Cantava al buio d'aia in aia il gallo. E gracidò nel bosco la cornacchia: il sole si mostrava a finestrelle. Il sol dorò la nebbia della macchia, poi si nascose; e piovve a catinelle. Poi fra il cantare delle raganelle guizzò sui campi un raggio lungo e giallo. Stupìano i rondinotti dell'estate di quel sottile scendere di spille: era un brusìo con languide sorsate e chiazze larghe e picchi a mille a mille; poi singhiozzi, e gocciar rado di stille: di stille d'oro in coppe di cristallo.
La neve cade, la neve cade Alle bianche stelline in tempesta Si protendono i fiori del geranio Dallo stipite della finestra: La neve cade e ogni cosa è in subbuglio, ogni cosa si lancia in un volo, i gradini della nera scala, la svolta del crocicchio. La neve cade, la neve cade, come se non cadessero i fiocchi, ma in un mantello rattoppato scendesse a terra la volta celeste. Come se con l'aspetto di un bislacco Dal pianerottolo in cima alle scale, di soppiatto, giocando a rimpiattino, scendesse il cielo dalla soffitta. Perché la vita stringe. Non fai a tempo A girarti dattorno, ed è Natale. Solo un breve intervallo: guardi, ed è l'Anno Nuovo. Densa, densissima la neve cade. E chi sa che il tempo non trascorra Per le stesse orme, nello stesso ritmo, con la stessa rapidità o pigrizia, tenendo il passo con lei? Chi sa che gli anni, l'uno dietro l'altro, non si succedano come la neve, o come le parole d'un poema? La neve cade, la neve cade, la neve cade e ogni cosa è in subbuglio: il pedone imbiancato, le piante sorprese, la svolta del crocicchio.
Mai la terrestre poesia non muore. Quando tutti gli uccelli al solleone vengono meno e stan nascosti in mezzo la frescura degli alberi, una voce corre di siepe in siepe intorno al prato su cui appena passò rasa la falce: è del grillo dei campi, il capintesta nel tripudio d'estate, mai godere non cessa, perché quando a giuochi è stanco posa con agio sotto una grata erba. Fine non ha la poesia terrestre. D'inverno, in una sera solitaria, quando il silenzio è opera del gelo, strepe fuor della stufa il suon del grillo del focolare che col caldo sempre viene crescendo, e a uno che smarrito a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto par del grillo dei campi ai colli erbosi.
Dove sull'acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie tu vai lungo binari e scambi col tuo berretto di gallo isolano. Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d'uragani e mare avvelenato. Le nostre notti cadono nei carri merci e noi bestiame infantile contiamo sogni polverosi con i morti sfondati dai ferri, mordendo mandorle e mele dissecate a ghirlanda. La scienza del dolore mise verità e lame nei giochi dei bassopiani di malaria gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza triste, delicata, ci rubò la paura, fu lezione di giorni uniti alla morte tradita, al vilipendio dei ladroni presi fra i rottami e giustiziati al buio dalla fucileria degli sbarchi, un conto di numeri bassi che tornava esatto concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù nel poco spazio che sempre ti hanno dato. Anche a me misurarono ogni cosa, e ho portato il tuo nome un po' più in là dell'odio e dell'invidia. Quel rosso del tuo capo era una mitria, una corona con le ali d'aquila. E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali di partenza colorati dalla lanterna notturna, e qui da una ruota imperfetta del mondo, su una piena di muri serrati, lontano dai gelsomini d'Arabia dove ancora tu sei, per dirti ciò che non potevo un tempo - difficile affinità di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo cicale del biviere, agavi lentischi, come il campiere dice al suo padrone: "Baciamu li mani". Questo, non altro. Oscuramente forte è la vita.
Sino al trono di Dio anciò mio cor gli accenti, Che in murmure tremendo Rispondono i torrenti, E dalla ferrea calma Delle notti profonde Palma battendo a palma Ogni morto risponde.
D'entusïasmo ho l'anima Albergo; e sol d'un Nume Io son cantor: degli angeli L'impenetrabil lume Circonda il mio pensiero, Ch'erto su lucid'ali, Sprezza l'invito altero Dè superbi mortali.
E coronar di laudi Dovrò chi turpe e folle Splendido sol per l'auro Sa l'orgoglio s'estolle? Che dir deggio di lui? Pria di giustizia il brando Sù forti bracci sui Vada folgoreggiando;
E canterò. Nettarea Da me non cerchi ei lode, Se a lutulenta in braccio Sorte tripudia e gode, E tra un'immensa schiera D'insania al carro avvinto scioglie con sua man nera A iniquitate il cinto.
E tu chi sei che il titolo Santo d'amico usurpi? E vile d'amicizia L'aspetto almo deturpi? Chi sei tu che m'inviti Di gloria a spander raggio E a sciòrre inni graditi A chi in virtù è selvaggio?
