranio
Dallo stipite della finestra:
La neve cade e ogni cosa è in subbuglio,
ogni cosa si lancia in un volo,
i gradini della nera scala,
la svolta del crocicchio.
La neve cade, la neve cade,
come se non cadessero i fiocchi,
ma in un mantello rattoppato
scendesse a terra la volta celeste.
Come se con l'aspetto di un bislacco
Dal pianerottolo in cima alle scale,
di soppiatto, giocando a rimpiattino,
scendesse il cielo dalla soffitta.
Perché la vita stringe. Non fai a tempo
A girarti dattorno, ed è Natale.
Solo un breve intervallo:
guardi, ed è l'Anno Nuovo.
Densa, densissima la neve cade.
E chi sa che il tempo non trascorra
Per le stesse orme, nello stesso ritmo,
con la stessa rapidità o pigrizia,
tenendo il passo con lei?
Chi sa che gli anni, l'uno dietro l'altro,
non si succedano come la neve,
o come le parole d'un poema?
La neve cade, la neve cade,
la neve cade e ogni cosa è in subbuglio:
il pedone imbiancato,
le piante sorprese,
la svolta del crocicchio.
Mai la terrestre poesia non muore.
Quando tutti gli uccelli al solleone
vengono meno e stan nascosti in mezzo
la frescura degli alberi, una voce
corre di siepe in siepe intorno al prato
su cui appena passò rasa la falce:
è del grillo dei campi, il capintesta
nel tripudio d'estate, mai godere
non cessa, perché quando a giuochi è stanco
posa con agio sotto una grata erba.
Fine non ha la poesia terrestre.
D'inverno, in una sera solitaria,
quando il silenzio è opera del gelo,
strepe fuor della stufa il suon del grillo
del focolare che col caldo sempre
viene crescendo, e a uno che smarrito
a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto
par del grillo dei campi ai colli erbosi.
Si comm'a nu sciurillo...
tu tiene na vucchella,
nu poco pucurillo,
appassuliatella.
Méh, dammillo, dammillo,
è comm'a na rusella...
dammillo nu vasillo,
dammillo, Cannetella!
Dammillo e pigliatillo
nu vaso... piccerillo
comm'a chesta vucchella
che pare na rusella...
nu poco pucurillo
appassuliatella...
Il sonno, il nero fiume -
v'immerge la sua tempra
per il fuoco dell'aurora
che lo avvamperà, lo spera,
l'indomani -
Sono oscuri
il turchese ed il carminio
nei vasi e nelle ciotole,
li prende
la notte nel suo grembo,
li accomuna a tutta la materia.
Saranno - il pensiero lo tortura
un attimo, lo allarma -
pronti alla chiamata
quando ai vetri si presenta
in avanscoperta l'alba e, dopo,
quando irrompe
e sfolgora sotto la navata
il pieno giorno -
hanno
incerta come lui la sorte
i colori o il risveglio
per loro non è in forse,
la luce non li inganna,
non li tradisce? E stanno
nella materia
o sono
nell'anima i colori? -
divaga
o entra nel vivo
la sua mente
nella pausa
della notte che comincia -
smarrisce
e ritrova i filamenti
dell'arte, della giornata...
Esce
insieme ai lapislazzuli
l'oro dal suo forziere, sì,
ma incerto
il miracolo ritarda,
la sua trasmutazione
in luce, in radiosità
gli sarà data piena? Avrà
lui grazia sufficiente
a quella spiritualissima alchimia?
Si addorme,
s'inabissa,
è sciocco,
lo sente,
quel pensiero, è perfida quell'ansia.
Chi è lui? Tutto gioca con tutto
nella universale danza.
Arrivò una bambina dai capelli bianchi
e non aveva più denti
soltanto pane nella pancia e patria
e una mano gialla fatta di neve e
la fortuna che sbatte contro la guancia
subito il mio cappotto di fuori fu bianco e
i miei sarti mi domandarono perché
non so morire
di cosa sono debitrice agli alberi
è una cosa che si lascia appesa lassù.
Io non son della solita vacchetta,
né sono uno stival da contadino;
e se pajo tagliato coll'accetta,
chi lavorò non era un ciabattino:
mi fece a doppie suola e alla scudiera,
e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia giù giù sino al tallone
sempre all'umido sto senza marcire;
son buono a caccia e per menar di sprone,
e molti ciuchi ve lo posson dire:
tacconato di solida impuntura,
ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.
