Poesie d'Autore migliori


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Pioggia

Cantava al buio d'aia in aia il gallo.
E gracidò nel bosco la cornacchia:
il sole si mostrava a finestrelle.
Il sol dorò la nebbia della macchia,
poi si nascose; e piovve a catinelle.
Poi fra il cantare delle raganelle
guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.
Stupìano i rondinotti dell'estate
di quel sottile scendere di spille:
era un brusìo con languide sorsate
e chiazze larghe e picchi a mille a mille;
poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:
di stille d'oro in coppe di cristallo.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    La neve cade

    La neve cade, la neve cade
    Alle bianche stelline in tempesta
    Si protendono i fiori del geranio
    Dallo stipite della finestra:
    La neve cade e ogni cosa è in subbuglio,
    ogni cosa si lancia in un volo,
    i gradini della nera scala,
    la svolta del crocicchio.
    La neve cade, la neve cade,
    come se non cadessero i fiocchi,
    ma in un mantello rattoppato
    scendesse a terra la volta celeste.
    Come se con l'aspetto di un bislacco
    Dal pianerottolo in cima alle scale,
    di soppiatto, giocando a rimpiattino,
    scendesse il cielo dalla soffitta.
    Perché la vita stringe. Non fai a tempo
    A girarti dattorno, ed è Natale.
    Solo un breve intervallo:
    guardi, ed è l'Anno Nuovo.
    Densa, densissima la neve cade.
    E chi sa che il tempo non trascorra
    Per le stesse orme, nello stesso ritmo,
    con la stessa rapidità o pigrizia,
    tenendo il passo con lei?
    Chi sa che gli anni, l'uno dietro l'altro,
    non si succedano come la neve,
    o come le parole d'un poema?
    La neve cade, la neve cade,
    la neve cade e ogni cosa è in subbuglio:
    il pedone imbiancato,
    le piante sorprese,
    la svolta del crocicchio.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Il grillo dei campi e il grillo del focolare

      Mai la terrestre poesia non muore.
      Quando tutti gli uccelli al solleone
      vengono meno e stan nascosti in mezzo
      la frescura degli alberi, una voce
      corre di siepe in siepe intorno al prato
      su cui appena passò rasa la falce:
      è del grillo dei campi, il capintesta
      nel tripudio d'estate, mai godere
      non cessa, perché quando a giuochi è stanco
      posa con agio sotto una grata erba.
      Fine non ha la poesia terrestre.
      D'inverno, in una sera solitaria,
      quando il silenzio è opera del gelo,
      strepe fuor della stufa il suon del grillo
      del focolare che col caldo sempre
      viene crescendo, e a uno che smarrito
      a mezzo sta fra sonno e veglia, il canto
      par del grillo dei campi ai colli erbosi.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Al padre

        Dove sull'acque viola
        era Messina, tra fili spezzati
        e macerie tu vai lungo binari
        e scambi col tuo berretto di gallo
        isolano. Il terremoto ribolle
        da due giorni, è dicembre d'uragani
        e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
        nei carri merci e noi bestiame infantile
        contiamo sogni polverosi con i morti
        sfondati dai ferri, mordendo mandorle
        e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
        del dolore mise verità e lame
        nei giochi dei bassopiani di malaria
        gialla e terzana gonfia di fango.

        La tua pazienza
        triste, delicata, ci rubò la paura,
        fu lezione di giorni uniti alla morte
        tradita, al vilipendio dei ladroni
        presi fra i rottami e giustiziati al buio
        dalla fucileria degli sbarchi, un conto
        di numeri bassi che tornava esatto
        concentrico, un bilancio di vita futura.

        Il tuo berretto di sole andava su e giù
        nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
        Anche a me misurarono ogni cosa,
        e ho portato il tuo nome
        un po' più in là dell'odio e dell'invidia.
        Quel rosso del tuo capo era una mitria,
        una corona con le ali d'aquila.
        E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni
        ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
        di partenza colorati dalla lanterna
        notturna, e qui da una ruota
        imperfetta del mondo,
        su una piena di muri serrati,
        lontano dai gelsomini d'Arabia
        dove ancora tu sei, per dirti
        ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
        di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo
        cicale del biviere, agavi lentischi,
        come il campiere dice al suo padrone:
        "Baciamu li mani". Questo, non altro.
        Oscuramente forte è la vita.
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          Scritta da: Cheope
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          A vucchella

          Si comm'a nu sciurillo...
          tu tiene na vucchella,
          nu poco pucurillo,
          appassuliatella.

          Méh, dammillo, dammillo,
          è comm'a na rusella...
          dammillo nu vasillo,
          dammillo, Cannetella!

