La mia anima mi ha parlato, fratello, e mi ha illuminato. E spesso anche a te l'anima parla e ti illumina. Tu infatti sei come me, e non c'è differenza tra noi, se non questa: io esprimo cio che è dentro di me in parole che ho udito nel mio silenzio, mentre tu custodisci tacito ciò che è dentro di te. Ma la tua silenziosa custodia ha lo stesso valore del mio tanto parlare.
Quando musica tu suoni, mia musica, su quel beato legno che alle dita gentili replica mentre conduci la vibrante armonia che mi smarrisce, quanto invidio quei tasti che in su e in giù tenendo il cavo di tua mano baciano - e dal raccolto le mie labbra escluse, lì accanto, si fan rosse a tanta audacia. Ben situazione e stato muterebbero, purché tu le sfiorassi, con quei rapidi in danza - e tu scorri sì che lieto fai morto legno più che vive labbra. Se tanta sorte hanno quegli sfrontati, dà lor le dita, a me le labbra al bacio.
E il cuore quando d'un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d'ombra per condurmi, Madre, sino al Signore, come una volta mi darai la mano. In ginocchio, decisa, Sarai una statua davanti all'eterno, come già ti vedeva quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia, come quando spirasti dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà perdonato, ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso tanto, e avrai negli occhi un rapido sospiro.
Che giorno e tutti i giorni Amica mia È tutta la vita Amore mio Noi ci amiamo noi viviamo Noi viviamo noi ci amiamo E non sappiamo cosa sia la vita Cosa sia il giorno E non sappiamo cosa sia l'amore.
Godi se il vento ch'entra nel pomario vi rimena l'ondata della vita: qui dove affonda un morto viluppo di memorie, orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo, ma il commuoversi dell'eterno grembo; vedi che si trasforma questo lembo di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall'erto muro. Se procedi t'imbatti tu forse nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! Va, per te l'ho pregato, - ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
Qui su l'arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null'altro allegra arbor né fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade Che cingon la cittade La qual fu donna dè mortali un tempo, E del perduto impero Par che col grave e taciturno aspetto Faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi Lochi e dal mondo abbandonati amante, E d'afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell'impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona; Dove s'annida e si contorce al sole La serpe, e dove al noto Cavernoso covil torna il coniglio; Fur liete ville e colti, E biondeggiàr di spiche, e risonaro Di muggito d'armenti; Fur giardini e palagi, Agli ozi dè potenti Gradito ospizio; e fur città famose Che coi torrenti suoi l'altero monte Dall'ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola. A queste piagge Venga colui che d'esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto È il gener nostro in cura All'amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell'uman seme, Cui la dura nutrice, ov'ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell'umana gente Le magnifiche sorti e progressive . Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, Di cui lor sorte rea padre ti fece, Vanno adulando, ancora Ch'a ludibrio talora T'abbian fra sé. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra; Ma il disprezzo piuttosto che si serra Di te nel petto mio, Mostrato avrò quanto si possa aperto: Ben ch'io sappia che obblio Preme chi troppo all'età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell'aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. Uom di povero stato e membra inferme Che sia dell'alma generoso ed alto, Non chiama sé né stima Ricco d'or né gagliardo, E di splendida vita o di valente Persona infra la gente Non fa risibil mostra; Ma sé di forza e di tesor mendico Lascia parer senza vergogna, e noma Parlando, apertamente, e di sue cose Fa stima al vero uguale. Magnanimo animale Non credo io già, ma stolto, Quel che nato a perir, nutrito in pene, Dice, a goder son fatto, E di fetido orgoglio Empie le carte, eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, Non pur quest'orbe, promettendo in terra A popoli che un'onda Di mar commosso, un fiato D'aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì, che avanza A gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella Che a sollevar s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire Fraterne, ancor più gravi D'ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l'uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che dè mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia, Tutti fra sé confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Ed alle offese Dell'uomo armar la destra, e laccio porre Al vicino ed inciampo, Stolto crede così qual fora in campo Cinto d'oste contraria, in sul più vivo Incalzar degli assalti, Gl'inimici obbliando, acerbe gare Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando Infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri Quando fien, come fur, palesi al volgo, E quell'orror che primo Contra l'empia natura Strinse i mortali in social catena, Fia ricondotto in parte Da verace saper, l'onesto e il retto Conversar cittadino, E giustizia e pietade, altra radice Avranno allor che non superbe fole, Ove fondata probità del volgo Così star suole in piede Quale star può quel ch'ha in error la sede. Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch'a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L'uomo non pur, ma questo Globo ove l'uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz'alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell'uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell'universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m'assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Come d'arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz'altra forza atterra, D'un popol di formiche i dolci alberghi, Cavati in molle gleba Con gran lavoro, e l'opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l'assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo, Schiaccia, diserta e copre In un punto; così d'alto piombando, Dall'utero tonante Scagliata al ciel profondo, Di ceneri e di pomici e di sassi Notte e ruina, infusa Di bollenti ruscelli O pel montano fianco Furiosa tra l'erba Di liquefatti massi E di metalli e d'infocata arena Scendendo immensa piena, Le cittadi che il mar là su l'estremo Lido aspergea, confuse E infranse e ricoperse In pochi istanti: onde su quelle or pasce La capra, e città nove Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello Son le sepolte, e le prostrate mura L'arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme Dell'uom più stima o cura Che alla formica: e se più rara in quello Che nell'altra è la strage, Non avvien ciò d'altronde Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. Ben mille ed ottocento Anni varcàr poi che spariro, oppressi Dall'ignea forza, i popolati seggi, E il villanello intento Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancor leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto Dell'ostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall'inesausto grembo Su l'arenoso dorso, a cui riluce Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Del domestico pozzo ode mai l'acqua Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, Desta la moglie in fretta, e via, con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontan l'usato Suo nido, e il picciol campo, Che gli fu dalla fame unico schermo, Preda al flutto rovente, Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio Dopo l'antica obblivion l'estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all'aperto; E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell'orror della secreta notte Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per vòti palagi atra s'aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l'ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Così, dell'uomo ignara e dell'etadi Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per sì lungo cammino Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: E l'uom d'eternità s'arroga il vanto. E tu, lenta ginestra, Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Anche tu presto alla crudel possanza Soccomberai del sotterraneo foco, Che ritornando al loco Già noto, stenderà l'avaro lembo Su tue molli foreste. E piegherai Sotto il fascio mortal non renitente Il tuo capo innocente: Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, Né sul deserto, dove E la sede e i natali Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell'uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali.