Non sai che santuario Al ver nell'alma alzai E che io del vero antistite Sempre d'esser giurai? Non sai che mercar fama Da tal canto non curo, E più dolce m'è brama Sul ver posarmi oscuro?
Vero suonò di Davide Il pastoral concento, E a Dio piacque il veridico Suono, e tra cento e cento L'unse à popoli ebrei Rege di pace, e adorni D'illustri eventi e bèi Fè dell'uom giusto i giorni.
E immagine d'obbrobrio Vuoi tu farmi, o profano? Oh! quell'immonda faccia Copriti con la mano Lungi da me: chi fia Cui faccian forza i detti Ch'io l'alta cetra mia Di ricca peste infetti!
Garrir fole non odemi L'atrio di adulazione, E in questa solitudine Dall'aurata prigione Fuggo; esecrando il folle Che blandisce con mèle Il grande; e in sen gli bolle Rancor, invidia, e fiele.
Dunque chi vuol, d'encomio Canti impudente intuoni Per lo tuo eroe; ch'io cantici Fra gli angelici suoni Ergo al Solopossente, Che dall'empirea sede Gl'inni in letizia sente Di verità e di fede.
Sì, lo so, mio diletto, nulla esiste se non il tuo amore: questa luce dorata che danza sulle foglie queste nubi pigre che navigano nel cielo questa brezza che passando lascia fresca la mia fronte.
La luce del mattino ha inondato i miei occhi: questo è il tuo messaggio al mio cuore. Il tuo viso si è chinato su di me i tuoi occhi guardano nei miei e il mio cuore ha toccato i tuoi piedi.
Io che come un sonnambulo cammino per le mie trite vie quotidiane, vedendoti dinanzi a me trasalgo.
Tu mi cammini innanzi lenta come una regina. Regolo il mio passo io subito destato dal mio sonno sul tuo ch'è come una sapiente musica. E possibilità d'amore e gloria mi s'affacciano al cuore e me lo gonfiano. Pei riccioletti folli d'una nuca per l'ala d'un cappello io posso ancora alleggerirmi della mia tristezza. Io sono ancora giovane, inesperto col cuore pronto a tutte le follie.
Una luce di fa nel dormiveglia. Tutto è sospeso come in un'attesa. Non penso più. Sono contento e muto. Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.
Io non son della solita vacchetta, né sono uno stival da contadino; e se pajo tagliato coll'accetta, chi lavorò non era un ciabattino: mi fece a doppie suola e alla scudiera, e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia giù giù sino al tallone sempre all'umido sto senza marcire; son buono a caccia e per menar di sprone, e molti ciuchi ve lo posson dire: tacconato di solida impuntura, ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.
Ma l'infilarmi poi non è sì facile, né portar mi potrebbe ogni arfasatto; anzi affatico e stroppio un piede gracile, e alla gamba dei più son disadatto; portarmi molto non poté nessuno, m'hanno sempre portato a un po' per uno.
Io qui non vi farò la litania di quei che fur di me desiderosi; ma così qua e là per bizzarria ne citerò soltanto i più famosi, narrando come fui messo a soqquadro, e poi come passai di ladro in ladro.
Parrà cosa incredibile: una volta, non so come, da me presi il galoppo, e corsi tutto il mondo a briglia sciolta; ma camminar volendo un poco troppo, l'equilibrio perduto, il proprio peso in terra mi portò lungo e disteso.
Allora vi successe un parapiglia; e gente d'ogni risma e d'ogni conio pioveano di lontan le mille miglia, per consiglio d'un Prete o del Demonio: chi mi prese al gambale e chi alla fiocca, gridandosi tra lor: bazza a chi tocca. Volle il Prete, a dispetto della fede, calzarmi coll'ajuto e da sé solo; poi sentì che non fui fatto al suo piede, e allora qua e là mi dette a nolo: ora alle mani del primo occupante mi lascia, e per lo più fa da tirante.
Tacca col Prete a picca e le calcagna volea piantarci un bravazzon tedesco, ma più volte scappare in Alemagna lo vidi sul caval di San Francesco: in seguito tornò; ci s'è spedato, ma tutto fin a qui non m'ha infilato.
Per un secolo e più rimasto vuoto, cinsi la gamba a un semplice mercante; mi riunse costui, mi tenne in moto, e seco mi portò fino in Levante, - ruvido sì, ma non mancava un ette, e di chiodi ferrato e di bullette.
Il mercante arricchì, credè decoro darmi un po' più di garbo e d'apparenza: ebbi lo sprone, ebbi la nappa d'oro, ma un tanto scapitai di consistenza; e gira gira, veggo in conclusione che le prime bullette eran più buone.
In me non si vedea grinza né spacco, quando giù di ponente un birichino ea una galera mi saltò sul tacco, e si provò a ficcare anco il zampino; ma largo largo non vi stette mai, anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.
