La felicità è fatta di attimi. La felicità è un bimbo che nasce, il sorriso di un anziano, la gioia dei tuoi figli, le braccia calde dei tuoi genitori le favole ascoltate e quelle raccontate, i tuoi figli che crescono, vedere nascere i tuo nipoti, l'affetto dei tuoi amici, e mille altre piccole cose che danno un senso a questa vita.
Girerò per le strade finché non sarò stanca morta saprò vivere sola e fissare negli occhi ogni volto che passa e restare sempre la stessa. Questo fresco che sale a cercarmi le vene è un risveglio che mai nel mattino ho provato così vero: soltanto, mi sento più forte che il mio corpo, e un tremore più feddo accompagna il mattino. Son lontani i mattini che avevo vent'anni. E domani, ventuno: domani uscirò per le strade, ne ricordo ogni sasso e le strisce di cielo. Da domani la gente riprende a vedermi e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo, ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo di essere io che passavo-una donna, pdrona di se stessa. La magra bambina che fui si è svegliata da un pianto non fosse mai stato. E desidero solo colori. I colori non piangono, sono come un risveglio: domani i colori torneranno. Ciascuna uscirà per la strada, ogni corpo un colore-perfino i bambini. Questo corpo vestito di rosso leggero dopo tanto pallore riavrà la sua vita. Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi e saprò d'esser io: gettando un'occhiata, mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino, uscirò per le strade cercando i colori.
Viva Adelaide che il cuor m'infiamma, e in omnia secula, viva la mamma! Donna mirabile, donna famosa! È un capo d'opera è una gran cosa. Una domenica L'incontro in piazza, che aveva a latere la sua ragazza; mi ferma e, affabile come conviene, comincia al solito: - Che fa? Sta bene? - Ed alla figlia che stava zitta, gridò: - Su, animo! Che fai lì ritta? Su grulla, avvezzati, fa il tuo dovere... - Che mamma amabile! Non è un piacere? E poi, tenendomi le mani ai panni, soggiunse: - Oh, passano pur presto gli anni! L'ho vista nascere: eh, malannaggio! S'invecchia e termina l'erba di maggio! Eh, bimba andiamocene, stamane ho fretta: venga un po' a veglia, venga, s'aspetta! Siam gente povera, ma di buon cuore: ci fa una grazia, anzi un onore. Via bimba, pregalo! Stai lì impalata! Ma, santa Vergine! Sei pur sgarbata! - «È sempre giovane» dissi « aspettate, lasciate correre, non la sgridate: l'età, la pratica è molto: e poi, farà miracoli sotto di voi! » Ai panegirici non sempre avvezza, fece una smorfia di tenerezza la vecchia, e a battere sul primo invito tornò, dicendomi: - Dunque, ha capito; sa dove s'abita: verrà? - «Verrò. » E chi rispondere Potea di no? V'andai. Col giubilo, con quel sembiante che per le visite d'un zoccolante ho visto prendere dalle massaie, quando alla questua gira per l'aie, quelle, vedendomi, in un baleno precipitarono a pian terreno; poi risalirono con meco; ed ambe -Badi- gridavano -badi alle gambe. È poco pratico la scala è scura... - «Ma quanti incomodi! Quanta premura! » Salgo, si chiacchiera sul più, sul meno; mi dàn del discolo dal capo ameno. Tutta sollecita la mamma intanto scotea la seggiola, puliva un santo; da un certo armadio fra pochi stracci scioglieva in furia due canovacci; d'acqua in un angolo la brocca empiva: che mamma provvida! Che pulizia! Finite all'ultimo tante faccende, disse: - E per tavola cosa si prende? Credi Delaide, sono sgomenta! - e a me voltandosi diceva: - Senta, con tanti ninnoli ci va un tesoro: le voglie crescono, manca il lavoro. Oh, ripensandoci m'affogherei; almeno, càttera, felice lei... - Capii l'antifona, ed un testone le offersi a titolo di compassione. La vecchia ingenua per la sorpresa m'urtò col gomito, si finse offesa; ma per imprestito poi l'accettò, e per andarsene s'incamminò e nell'orecchio mi disse: -Ohè! Ritorno subito; badiamo, vhè! - Io per non ridere alzando il ciglio, risposi: «Diamine! Mi meraviglio! » Esce da camera, chiude la porta; sta fuori un secolo: che mamma accorta! Poi tosse e strascica prima d'entrare.... Il ciel moltiplichi mamme sì rare!
Ridotto a me stesso? Morto l'interlocutore? O morto io, l'altro su di me padrone del campo, l'altro, universo, parificatore... o no, niente di questo: il silenzio raggiante dell'amore pieno, della piena incarnazione anticipato da un lampo? - penso se è pensare questo e non opera di sonno nella pausa solare del tumulto di adesso.