Ma l'infilarmi poi non è sì facile,
né portar mi potrebbe ogni arfasatto;
anzi affatico e stroppio un piede gracile,
e alla gamba dei più son disadatto;
portarmi molto non poté nessuno,
m'hanno sempre portato a un po' per uno.
Io qui non vi farò la litania
di quei che fur di me desiderosi;
ma così qua e là per bizzarria
ne citerò soltanto i più famosi,
narrando come fui messo a soqquadro,
e poi come passai di ladro in ladro.
Parrà cosa incredibile: una volta,
non so come, da me presi il galoppo,
e corsi tutto il mondo a briglia sciolta;
ma camminar volendo un poco troppo,
l'equilibrio perduto, il proprio peso
in terra mi portò lungo e disteso.
Allora vi successe un parapiglia;
e gente d'ogni risma e d'ogni conio
pioveano di lontan le mille miglia,
per consiglio d'un Prete o del Demonio:
chi mi prese al gambale e chi alla fiocca,
gridandosi tra lor: bazza a chi tocca.
Volle il Prete, a dispetto della fede,
calzarmi coll'ajuto e da sé solo;
poi sentì che non fui fatto al suo piede,
e allora qua e là mi dette a nolo:
ora alle mani del primo occupante
mi lascia, e per lo più fa da tirante.
Tacca col Prete a picca e le calcagna
volea piantarci un bravazzon tedesco,
ma più volte scappare in Alemagna
lo vidi sul caval di San Francesco:
in seguito tornò; ci s'è spedato,
ma tutto fin a qui non m'ha infilato.
Per un secolo e più rimasto vuoto,
cinsi la gamba a un semplice mercante;
mi riunse costui, mi tenne in moto,
e seco mi portò fino in Levante, -
ruvido sì, ma non mancava un ette,
e di chiodi ferrato e di bullette.
Il mercante arricchì, credè decoro
darmi un po' più di garbo e d'apparenza:
ebbi lo sprone, ebbi la nappa d'oro,
ma un tanto scapitai di consistenza;
e gira gira, veggo in conclusione
che le prime bullette eran più buone.
In me non si vedea grinza né spacco,
quando giù di ponente un birichino
ea una galera mi saltò sul tacco,
e si provò a ficcare anco il zampino;
ma largo largo non vi stette mai,
anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.
Fra gli altri dilettanti oltramontani,
per infilarmi un certo re di picche
ci si messe cò piedi e colle mani;
ma poi rimase lì come berlicche,
quando un cappon, geloso del pollajo,
gli minacciò di fare il campanajo.
Da bottega a compir la mia rovina
saltò fuori in quel tempo, o giù di lì,
un certo professor di medicina,
che per camparmi sulla buccia, ordì
una tela di cabale e d'inganni
che fu tessuta poi per trecent'anni.
Mi lisciò, mi coprì di bagattelle,
e a forza d'ammollienti e d'impostura
tanto raspò, che mi strappò la pelle;
e chi dopo di lui mi prese in cura,
mi concia tuttavia colla ricetta
di quella scuola iniqua e maledetta.
Ballottato così di mano in mano,
da una fitta d'arpìe preso di mira,
ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano
che si messero a fare a tira tira:
alfin fu Don Chisciotte il fortunato,
ma gli rimasi rotto e sbertucciato.
Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice
che lo Spagnolo mi portò malissimo:
m'insafardò di morchia e di vernice,
chiarissimo fui detto ed illustrissimo;
ma di sottecche adoperò la lima,
e mi lasciò più sbrendoli di prima.
A mezza gamba, di color vermiglio,
per segno di grandezza e per memoria,
m'era rimasto solamente un Giglio:
ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria,
ai Barbari lo diè, con questo patto
di farne una corona a un suo mulatto.
Da quel momento, ognuno in santa pace
la lesina menando e la tanaglia,
cascai dalla padella nella brace:
vicerè, birri, e simile canaglia
mi fecero angherie di nuova idea,
et diviserunt vestimenta, mea.
Così passato d'una in altra zampa
d'animalacci zotici e sversati,
venne a mancare in me la vecchia stampa
di quei piedi diritti e ben piantati,
cò quali, senza andar mai di traverso,
il gran giro compiei dell'universo.
