Poesie d'Autore migliori


in Poesie (Poesie d'Autore)
Quando musica tu suoni, mia musica,
su quel beato legno che alle dita
gentili replica mentre conduci
la vibrante armonia che mi smarrisce,
quanto invidio quei tasti che in su e in giù
tenendo il cavo di tua mano baciano -
e dal raccolto le mie labbra escluse,
lì accanto, si fan rosse a tanta audacia.
Ben situazione e stato muterebbero,
purché tu le sfiorassi, con quei rapidi
in danza - e tu scorri sì che lieto
fai morto legno più che vive labbra.
Se tanta sorte hanno quegli sfrontati,
dà lor le dita, a me le labbra al bacio.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    In limine

    Godi se il vento ch'entra nel pomario
    vi rimena l'ondata della vita:
    qui dove affonda un morto
    viluppo di memorie,
    orto non era, ma reliquario.

    Il frullo che tu senti non è un volo,
    ma il commuoversi dell'eterno grembo;
    vedi che si trasforma questo lembo
    di terra solitario in un crogiuolo.

    Un rovello è di qua dall'erto muro.
    Se procedi t'imbatti
    tu forse nel fantasma che ti salva:
    si compongono qui le storie, gli atti
    scancellati pel giuoco del futuro.

    Cerca una maglia rotta nella rete
    che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
    Va, per te l'ho pregato, - ora la sete
    mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      La ginestra