Qual masso che dal vertice Di lunga erta montana, Abbandonato all'impeto Di rumorosa frana, Per lo scheggiato calle Precipitando a valle, Batte sul fondo e sta; Là dove cadde, immobile Giace in sua lenta mole; Né, per mutar di secoli, Fia che riveda il sole Della sua cima antica, Se una virtude amica In alto nol trarrà: Tal si giaceva il misero Figliol del fallo primo, Dal dì che un'ineffabile Ira promessa all'imo D'ogni malor gravollo, Donde il superbo collo Più non potea levar. Qual mai tra i nati all'odio Quale era mai persona Che al Santo inaccessibile Potesse dir: perdona? Far novo patto eterno? Al vincitore inferno La preda sua strappar? Ecco ci è nato un Pargolo, Ci fu largito un Figlio: Le avverse forze tremano Al mover del suo ciglio: All'uom la mano Ei porge, Che si ravviva, e sorge Oltre l'antico onor. Dalle magioni eteree Sgorga una fonte, e scende E nel borron dè triboli Vivida si distende: Stillano mele i tronchi; Dove copriano i bronchi, Ivi germoglia il fior. O Figlio, o Tu cui genera L'Eterno, eterno seco; Qual ti può dir dè secoli: Tu cominciasti meco? Tu sei: del vasto empiro Non ti comprende il giro: La tua parola il fè. E Tu degnasti assumere Questa creata argilla? Qual merto suo, qual grazia A tanto onor sortilla? Se in suo consiglio ascoso Vince il perdon, pietoso Immensamente Egli è. Oggi Egli è nato: ad Efrata, Vaticinato ostello, Ascese un'alma Vergine, La gloria d'Israello, Grave di tal portato: Da cui promise è nato, Donde era atteso uscì. La mira Madre in poveri. Panni il Figliol compose, E nell'umil presepio Soavemente il pose; E l'adorò: beata! Innanzi al Dio prostrata Che il puro sen le aprì. L'Angel del cielo, agli uomini Nunzio di tanta sorte, Non dè potenti volgesi Alle vegliate porte; Ma tra i pastor devoti, Al duro mondo ignoti, Subito in luce appar. E intorno a lui per l'ampia Notte calati a stuolo, Mille celesti strinsero Il fiammeggiante volo; E accesi in dolce zelo, Come si canta in cielo, A Dio gloria cantar. L'allegro inno seguirono, Tornando al firmamento: Tra le varcate nuvole Allontanossi, e lento Il suon sacrato ascese, Fin che più nulla intese La compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono L'albergo poveretto Què fortunati, e videro, Siccome a lor fu detto, Videro in panni avvolto, In un presepe accolto, Vagire il Re del Ciel. Dormi, o Fanciul; non piangere; Dormi, o Fanciul celeste: Sovra il tuo capo stridere Non osin le tempeste, Use sull'empia terra, Come cavalli in guerra, Correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli Chi nato sia non sanno; Ma il dì verrà che nobile Retaggio tuo saranno; Che in quell'umil riposo, Che nella polve ascoso, Conosceranno il Re.
Ti abbiamo tagliato, albero! Come sei spoglio e bizzarro. Cento volte hai patito, finché tutto in te fu solo tenacia e volontà! Io sono come te. Non ho rotto con la vita incisa, tormentata e ogni giorno mi sollevo dalle sofferenze e alzo la fronte alla luce. Ciò che in me era tenero e delicato, il mondo lo ha deriso a morte, ma indistruttibile è il mio essere, sono pago, conciliato. Paziente genero nuove foglie Da rami cento volte sfrondati e a dispetto di ogni pena rimango innamorato del mondo folle.
Luna, Piuma di cielo, Cosi velina, Arida, Trasporti il murmure d'anime spoglie?
E alla pallida che diranno mai Pipistrelli dai ruderi del teatro, In sogno quelle capre, E fra arse foglie come in fermo fumo Con tutto il suo sgolarsi di cristallo Un usignuolo?