..uno sbaglio di natura il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità....
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..uno sbaglio di natura il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità....
Controluce a un tramonto
di pesca e zucchero.
E il sole all'interno del vespro,
come il nocciolo in un frutto.
La pannocchia serba intatto
il suo riso giallo e duro.
Agosto.
I bambini mangiano
pane scuro e saporita luna.
Non ero amato dagli abitanti del villaggio,
tutto perché dicevo il mio pensiero,
e affrontavo quelli che mancavano verso di me
con chiara protesta, non nascondendo né nutrendo
segreti affanni o rancori.
È assai lodato l'atto del ragazzo spartano,
che si nascose il lupo sotto il mantello,
lasciandosi divorare, senza lamentarsi.
È più coraggioso, io penso, strapparsi il lupo dal corpo
e lottare con lui all'aperto, magari per strada,
tra polvere e ululi di dolore.
La lingua è magari un membro indisciplinato —
ma il silenzio avvelena l'anima.
Mi biasimi chi vuole — io son contento.
Penso a Livorno, a un vecchio cimitero
di vecchi morti; ove a dormir con essi
niuno più scende; sempre chiuso; nero
d'alti cipressi.
Tra i loro tronchi che mai niuno vede,
di là dell'erto muro e delle porte
ch'hanno obliato i cardini, si crede
morta la Morte,
anch'essa. Eppure, in un bel dì d'Aprile,
sopra quel nero vidi, roseo, fresco,
vivo, dal muro sporgere un sottile
ramo di pesco.
Figlio d'ignoto nòcciolo, d'allora
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?
Ed ora invidii i mandorli che indora
l'alba negli orti?
Od i cipressi, gracile e selvaggio,
dimenticàti, col tuo riso allieti,
tu trovatello in un eremitaggio
d'anacoreti?
È mezzodì. Rintomba.
Tacciono le cicale
nelle stridule seccie.
E chiaro un tuon rimbomba
dopo uno stanco, uguale,
rotolare di breccie.
Rondini ad ali aperte
fanno echeggiar la loggia
dè lor piccoli scoppi.
Già, dopo l'afa inerte,
fanno rumor di pioggia
le fogline dei pioppi.
Un tuon sgretola l'aria.
Sembra venuto sera.
Picchia ogni anta su l'anta.
Serrano. Solitaria
s'ode una capinera,
là, che canta... che canta...
E l'acqua cade, a grosse
goccie, poi giù a torrenti,
sopra i fumidi campi.
S'è sfatto il cielo: a scosse
v'entrano urlando i venti
e vi sbisciano i lampi.
Cresce in un gran sussulto
l'acqua, dopo ogni rotto
schianto ch'aspro diroccia;
mentre, col suo singulto
trepido, passa sotto
l'acquazzone una chioccia.
Appena tace il tuono,
che quando al fin già pare,
fa tremare ogni vetro,
tra il vento e l'acqua, buono,
s'ode quel croccolare
cò suoi pigolìi dietro.
Talor, mentre cammino per le strade
della città tumultuosa solo,
mi dimentico il mio destino d'essere
uomo tra gli altri, e, come smemorato,
anzi tratto fuor di me stesso, guardo
la gente con aperti estranei occhi.
M'occupa allora un puerile, un vago
senso di sofferenza ed ansietà
come per mano che mi opprima il cuore.
Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e a riprodursi,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
facce di meretrici, entro il cervello
mi s'imprimono dolorosamente.
E conosco l'inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,
e l'inutilità della loro vita
amara e il lor destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di loro porta seco
la condanna d'esistere: ma vanno
dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
occupato dall'attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.
Provo un disagio simile a chi veda
inseguire farfalle lungo l'orlo
d'un precipizio, od una compagnia
di strani condannati sorridenti.
E se poco ciò dura, io veramente
in quell'attimo dentro m'impauro
a vedere che gli uomini son tanti.
Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
- soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli -
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch'io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d'inferno
degli atomi e il conato
torbido d'alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.