Oh povero stivale! Ora confesso
che m'ha gabbato questa matta idea:
quand'era tempo d'andar da me stesso,
colle gambe degli altri andar volea;
ed oltre a ciò, la smania inopportuna
di mutar piede per mutar fortuna.
Lo sento e lo confesso; e nondimeno
mi trovo così tutto in isconquasso,
che par che sotto mi manchi il terreno
se mi provo ogni tanto a fare un passo;
ché a forza di lasciarmi malmenare,
ho persa l'abitudine d'andare.
Ma il più gran male me l'han fatto i Preti,
razza maligna e senza discrezione;
e l'ho con certi grulli di poeti,
che in oggi si son dati al bacchettone:
non c'è Cristo che tenga, i Decretali
vietano ai Preti di portar stivali.
E intanto eccomi qui roso e negletto,
sbrancicato da tutti, e tutto mota;
e qualche gamba da gran tempo aspetto
che mi levi di grinze e che mi scuota;
non tedesca, s'intende, né francese,
ma una gamba vorrei del mio paese.
Una già n'assaggiai d'un certo Sere,
che se non mi faceva il vagabondo,
in me potea vantar di possedere
il più forte stival del Mappamondo:
ah! Una nevata in quelle corse strambe
a mezza strada gli gelò le gambe.
Rifatto allora sulle vecchie forme
e riportato allo scorticatojo,
se fui di peso e di valore enorme,
mi resta a mala pena il primo cuojo;
e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi
ci vuol altro che spago e piantastecchi.
La spesa è forte, e lunga è la fatica:
bisogna ricucir brano per brano;
ripulir le pillacchere; all'antica
piantar chiodi e bullette, e poi pian piano
ringambalar la polpa ed il tomajo:
ma per pietà badate al calzolaio!
E poi vedete un po': qua son turchino,
là rosso e bianco, e quassù giallo e nero;
insomma a toppe come un arlecchino;
se volete rimettermi davvero,
fatemi, con prudenza e con amore,
tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.
Scavizzolate all'ultimo se v'è
un uomo purché sia, fuorché poltrone;
e se quando a costui mi trovo in piè,
si figurasse qualche buon padrone
di far con meco il solito mestiere,
lo piglieremo a calci nel sedere.
(Giuseppe Giusti)
La chiosa di Pierluigi
Seguendo il tuo consiglio l'hanno fatto:
han provato per centosettant'anni
a cercar di scoprire il piede adatto;
con alti e bassi han fatto altri danni;
ai Preti ora noi dobbiam sommare
chi d'Oltremare ci viene a provare!
E or caro Giuseppe, mio Maestro,
hanno la gamba pensato di trovare:
hanno creduto che col piede destro
di nuovo lui potesse camminare!
Il guaio è che nessuno ha mai badato
per quale piede l'hanno fabbricato!
(Pierluigi Camilli)
Oggi siamo seduti, alla vigilia
Di Natale, noi, gente misera,
in una gelida stanzetta,
il vento corre fuori, il vento entra.
Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo:
perché tu ci sei davvero necessario.
Ed amai nuovamente; e fu di Lina
dal rosso scialle il più della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.
Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né dalla sua fu fin ad oggi mai l'anima partita.
Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un'altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.
Per l'altezze l'amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare.
Se la foglia piange e trema
di fronte alla volontà di Dio
e Dio è combusto nell'universo,
se l'universo non è che una pallida idea
di ciò che ci darà la vita nuova
e la beatitudine,
che dire degli angeli
che si oppongono alla foschia delle genti,
al loro turbinio,
al fumo della guerra
e che dissipano con un'arma celere
i falsi splendori di Satana?
Angeli battaglieri
che entrano nelle foreste delle passioni,
che tolgono le piante impure
e sradicano il male.
Angeli che piangono
quando si rovesciano i troni di Dio,
angeli che divorano le donne
con le loro carezze.
Angeli che portano i loro seni lontano
affinché Dio li rivesta di gramaglie
per tutti i mancati splendori.
Angeli che tremano
davanti alla collera divina
e sono così palpitanti d'amore
che ogni donna vorrebbe somigliare a loro.
Angeli in fuga verso la beatitudine,
angeli che scorrono
come l'acqua al di là dell'universo,
angeli che tornano a baciare
le labbra dimenticate.