Intanto mi troverai seduto a subire le mosse del tempo e se tempo avrò mi vedrai intento a raccogliere scaglie. Portami un po' d'olio prima che arrivi inverno e un insolito floema.
Rivedo quella casa le notti in cui si accalcano i cavalli la casa chiusa a chiave. Gli enormi bicchieri poggiati sugli scanni alcuni ocra alcuni neri. Quando morì mia madre non ebbi tempo d'imbiancare la stanza. Qualcuno mi additò come fumo altri come sabbia o peggio ancora come frasca di strada. Io attendo che costoro sposati alle lusinghe mi serbino quel muro sporco e defilato per continuare a disegnare nelle sere di plenilunio i miei anfratti e le mie rane.
Potrei morire e rifiorire svuotarmi di lime perfette di corpi, di resti distorti. Morire attaccato ad un fiume con le braccia più nere del vento. Rinascere poi su un pezzo di gelso in un mare o su un colosso più duro. Ma è proprio ciò che mi spaventa questo colosso che non conosco questo corpo supremo fatto di firmamento di fazzoletti d'orto senza tempo.
Sapessi che peso sentirti come peso leggero sentirti dentro come abile prugna inzuppata più volte sulle urne del corpo. Sapessi che peso il fragile sorriso l'assenza di parole quegli occhi scoscesi sui vetri. Sapessi che male saperti sognare scrosciante.
Devo tornare a ricompormi in una cesta di silenzio o in qualche scorza prodigiosa. Anni vissuti senza tregua voltando gli òmeri al mattino in un fluire interminabile di soli senza soli di forze impavide e sghembe. Avrei già gioito se avessi bussato alle cortecce sarei forse già propaggine. Ma ora che son qui acceso in ombra fra gli ulivi con l'eco dentro il mondo canto versi ai pettirossi.
Che entri mia madre portando in seno mio padre che entri per quell'attimo che basta. Le somiglio lo so in scioltezza di cuore in pienezza d'affanno. Che entri per governarmi l'assenza. E m'investa la brezza l'ossatura del moto. Che entri per quell'attimo che basta scollata dai tetti dallo ione da Dio. E mi elegga veggente oculato interamente logico quaggiù nel polmone.