          Dammillo e pigliatillo
          nu vaso... piccerillo
          comm'a chesta vucchella

          che pare na rusella...
          nu poco pucurillo
          appassuliatella...
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            Scritta da: Andrea De Candia
            in Poesie (Poesie d'Autore)
            Arrivò una bambina dai capelli bianchi
            e non aveva più denti
            soltanto pane nella pancia e patria
            e una mano gialla fatta di neve e
            la fortuna che sbatte contro la guancia
            subito il mio cappotto di fuori fu bianco e
            i miei sarti mi domandarono perché
            non so morire
            di cosa sono debitrice agli alberi
            è una cosa che si lascia appesa lassù.
            Composta lunedì 7 marzo 2016
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              Scritta da: Pierluigi Camilli
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Lo Stivale

              Io non son della solita vacchetta,
              né sono uno stival da contadino;
              e se pajo tagliato coll'accetta,
              chi lavorò non era un ciabattino:
              mi fece a doppie suola e alla scudiera,
              e per servir da bosco e da riviera.

              Dalla coscia giù giù sino al tallone
              sempre all'umido sto senza marcire;
              son buono a caccia e per menar di sprone,
              e molti ciuchi ve lo posson dire:
              tacconato di solida impuntura,
              ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.

              Ma l'infilarmi poi non è sì facile,
              né portar mi potrebbe ogni arfasatto;
              anzi affatico e stroppio un piede gracile,
              e alla gamba dei più son disadatto;
              portarmi molto non poté nessuno,
              m'hanno sempre portato a un po' per uno.

              Io qui non vi farò la litania
              di quei che fur di me desiderosi;
              ma così qua e là per bizzarria
              ne citerò soltanto i più famosi,
              narrando come fui messo a soqquadro,
              e poi come passai di ladro in ladro.

              Parrà cosa incredibile: una volta,
              non so come, da me presi il galoppo,
              e corsi tutto il mondo a briglia sciolta;
              ma camminar volendo un poco troppo,
              l'equilibrio perduto, il proprio peso
              in terra mi portò lungo e disteso.

              Allora vi successe un parapiglia;
              e gente d'ogni risma e d'ogni conio
              pioveano di lontan le mille miglia,
              per consiglio d'un Prete o del Demonio:
              chi mi prese al gambale e chi alla fiocca,
              gridandosi tra lor: bazza a chi tocca.
              Volle il Prete, a dispetto della fede,
              calzarmi coll'ajuto e da sé solo;
              poi sentì che non fui fatto al suo piede,
              e allora qua e là mi dette a nolo:
              ora alle mani del primo occupante
              mi lascia, e per lo più fa da tirante.

              Tacca col Prete a picca e le calcagna
              volea piantarci un bravazzon tedesco,
              ma più volte scappare in Alemagna
              lo vidi sul caval di San Francesco:
              in seguito tornò; ci s'è spedato,
              ma tutto fin a qui non m'ha infilato.

              Per un secolo e più rimasto vuoto,
              cinsi la gamba a un semplice mercante;
              mi riunse costui, mi tenne in moto,
              e seco mi portò fino in Levante, -
              ruvido sì, ma non mancava un ette,
              e di chiodi ferrato e di bullette.

              Il mercante arricchì, credè decoro
              darmi un po' più di garbo e d'apparenza:
              ebbi lo sprone, ebbi la nappa d'oro,
              ma un tanto scapitai di consistenza;
              e gira gira, veggo in conclusione
              che le prime bullette eran più buone.

              In me non si vedea grinza né spacco,
              quando giù di ponente un birichino
              ea una galera mi saltò sul tacco,
              e si provò a ficcare anco il zampino;
              ma largo largo non vi stette mai,
              anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.

              Fra gli altri dilettanti oltramontani,
              per infilarmi un certo re di picche
              ci si messe cò piedi e colle mani;
              ma poi rimase lì come berlicche,
              quando un cappon, geloso del pollajo,
              gli minacciò di fare il campanajo.

              Da bottega a compir la mia rovina
              saltò fuori in quel tempo, o giù di lì,
              un certo professor di medicina,
              che per camparmi sulla buccia, ordì
              una tela di cabale e d'inganni
              che fu tessuta poi per trecent'anni.

              Mi lisciò, mi coprì di bagattelle,
              e a forza d'ammollienti e d'impostura
              tanto raspò, che mi strappò la pelle;
              e chi dopo di lui mi prese in cura,
              mi concia tuttavia colla ricetta
              di quella scuola iniqua e maledetta.

              Ballottato così di mano in mano,
              da una fitta d'arpìe preso di mira,
              ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano
              che si messero a fare a tira tira:
              alfin fu Don Chisciotte il fortunato,
              ma gli rimasi rotto e sbertucciato.

              Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice
              che lo Spagnolo mi portò malissimo:
              m'insafardò di morchia e di vernice,
              chiarissimo fui detto ed illustrissimo;
              ma di sottecche adoperò la lima,
              e mi lasciò più sbrendoli di prima.

              A mezza gamba, di color vermiglio,
              per segno di grandezza e per memoria,
              m'era rimasto solamente un Giglio:
              ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria,
              ai Barbari lo diè, con questo patto
              di farne una corona a un suo mulatto.

              Da quel momento, ognuno in santa pace
              la lesina menando e la tanaglia,
              cascai dalla padella nella brace:
              vicerè, birri, e simile canaglia
              mi fecero angherie di nuova idea,
              et diviserunt vestimenta, mea.