      Qui su l'arida schiena
      Del formidabil monte
      Sterminator Vesevo,
      La qual null'altro allegra arbor né fiore,
      Tuoi cespi solitari intorno spargi,
      Odorata ginestra,
      Contenta dei deserti. Anco ti vidi
      Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
      Che cingon la cittade
      La qual fu donna dè mortali un tempo,
      E del perduto impero
      Par che col grave e taciturno aspetto
      Faccian fede e ricordo al passeggero.
      Or ti riveggo in questo suol, di tristi
      Lochi e dal mondo abbandonati amante,
      E d'afflitte fortune ognor compagna.
      Questi campi cosparsi
      Di ceneri infeconde, e ricoperti
      Dell'impietrata lava,
      Che sotto i passi al peregrin risona;
      Dove s'annida e si contorce al sole
      La serpe, e dove al noto
      Cavernoso covil torna il coniglio;
      Fur liete ville e colti,
      E biondeggiàr di spiche, e risonaro
      Di muggito d'armenti;
      Fur giardini e palagi,
      Agli ozi dè potenti
      Gradito ospizio; e fur città famose
      Che coi torrenti suoi l'altero monte
      Dall'ignea bocca fulminando oppresse
      Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
      Una ruina involve,
      Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
      I danni altrui commiserando, al cielo
      Di dolcissimo odor mandi un profumo,
      Che il deserto consola. A queste piagge
      Venga colui che d'esaltar con lode
      Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
      È il gener nostro in cura
      All'amante natura. E la possanza
      Qui con giusta misura
      Anco estimar potrà dell'uman seme,
      Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
      Con lieve moto in un momento annulla
      In parte, e può con moti
      Poco men lievi ancor subitamente
      Annichilare in tutto.
      Dipinte in queste rive
      Son dell'umana gente
      Le magnifiche sorti e progressive .
      Qui mira e qui ti specchia,
      Secol superbo e sciocco,
      Che il calle insino allora
      Dal risorto pensier segnato innanti
      Abbandonasti, e volti addietro i passi,
      Del ritornar ti vanti,
      E procedere il chiami.
      Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
      Di cui lor sorte rea padre ti fece,
      Vanno adulando, ancora
      Ch'a ludibrio talora
      T'abbian fra sé. Non io
      Con tal vergogna scenderò sotterra;
      Ma il disprezzo piuttosto che si serra
      Di te nel petto mio,
      Mostrato avrò quanto si possa aperto:
      Ben ch'io sappia che obblio
      Preme chi troppo all'età propria increbbe.
      Di questo mal, che teco
      Mi fia comune, assai finor mi rido.
      Libertà vai sognando, e servo a un tempo
      Vuoi di novo il pensiero,
      Sol per cui risorgemmo
      Della barbarie in parte, e per cui solo
      Si cresce in civiltà, che sola in meglio
      Guida i pubblici fati.
      Così ti spiacque il vero
      Dell'aspra sorte e del depresso loco
      Che natura ci diè. Per questo il tergo
      Vigliaccamente rivolgesti al lume
      Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
      Vil chi lui segue, e solo
      Magnanimo colui
      Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
      Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
      Uom di povero stato e membra inferme
      Che sia dell'alma generoso ed alto,
      Non chiama sé né stima
      Ricco d'or né gagliardo,
      E di splendida vita o di valente
      Persona infra la gente
      Non fa risibil mostra;
      Ma sé di forza e di tesor mendico
      Lascia parer senza vergogna, e noma
      Parlando, apertamente, e di sue cose
      Fa stima al vero uguale.
      Magnanimo animale
      Non credo io già, ma stolto,
      Quel che nato a perir, nutrito in pene,
      Dice, a goder son fatto,
      E di fetido orgoglio
      Empie le carte, eccelsi fati e nove
      Felicità, quali il ciel tutto ignora,
      Non pur quest'orbe, promettendo in terra
      A popoli che un'onda
      Di mar commosso, un fiato
      D'aura maligna, un sotterraneo crollo
      Distrugge sì, che avanza
      A gran pena di lor la rimembranza.
      Nobil natura è quella
      Che a sollevar s'ardisce
      Gli occhi mortali incontra
      Al comun fato, e che con franca lingua,
      Nulla al ver detraendo,
      Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
      E il basso stato e frale;
      Quella che grande e forte
      Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
      Fraterne, ancor più gravi
      D'ogni altro danno, accresce
      Alle miserie sue, l'uomo incolpando
      Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
      Che veramente è rea, che dè mortali
      Madre è di parto e di voler matrigna.
      Costei chiama inimica; e incontro a questa
      Congiunta esser pensando,
      Siccome è il vero, ed ordinata in pria
      L'umana compagnia,
      Tutti fra sé confederati estima
      Gli uomini, e tutti abbraccia
      Con vero amor, porgendo
      Valida e pronta ed aspettando aita
      Negli alterni perigli e nelle angosce
      Della guerra comune. Ed alle offese
      Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
      Al vicino ed inciampo,
      Stolto crede così qual fora in campo
      Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
      Incalzar degli assalti,
      Gl'inimici obbliando, acerbe gare
      Imprender con gli amici,
      E sparger fuga e fulminar col brando
      Infra i propri guerrieri.
      Così fatti pensieri
      Quando fien, come fur, palesi al volgo,
      E quell'orror che primo
      Contra l'empia natura
      Strinse i mortali in social catena,
      Fia ricondotto in parte
      Da verace saper, l'onesto e il retto
      Conversar cittadino,
      E giustizia e pietade, altra radice
      Avranno allor che non superbe fole,
      Ove fondata probità del volgo
      Così star suole in piede
      Quale star può quel ch'ha in error la sede.
      Sovente in queste rive,
      Che, desolate, a bruno
      Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
      Seggo la notte; e su la mesta landa
      In purissimo azzurro
      Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
      Cui di lontan fa specchio
      Il mare, e tutto di scintille in giro
      Per lo vòto seren brillare il mondo.
      E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
      Ch'a lor sembrano un punto,
      E sono immense, in guisa
      Che un punto a petto a lor son terra e mare
      Veracemente; a cui
      L'uomo non pur, ma questo
      Globo ove l'uomo è nulla,
      Sconosciuto è del tutto; e quando miro
      Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
      Nodi quasi di stelle,
      Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
      E non la terra sol, ma tutte in uno,
      Del numero infinite e della mole,
      Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
      O sono ignote, o così paion come
      Essi alla terra, un punto
      Di luce nebulosa; al pensier mio
      Che sembri allora, o prole
      Dell'uomo? E rimembrando
      Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
      Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
      Che te signora e fine
      Credi tu data al Tutto, e quante volte
      Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
      Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
      Per tua cagion, dell'universe cose
      Scender gli autori, e conversar sovente
      Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
      Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
      Fin la presente età, che in conoscenza
      Ed in civil costume
      Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
      Mortal prole infelice, o qual pensiero
      Verso te finalmente il cor m'assale?
      Non so se il riso o la pietà prevale.
      Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
      Cui là nel tardo autunno
      Maturità senz'altra forza atterra,
      D'un popol di formiche i dolci alberghi,
      Cavati in molle gleba
      Con gran lavoro, e l'opre
      E le ricchezze che adunate a prova
      Con lungo affaticar l'assidua gente
      Avea provvidamente al tempo estivo,
      Schiaccia, diserta e copre
      In un punto; così d'alto piombando,
      Dall'utero tonante
      Scagliata al ciel profondo,
      Di ceneri e di pomici e di sassi
      Notte e ruina, infusa
      Di bollenti ruscelli
      O pel montano fianco
      Furiosa tra l'erba
      Di liquefatti massi
      E di metalli e d'infocata arena
      Scendendo immensa piena,
      Le cittadi che il mar là su l'estremo
      Lido aspergea, confuse
      E infranse e ricoperse
      In pochi istanti: onde su quelle or pasce
      La capra, e città nove
      Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
      Son le sepolte, e le prostrate mura
      L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
      Non ha natura al seme
      Dell'uom più stima o cura
      Che alla formica: e se più rara in quello
      Che nell'altra è la strage,
      Non avvien ciò d'altronde
      Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
      Ben mille ed ottocento
      Anni varcàr poi che spariro, oppressi
      Dall'ignea forza, i popolati seggi,
      E il villanello intento
      Ai vigneti, che a stento in questi campi
      Nutre la morta zolla e incenerita,
      Ancor leva lo sguardo
      Sospettoso alla vetta
      Fatal, che nulla mai fatta più mite
      Ancor siede tremenda, ancor minaccia
      A lui strage ed ai figli ed agli averi
      Lor poverelli. E spesso
      Il meschino in sul tetto
      Dell'ostel villereccio, alla vagante
      Aura giacendo tutta notte insonne,
      E balzando più volte, esplora il corso
      Del temuto bollor, che si riversa
      Dall'inesausto grembo
      Su l'arenoso dorso, a cui riluce
      Di Capri la marina
      E di Napoli il porto e Mergellina.
      E se appressar lo vede, o se nel cupo
      Del domestico pozzo ode mai l'acqua
      Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
      Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
      Di lor cose rapir posson, fuggendo,
      Vede lontan l'usato
      Suo nido, e il picciol campo,
      Che gli fu dalla fame unico schermo,
      Preda al flutto rovente,
      Che crepitando giunge, e inesorato
      Durabilmente sovra quei si spiega.
      Torna al celeste raggio
      Dopo l'antica obblivion l'estinta
      Pompei, come sepolto
      Scheletro, cui di terra
      Avarizia o pietà rende all'aperto;
      E dal deserto foro
      Diritto infra le file
      Dei mozzi colonnati il peregrino
      Lunge contempla il bipartito giogo
      E la cresta fumante,
      Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
      E nell'orror della secreta notte
      Per li vacui teatri,
      Per li templi deformi e per le rotte
      Case, ove i parti il pipistrello asconde,
      Come sinistra face
      Che per vòti palagi atra s'aggiri,
      Corre il baglior della funerea lava,
      Che di lontan per l'ombre
      Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
      Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
      Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
      Dopo gli avi i nepoti,
      Sta natura ognor verde, anzi procede
      Per sì lungo cammino
      Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
      Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
      E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
      E tu, lenta ginestra,
      Che di selve odorate
      Queste campagne dispogliate adorni,
      Anche tu presto alla crudel possanza
      Soccomberai del sotterraneo foco,
      Che ritornando al loco
      Già noto, stenderà l'avaro lembo
      Su tue molli foreste. E piegherai
      Sotto il fascio mortal non renitente
      Il tuo capo innocente:
      Ma non piegato insino allora indarno
      Codardamente supplicando innanzi
      Al futuro oppressor; ma non eretto
      Con forsennato orgoglio inver le stelle,
      Né sul deserto, dove
      E la sede e i natali
      Non per voler ma per fortuna avesti;
      Ma più saggia, ma tanto
      Meno inferma dell'uom, quanto le frali
      Tue stirpi non credesti
      O dal fato o da te fatte immortali.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Il Natale

