Scritta da: Antonella Marotta
in Poesie (Poesie d'Autore)
Andiamo, andiamo disperatamente
ancora insieme ne la notte fonda
e lieve e vellutata dell'estate.
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Andiamo, andiamo disperatamente
ancora insieme ne la notte fonda
e lieve e vellutata dell'estate.
La vita... è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all'alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell'aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l'azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
Notte, lucente notte! Notte, più chiara tu del giorno!
Notte, più splendida del sole, che luce dai alla luce,
che Dio- luce di luce -elesse alla sua luce,
notte, trionfante di ogni notte e giorno!
Gioiosa notte, che metti in fuga tenebre
e singhiozzi, l'odio portato al mondo,
le paure, i terrori e orrori atroci.
Si squarcia il cielo ma non ne cadono fulmini.
Eccolo in questa, chi fece notte e tempi,
eccolo carne ed obbediente al tempo:
la nostra carne e tempo han pegno eterno!
Il fosco dei dolori, il nero dei peccati,
il buio della tomba disperde questa notte.
Notte, più chiara tu del giorno! Notte, lucente notte!
Luci che mai son pago di mirare
come diamanti eternamente ardenti. Voi,
fiaccole lucenti,
che la notte e tenebrose nubi
attraversate;
voi che i parchi del cielo, come fiori
adornate.
Voi, testimoni d'Iddio il dì della
creazione,
che solo Dio conosce e commisura,
che soltanto il Suo verbo chiamò col
giusto nome
(noi, ciechi mortali, che cimentarci osiamo!)
Custodi del piacere, oh quante dolci notti
ho trascorso, vegliando, a contemplarvi.
Sentinelle del tempo, quando succederà
che libero d'affanni e mai di voi
dimentico,
sotto di me io vi scruti, voi che col
vostro lume
mi avete acceso l'anima e la mente?
Forse c'è una casa in questa città
dove la porta s'apra per sempre
questa mattina al tocco dell'aurora,
dove lo scopo della luce è raggiunto.
I fiori sono sbocciati
nelle siepi e nei giardini,
e forse c'è un cuore che in essi ha trovato
questa mattina il dono che era in viaggio
da un tempo infinito.
Ecco il genio umanitario
che del mondo stazionario
unge le carrucole.
Per finir la vecchia lite
tra noi, bestie incivilite
sempre un po' selvatiche,
coll'idea d'essere Orfeo
vuoi mestare in un cibreo
l'universo e reliqua.
Al ronzio di quella lira
ci uniremo, gira gira,
tutti in un gomitolo.
Varietà d'usi e di clima
le son fisime di prima;
è mutata l'aria.
I deserti, i monti, i mari,
son confini da lunari,
sogni di geografi.
Col vapore e coi palloni troveremo gli scorcioni
anco nelle nuvole;
ogni tanto, se ci pare,
scapperemo a desinare
sotto, qui agli antipodi;
e né gemini emisferi
ci uniremo bianchi e neri:
bene! Che bei posteri!
Nascerà di cani e gatti
una razza di mulatti
proprio in corpo e in anima.
La scacchiera d'Arlecchino
sarà il nostro figurino,
simbolo dell'indole.
(Già per questo il Gran Sultano
fé' la giubba al Mussulmano
a coda di rondine!)
Bel gabbione di fratelli!
Di tirarci pè capelli
smetteremo all'ultimo.
Sarà inutile il cannone;
rnorirem d'indigestione,
anzi di nullaggine.
La fiaccona generale
per la storia universale
farà molto comodo.
Io non so se il regno umano
deve aver Papa e Sovrano:
ma se ci hanno a essere,
Il Monarca sarà probo
e discreto: un re del globo
saprà star né limiti.
Ed il capo della fede?
Consoliamoci, si crede
che sarà cattolico.
Finirà, se Dio lo vuole,
questa guerra di parole,
guerra da pettegoli.