Nel più alto punto dove scienza è oblìo d'ogni sapere e certezza, mi dicono, certezza irrefutabile venuta incontro
o nel tempo appeso a un filo d'un riacquisto d'infanzia,
tra sonno e veglia, tra innocenza e colpa,
dove c'è e non c'è opera nostra voluta e scelta.
"La salute della mente è là" dice una voce con cui contendo da anni, una voce che ora è di sirena.
Si naviga tra Sardegna e Corsica. C'è un po' di mare e la barca appruata scarricchia. L'equipaggio dorme. Ma due vegliano nella mezzaluce della plancia. È passato agosto; Siamo alla rottura dei tempi. È una notte viva. Viva più di questa notte, viva tanto da serrarmi la gola è la muta confidenza di quelli che riposano si curi in mano d'altri e di questi che non lasciano la manovra e il calcolo
mentre pregano per i loro uomini in mare da un punto oscuro della costa, mentre arriva dalla parte del Rodano qualche raffica.
Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma, (so della sua vita, del nome che le dà, e del senso) mentre mostra a lungo lo schermo sul selciato una moltitudine stecchita in una posa tra sonno e morte levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell'alba. Né forse la colpisce il primo aspetto ma un altro più recondito, e vede una giustizia di diverso stampo in quella sofferenza di paria orrida eppure non abietta, e nella sua che le scende addosso.
"Avere o non avere la sua parte in questa vita" riemerge in parole il suo pensiero - ma solo un lembo. E io ne tiro a me quella frangia ansioso mi confidi tutto l'altro, attento non mi rubi niente di lei, neppure l'amarezza, ed attendo. S'interrompe invece. Seguono altre immagini dell'India e nel loro riverbero le colgo un sorriso estremo tra di vittima e di bimba quasi mi lasci quella grazia in pegno di lei mentre si eclissa nella sua pena e l'idea di se stessa le muore dentro.
"Perché porti quel giogo, perché non insorgi" mi trattengo appena dal gridarle, soffrendo perché soffre, certo, ma più ancora perché lascia la presa della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo; "Ascoltami" comincio a mormorarle e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor e a lei che sul punto di partire mi guarda da dietro la lampada della sua solitudine tenuta alzata di fronte.
"Mario" mi previene lei che indovina il resto. "Ancora levi come una spada, buona a che?, lo sdegno per le cose che ti resistono. Uomo chiuso all'intelligenza del diverso, negato all'amore: del mondo, intendo, di Dio dunque" e indulge a una smorfia fine di scherno per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.
"Davvero vorrei tu avessi vinto" le dico con affetto incontenibile, più tardi, mentre scorre in un brusio d'api, nel film senza commento, l'India.
"Credi che il tuo sia vero amore? Esamina a fondo il tuo passato" insiste lui saettando ben addentro la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana. E aspetta. Mentre io guardo lontano ed altro non mi viene in mente che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani sfrangiato appena tra gli scogli dell'isola, dove una terra nuda si fa ombra con le sue gobbe o un'altra preparata a semina si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili. "Certo, posso aver molto peccato" rispondo infine aggrappandomi a qualcosa, sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera. "Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso" riprende la sua voce con un fischio di raffica sopra quella landa passando alta. L'ascolto e neppure mi domando perché sia lui e non io di là da questo banco occupato a giudicare i mali del mondo. "Può darsi" replico io mentre già penso ad altro, mentre la via s'accende scaglia a scaglia e qui nel bar il giorno ancora pieno sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio per le ore di libertà e l'uomo che le ha dato il cambio indossa la gabbana bianca e viene verso di noi con due bicchieri colmi, freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.
M'accoglie la tua vecchia, grigia casa steso supino sopra un letto angusto, forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto, conto le ore lentissime a passare, più lente per le nuvole che solcano queste notti d'agosto in terre avare.
Uno che torna a notte alta dai campi scambia un cenno a fatica con i simili, infila l'erta, il vicolo, scompare dietro la porta del tugurio. L'afa dello scirocco agita i riposi, fa smaniare gli infermi ed i reclusi.
Non dormo, seguo il passo del nottambulo sia demente sia giovane tarato mentre risuona sopra pietre e ciottoli; lascio e prendo il mio carico servile e scendo, scendo più che già non sia profondo in questo tempo, in questo popolo.
Questa felicità promessa o data m'è dolore, dolore senza causa o la causa se esiste è questo brivido che sommuove il molteplice nell'unico come il liquido scosso nella sfera di vetro che interpreta il fachiro. Eppure dico: salva anche per oggi. Torno torno le fanno guerra cose e immagini su cui cala o si leva o la notte o la neve uniforme del ricordo.