Le dicevano: - Bambina! Che tu non lasci mai stesa, dalla sera alla mattina, ma porta dove l'hai presa, la tovaglia bianca, appena ch'è terminata la cena! Bada, che vengono i morti! I tristi, i pallidi morti! Entrano, ansimano muti. Ognuno è tanto mai stanco! E si fermano seduti la notte intorno a quel bianco. Stanno lì sino al domani, col capo tra le due mani, senza che nulla si senta, sotto la lampada spenta. - È già grande la bambina: la casa regge, e lavora: fa il bucato e la cucina, fa tutto al modo d'allora. Pensa a tutto, ma non pensa a sparecchiare la mensa. Lascia che vengano i morti, i buoni, i poveri morti. Oh! la notte nera nera, di vento, d'acqua, di neve, lascia ch'entrino da sera, col loro anelito lieve; che alla mensa torno torno riposino fino a giorno, cercando fatti lontani col capo tra le due mani. Dalla sera alla mattina, cercando cose lontane, stanno fissi, a fronte china, su qualche bricia di pane, e volendo ricordare, bevono lagrime amare. Oh! non ricordano i morti, i cari, i cari suoi morti! - Pane, sì... pane si chiama, che noi spezzammo concordi: ricordate?... È tela, a dama: ce n'era tanta: ricordi?... Queste?... Queste sono due, come le vostre e le tue, due nostre lagrime amare cadute nel ricordare! -.
Taci, anima stanca di godere e di soffrire(all'uno e all'altro vai rassegnata) Nessuna voce tua odo se ascolto: non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d'ira o di speranza, e neppure di tedio. Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena d'una rassegnazione disperata. Non ci stupiremmo, non è vero, mia anima, se il cuore si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato... Invece camminiamo, camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.
Passa la nave mia colma d'oblio per aspro mare, a mezza notte, il verno, enfra Scilla e Cariddi; ed al governo siede'l signore, anzi'l nimico mio;
a ciascun remo un penser pronto e rio che la tempesta e'l fin par ch'abbi a scherno; la vela rompe un vento umido, eterno di sospir', di speranze e di desio;
pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni bagna e rallenta le già stanche sarte, che son d'error con ignoranza attorto.
Celansi i duo mei dolci usati segni; morta fra l'onde è la ragion e l'arte: tal ch'incomincio a desperar del porto.
Sottile sei come un cero del tempio, l'occhio hai trafitto da spade d'amore. Io non ti chiedo un sol bacio: in silenzio vorrei deporre sul rogo il mio cuore.
Io non ti chiedo una sola carezza: t'offenderebbe la mia rozza mano. Ma dal cancello ti guardo in purezza rose di porpora cogliere e t'amo.
Sempre ti bruciano i raggi del sole e via t'involi sul vento che fugge. Su te c'è un angelo senza parole: io gusto in cuore il dolor che mi strugge.
Mentre t'intreccio nei riccioli, adagio, dei versi ignoti gli strani diamanti, getto il mio cuore invaghito nel lago meraviglioso degli occhi raggianti.
Voglio che tornando tu trovi una paroletta del tuo amico stasera. Ho un desiderio desolato di te stasera. Ahimè stasera e sempre. Ma stasera il desiderio è di qualità nuova. È come un tremito infinitamente lungo e tenue. Sono come un mare in cui tremino tutte le gocciole, tremano tutte le ali dell'anima, tremano tutte le fibre dei nervi, tremano tutti i fiori della primavera e anche le nuvole del cielo e anche le stelle della notte e anche la piccola luna trema. Trema sui tuoi capelli che sono una schiuma bionda. Ho la bocca piena delle tue spalle, che sono ora come un fuoco di neve tiepida disciolta in me. Godo e soffro. Ti ho dentro di me e vorrei tuttavia sentirti sopra di me. Non mi hai lasciato tanta musica partendo. Stanotte tienimi sul tuo cuore, avvolgimi nel tuo sogno, incantami col tuo fiato, sii sola con me solo. Oh melodia melodia... Tremano tutte le gocciole del mare.
Vaga speranza non era la fede, non esigeva una vile preghiera, era un'attesa, l'amore faceva pregare immagini, alzare preghiere.
Era l'uomo ispirato: in sé cresceva, raggiungendo il silenzio delle origini. La sua gioia trovava Dio già pronto: io toglieva dall'ombra dell'arcano, per alzarlo tremando nella luce!
È mezzodì. Rintomba. Tacciono le cicale nelle stridule seccie. E chiaro un tuon rimbomba dopo uno stanco, uguale, rotolare di breccie. Rondini ad ali aperte fanno echeggiar la loggia dè lor piccoli scoppi. Già, dopo l'afa inerte, fanno rumor di pioggia le fogline dei pioppi. Un tuon sgretola l'aria. Sembra venuto sera. Picchia ogni anta su l'anta. Serrano. Solitaria s'ode una capinera, là, che canta... che canta... E l'acqua cade, a grosse goccie, poi giù a torrenti, sopra i fumidi campi. S'è sfatto il cielo: a scosse v'entrano urlando i venti e vi sbisciano i lampi. Cresce in un gran sussulto l'acqua, dopo ogni rotto schianto ch'aspro diroccia; mentre, col suo singulto trepido, passa sotto l'acquazzone una chioccia. Appena tace il tuono, che quando al fin già pare, fa tremare ogni vetro, tra il vento e l'acqua, buono, s'ode quel croccolare cò suoi pigolìi dietro.
Talor, mentre cammino per le strade della città tumultuosa solo, mi dimentico il mio destino d'essere uomo tra gli altri, e, come smemorato, anzi tratto fuor di me stesso, guardo la gente con aperti estranei occhi.
M'occupa allora un puerile, un vago senso di sofferenza ed ansietà come per mano che mi opprima il cuore. Fronti calve di vecchi, inconsapevoli occhi di bimbi, facce consuete di nati a faticare e a riprodursi, facce volpine stupide beate, facce ambigue di preti, pitturate facce di meretrici, entro il cervello mi s'imprimono dolorosamente. E conosco l'inganno pel qual vivono, il dolore che mise quella piega sul loro labbro, le speranze sempre deluse, e l'inutilità della loro vita amara e il lor destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di loro porta seco la condanna d'esistere: ma vanno dimentichi di ciò e di tutto, ognuno occupato dall'attimo che passa, distratto dal suo vizio prediletto.
Provo un disagio simile a chi veda inseguire farfalle lungo l'orlo d'un precipizio, od una compagnia di strani condannati sorridenti. E se poco ciò dura, io veramente in quell'attimo dentro m'impauro a vedere che gli uomini son tanti.