Oh quante volte mi svegliò il pensiero
che or nella notte naviga un veliero
alla ricerca di sponde marine
che la mia brama vorrebbe vicine...
che in uno a tutti sconosciuto sito
arde una rossa aurora boreale...
che un braccio femminil bello, tornito,
brucia d'amor sul candido guanciale...
che un amico a me dato dalla sorte
ghermito è lungi in mar da oscura morte...
che ora la mamma mia, seppur non mi ama,
forse nel sonno per nome mi chiama.
Viva Adelaide
che il cuor m'infiamma,
e in omnia secula,
viva la mamma!
Donna mirabile,
donna famosa!
È un capo d'opera
è una gran cosa.
Una domenica
L'incontro in piazza,
che aveva a latere
la sua ragazza;
mi ferma e, affabile
come conviene,
comincia al solito:
- Che fa? Sta bene? -
Ed alla figlia
che stava zitta,
gridò: - Su, animo!
Che fai lì ritta?
Su grulla, avvezzati,
fa il tuo dovere... -
Che mamma amabile!
Non è un piacere?
E poi, tenendomi
le mani ai panni,
soggiunse: - Oh, passano
pur presto gli anni!
L'ho vista nascere:
eh, malannaggio!
S'invecchia e termina
l'erba di maggio!
Eh, bimba andiamocene,
stamane ho fretta:
venga un po' a veglia,
venga, s'aspetta!
Siam gente povera,
ma di buon cuore:
ci fa una grazia,
anzi un onore.
Via bimba, pregalo!
Stai lì impalata!
Ma, santa Vergine!
Sei pur sgarbata! -
«È sempre giovane»
dissi « aspettate,
lasciate correre,
non la sgridate:
l'età, la pratica
è molto: e poi,
farà miracoli
sotto di voi! »
Ai panegirici
non sempre avvezza,
fece una smorfia
di tenerezza
la vecchia, e a battere
sul primo invito
tornò, dicendomi:
- Dunque, ha capito;
sa dove s'abita:
verrà? - «Verrò. »
E chi rispondere
Potea di no?
V'andai. Col giubilo,
con quel sembiante
che per le visite
d'un zoccolante
ho visto prendere
dalle massaie,
quando alla questua
gira per l'aie,
quelle, vedendomi,
in un baleno
precipitarono
a pian terreno;
poi risalirono
con meco; ed ambe
-Badi- gridavano
-badi alle gambe.
È poco pratico
la scala è scura... -
«Ma quanti incomodi!
Quanta premura! »
Salgo, si chiacchiera
sul più, sul meno;
mi dàn del discolo
dal capo ameno.
Tutta sollecita
la mamma intanto
scotea la seggiola,
puliva un santo;
da un certo armadio
fra pochi stracci
scioglieva in furia
due canovacci;
d'acqua in un angolo
la brocca empiva:
che mamma provvida!
Che pulizia!
Finite all'ultimo
tante faccende,
disse: - E per tavola
cosa si prende?
Credi Delaide,
sono sgomenta! -
e a me voltandosi
diceva: - Senta,
con tanti ninnoli
ci va un tesoro:
le voglie crescono,
manca il lavoro.
Oh, ripensandoci
m'affogherei;
almeno, càttera,
felice lei... -
Capii l'antifona,
ed un testone
le offersi a titolo
di compassione.
La vecchia ingenua
per la sorpresa
m'urtò col gomito,
si finse offesa;
ma per imprestito
poi l'accettò,
e per andarsene
s'incamminò
e nell'orecchio
mi disse: -Ohè!
Ritorno subito;
badiamo, vhè! -
Io per non ridere
alzando il ciglio,
risposi: «Diamine!
Mi meraviglio! »
Esce da camera,
chiude la porta;
sta fuori un secolo:
che mamma accorta!
Poi tosse e strascica
prima d'entrare....
Il ciel moltiplichi
mamme sì rare!
A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se acolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l'isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d'aria nell'aria,
l'isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.
La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d'aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l'oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L'Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell'uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m'abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s'indora dell'oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell'onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s'affina.
E la mia forza supina
si stampa nell'arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l'isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch'io nomai
non han più l'usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.