              Così passato d'una in altra zampa
              d'animalacci zotici e sversati,
              venne a mancare in me la vecchia stampa
              di quei piedi diritti e ben piantati,
              cò quali, senza andar mai di traverso,
              il gran giro compiei dell'universo.

              Oh povero stivale! Ora confesso
              che m'ha gabbato questa matta idea:
              quand'era tempo d'andar da me stesso,
              colle gambe degli altri andar volea;
              ed oltre a ciò, la smania inopportuna
              di mutar piede per mutar fortuna.

              Lo sento e lo confesso; e nondimeno
              mi trovo così tutto in isconquasso,
              che par che sotto mi manchi il terreno
              se mi provo ogni tanto a fare un passo;
              ché a forza di lasciarmi malmenare,
              ho persa l'abitudine d'andare.

              Ma il più gran male me l'han fatto i Preti,
              razza maligna e senza discrezione;
              e l'ho con certi grulli di poeti,
              che in oggi si son dati al bacchettone:
              non c'è Cristo che tenga, i Decretali
              vietano ai Preti di portar stivali.

              E intanto eccomi qui roso e negletto,
              sbrancicato da tutti, e tutto mota;
              e qualche gamba da gran tempo aspetto
              che mi levi di grinze e che mi scuota;
              non tedesca, s'intende, né francese,
              ma una gamba vorrei del mio paese.

              Una già n'assaggiai d'un certo Sere,
              che se non mi faceva il vagabondo,
              in me potea vantar di possedere
              il più forte stival del Mappamondo:
              ah! Una nevata in quelle corse strambe
              a mezza strada gli gelò le gambe.

              Rifatto allora sulle vecchie forme
              e riportato allo scorticatojo,
              se fui di peso e di valore enorme,
              mi resta a mala pena il primo cuojo;
              e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi
              ci vuol altro che spago e piantastecchi.

              La spesa è forte, e lunga è la fatica:
              bisogna ricucir brano per brano;
              ripulir le pillacchere; all'antica
              piantar chiodi e bullette, e poi pian piano
              ringambalar la polpa ed il tomajo:
              ma per pietà badate al calzolaio!

              E poi vedete un po': qua son turchino,
              là rosso e bianco, e quassù giallo e nero;
              insomma a toppe come un arlecchino;
              se volete rimettermi davvero,
              fatemi, con prudenza e con amore,
              tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.

              Scavizzolate all'ultimo se v'è
              un uomo purché sia, fuorché poltrone;
              e se quando a costui mi trovo in piè,
              si figurasse qualche buon padrone
              di far con meco il solito mestiere,
              lo piglieremo a calci nel sedere.
              (Giuseppe Giusti)


              La chiosa di Pierluigi

              Seguendo il tuo consiglio l'hanno fatto:
              han provato per centosettant'anni
              a cercar di scoprire il piede adatto;
              con alti e bassi han fatto altri danni;
              ai Preti ora noi dobbiam sommare
              chi d'Oltremare ci viene a provare!

              E or caro Giuseppe, mio Maestro,
              hanno la gamba pensato di trovare:
              hanno creduto che col piede destro
              di nuovo lui potesse camminare!
              Il guaio è che nessuno ha mai badato
              per quale piede l'hanno fabbricato!
              (Pierluigi Camilli)
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                Scritta da: Gabriella Stigliano
                in Poesie (Poesie d'Autore)

                Infrapensieri la notte

                Il sonno, il nero fiume -
                v'immerge la sua tempra
                per il fuoco dell'aurora
                che lo avvamperà, lo spera,
                l'indomani -
                Sono oscuri
                il turchese ed il carminio
                nei vasi e nelle ciotole,
                li prende
                la notte nel suo grembo,
                li accomuna a tutta la materia.
                Saranno - il pensiero lo tortura
                un attimo, lo allarma -
                pronti alla chiamata
                quando ai vetri si presenta
                in avanscoperta l'alba e, dopo,
                quando irrompe
                e sfolgora sotto la navata
                il pieno giorno -
                hanno
                incerta come lui la sorte
                i colori o il risveglio
                per loro non è in forse,
                la luce non li inganna,
                non li tradisce? E stanno
                nella materia
                o sono
                nell'anima i colori? -
                divaga
                o entra nel vivo
                la sua mente
                nella pausa
                della notte che comincia -
                smarrisce
                e ritrova i filamenti
                dell'arte, della giornata...
                Esce
                insieme ai lapislazzuli
                l'oro dal suo forziere, sì,
                ma incerto
                il miracolo ritarda,
                la sua trasmutazione
                in luce, in radiosità
                gli sarà data piena? Avrà
                lui grazia sufficiente
                a quella spiritualissima alchimia?
                Si addorme,
                s'inabissa,
                è sciocco,
                lo sente,
                quel pensiero, è perfida quell'ansia.
                Chi è lui? Tutto gioca con tutto
                nella universale danza.
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