        Qual masso che dal vertice
        Di lunga erta montana,
        Abbandonato all'impeto
        Di rumorosa frana,
        Per lo scheggiato calle
        Precipitando a valle,
        Batte sul fondo e sta;
        Là dove cadde, immobile
        Giace in sua lenta mole;
        Né, per mutar di secoli,
        Fia che riveda il sole
        Della sua cima antica,
        Se una virtude amica
        In alto nol trarrà:
        Tal si giaceva il misero
        Figliol del fallo primo,
        Dal dì che un'ineffabile
        Ira promessa all'imo
        D'ogni malor gravollo,
        Donde il superbo collo
        Più non potea levar.
        Qual mai tra i nati all'odio
        Quale era mai persona
        Che al Santo inaccessibile
        Potesse dir: perdona?
        Far novo patto eterno?
        Al vincitore inferno
        La preda sua strappar?
        Ecco ci è nato un Pargolo,
        Ci fu largito un Figlio:
        Le avverse forze tremano
        Al mover del suo ciglio:
        All'uom la mano Ei porge,
        Che si ravviva, e sorge
        Oltre l'antico onor.
        Dalle magioni eteree
        Sgorga una fonte, e scende
        E nel borron dè triboli
        Vivida si distende:
        Stillano mele i tronchi;
        Dove copriano i bronchi,
        Ivi germoglia il fior.
        O Figlio, o Tu cui genera
        L'Eterno, eterno seco;
        Qual ti può dir dè secoli:
        Tu cominciasti meco?
        Tu sei: del vasto empiro
        Non ti comprende il giro:
        La tua parola il fè.
        E Tu degnasti assumere
        Questa creata argilla?
        Qual merto suo, qual grazia
        A tanto onor sortilla?
        Se in suo consiglio ascoso
        Vince il perdon, pietoso
        Immensamente Egli è.
        Oggi Egli è nato: ad Efrata,
        Vaticinato ostello,
        Ascese un'alma Vergine,
        La gloria d'Israello,
        Grave di tal portato:
        Da cui promise è nato,
        Donde era atteso uscì.
        La mira Madre in poveri.
        Panni il Figliol compose,
        E nell'umil presepio
        Soavemente il pose;
        E l'adorò: beata!
        Innanzi al Dio prostrata
        Che il puro sen le aprì.
        L'Angel del cielo, agli uomini
        Nunzio di tanta sorte,
        Non dè potenti volgesi
        Alle vegliate porte;
        Ma tra i pastor devoti,
        Al duro mondo ignoti,
        Subito in luce appar.
        E intorno a lui per l'ampia
        Notte calati a stuolo,
        Mille celesti strinsero
        Il fiammeggiante volo;
        E accesi in dolce zelo,
        Come si canta in cielo,
        A Dio gloria cantar.
        L'allegro inno seguirono,
        Tornando al firmamento:
        Tra le varcate nuvole
        Allontanossi, e lento
        Il suon sacrato ascese,
        Fin che più nulla intese
        La compagnia fedel.
        Senza indugiar, cercarono
        L'albergo poveretto
        Què fortunati, e videro,
        Siccome a lor fu detto,
        Videro in panni avvolto,
        In un presepe accolto,
        Vagire il Re del Ciel.
        Dormi, o Fanciul; non piangere;
        Dormi, o Fanciul celeste:
        Sovra il tuo capo stridere
        Non osin le tempeste,
        Use sull'empia terra,
        Come cavalli in guerra,
        Correr davanti a Te.
        Dormi, o Celeste: i popoli
        Chi nato sia non sanno;
        Ma il dì verrà che nobile
        Retaggio tuo saranno;
        Che in quell'umil riposo,
        Che nella polve ascoso,
        Conosceranno il Re.
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          Scritta da: Roberta68
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Quercia sfrondata

          Ti abbiamo tagliato,
          albero!
          Come sei spoglio e bizzarro.
          Cento volte hai patito,
          finché tutto in te fu solo tenacia
          e volontà!
          Io sono come te. Non ho
          rotto con la vita
          incisa, tormentata
          e ogni giorno mi sollevo dalle
          sofferenze e alzo la fronte alla luce.
          Ciò che in me era tenero e delicato,
          il mondo lo ha deriso a morte,
          ma indistruttibile è il mio essere,
          sono pago, conciliato.
          Paziente genero nuove foglie
          Da rami cento volte sfrondati
          e a dispetto di ogni pena
          rimango innamorato
          del mondo folle.
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