Fra gli altri dilettanti oltramontani, per infilarmi un certo re di picche ci si messe cò piedi e colle mani; ma poi rimase lì come berlicche, quando un cappon, geloso del pollajo, gli minacciò di fare il campanajo.
Da bottega a compir la mia rovina saltò fuori in quel tempo, o giù di lì, un certo professor di medicina, che per camparmi sulla buccia, ordì una tela di cabale e d'inganni che fu tessuta poi per trecent'anni.
Mi lisciò, mi coprì di bagattelle, e a forza d'ammollienti e d'impostura tanto raspò, che mi strappò la pelle; e chi dopo di lui mi prese in cura, mi concia tuttavia colla ricetta di quella scuola iniqua e maledetta.
Ballottato così di mano in mano, da una fitta d'arpìe preso di mira, ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano che si messero a fare a tira tira: alfin fu Don Chisciotte il fortunato, ma gli rimasi rotto e sbertucciato.
Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice che lo Spagnolo mi portò malissimo: m'insafardò di morchia e di vernice, chiarissimo fui detto ed illustrissimo; ma di sottecche adoperò la lima, e mi lasciò più sbrendoli di prima.
A mezza gamba, di color vermiglio, per segno di grandezza e per memoria, m'era rimasto solamente un Giglio: ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria, ai Barbari lo diè, con questo patto di farne una corona a un suo mulatto.
Da quel momento, ognuno in santa pace la lesina menando e la tanaglia, cascai dalla padella nella brace: vicerè, birri, e simile canaglia mi fecero angherie di nuova idea, et diviserunt vestimenta, mea.
Così passato d'una in altra zampa d'animalacci zotici e sversati, venne a mancare in me la vecchia stampa di quei piedi diritti e ben piantati, cò quali, senza andar mai di traverso, il gran giro compiei dell'universo.
Oh povero stivale! Ora confesso che m'ha gabbato questa matta idea: quand'era tempo d'andar da me stesso, colle gambe degli altri andar volea; ed oltre a ciò, la smania inopportuna di mutar piede per mutar fortuna.
Lo sento e lo confesso; e nondimeno mi trovo così tutto in isconquasso, che par che sotto mi manchi il terreno se mi provo ogni tanto a fare un passo; ché a forza di lasciarmi malmenare, ho persa l'abitudine d'andare.
Ma il più gran male me l'han fatto i Preti, razza maligna e senza discrezione; e l'ho con certi grulli di poeti, che in oggi si son dati al bacchettone: non c'è Cristo che tenga, i Decretali vietano ai Preti di portar stivali.
E intanto eccomi qui roso e negletto, sbrancicato da tutti, e tutto mota; e qualche gamba da gran tempo aspetto che mi levi di grinze e che mi scuota; non tedesca, s'intende, né francese, ma una gamba vorrei del mio paese.
Una già n'assaggiai d'un certo Sere, che se non mi faceva il vagabondo, in me potea vantar di possedere il più forte stival del Mappamondo: ah! Una nevata in quelle corse strambe a mezza strada gli gelò le gambe.
Rifatto allora sulle vecchie forme e riportato allo scorticatojo, se fui di peso e di valore enorme, mi resta a mala pena il primo cuojo; e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi ci vuol altro che spago e piantastecchi.
La spesa è forte, e lunga è la fatica: bisogna ricucir brano per brano; ripulir le pillacchere; all'antica piantar chiodi e bullette, e poi pian piano ringambalar la polpa ed il tomajo: ma per pietà badate al calzolaio!
E poi vedete un po': qua son turchino, là rosso e bianco, e quassù giallo e nero; insomma a toppe come un arlecchino; se volete rimettermi davvero, fatemi, con prudenza e con amore, tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.
Scavizzolate all'ultimo se v'è un uomo purché sia, fuorché poltrone; e se quando a costui mi trovo in piè, si figurasse qualche buon padrone di far con meco il solito mestiere, lo piglieremo a calci nel sedere. (Giuseppe Giusti)
La chiosa di Pierluigi
Seguendo il tuo consiglio l'hanno fatto: han provato per centosettant'anni a cercar di scoprire il piede adatto; con alti e bassi han fatto altri danni; ai Preti ora noi dobbiam sommare chi d'Oltremare ci viene a provare!
E or caro Giuseppe, mio Maestro, hanno la gamba pensato di trovare: hanno creduto che col piede destro di nuovo lui potesse camminare! Il guaio è che nessuno ha mai badato per quale piede l'hanno fabbricato! (Pierluigi Camilli)
Ragion d'amore in me fulge ogni giorno (anche se muto d'umore e se intorno oscura è l'aria, lo spirito avaro) grazie all'evento della tua presenza nella quale ravviso l'insorgenza di un dono acceso di un mistero raro.