Finirà: sarà parlata
una lingua mescolata,
tutta frasi aeree;
e già già da certi tali
nei poemi e nei giornali
si comincia a scriverè.
Il puntiglio discortese
di tener dal suo paese,
sparirà tra gli uomini.
Lo chez-nous'd'un vagabondo
vorrà dire: in questo mondo,
non a casa al diavolo.
Tu, gelosa ipocondria,
che m'inchiodi a casa mia,
escimi dal fegato;
e tu pur chetati, o Musa,
che mi secchi colla scusa
dell'amor di patria.
Son figliuol dell'universo,
e mi sembra tempo perso
scriver per l'Italia.
Cari miei concittadini,
non prendiamo per confini
l'Alpi e la Sicilia.
S'ha da star qui rattrappiti
sul terren che ci ha nutriti?
O che siamo cavoli?
Qua e là nascere adesso,
figuratevi, è lo stesso:
io mi credo Tartaro.
Perché far razza tra noi?
Non è scrupolo da voi:
abbracciamo i barbari!
Un pensier cosmopolita
ci moltiplichi la vita,
e ci slarghi il cranio.
Il cuor nostro accartocciato,
nel sentirsi dilatato,
cesserà di battere.
Così sia: certe battute
fanno male alla salute;
ci è da dare in tisico.
Su venite, io sto per uno;
son di tutti e di nessuno;
non mi vò confondere.
Nella gran cittadinanza,
picchia e mena, ho la speranza
di veder le scimmie
Sì sì, tutto un zibaldone:
alla barba di Platone
ecco la repubblica!
Lei è all'orizzonte.
Mi avvicino di due passi,
lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi e
l'orizzonte si sposta
dieci passi più in là.
Per quanto io cammini,
non la raggiungerò mai.
A cosa serve l'utopia?
Serve proprio a questo: a camminare.
È sempre così di giorno e di notte.
C'è il gallo che canta
e la stella che torna
con i suoi sogni per te
contadino del mondo
ovunque tu sia.
Con le mani affondate nelle tasche
fischietta il fanciullo
e la fanciulla lo attende alla finestra,
ma un altro è passato prima di lui,
ed è la stessa cosa.
Di giorno.
Di notte.
Il lavoro stanco,
il riposo pigro
e poi il gallo che canta
e si passa il giorno sperando
nelle stelle che verranno:
ma è una notte di novilunio
e non si vede niente
mentre un fanciullo
fischietta ancora deluso
con un filo di paglia in bocca
e una lacrima
che il sole ha asciugato sul suo viso,
e poi la notte.
Ma il fanciullo è stanco
e vomita odio e dolore
al solito canto del gallo
e lascia il suo mondo
per seguire un cercatore d'oro,
ma il colore del metallo
non cambia la vita
e fischietterà ancora deluso
al chiudersi d'una finestra
in un peccato d 'amore.
Tu vivi sempre nei tuoi atti.
Con la punta delle dita
sfiori il mondo, gli strappi
aurore, trionfi, colori,
allegrie: è la tua musica.
La vita è ciò che tu suoni.
Dai tuoi occhi solamente
emana la luce che guida
i tuoi passi. Cammini
fra ciò che vedi. Soltanto.
E se un dubbio ti fa cenno
a diecimila chilometri,
abbandoni tutto, ti lanci
su prore, su ali,
sei subito lì; con i baci,
coi denti lo laceri:
non è più dubbio.
Tu mai puoi dubitare.
Perché tu hai capovolto
i misteri. E i tuoi enigmi,
ciò che mai potrai capire,
sono le cose più chiare:
la sabbia dove ti stendi,
il battito del tuo orologio
e il tenero corpo rosato
che nel tuo specchio ritrovi
ogni giorno al risveglio,
ed è il tuo. I prodigi
che sono già decifrati.
E mai ti sei sbagliata,
solo una volta, una notte
che t'invaghisti di un'ombra
-l'unica che ti è piaciuta-
un'ombra pareva.
E volesti abbracciarla.
Ed ero io.
Ti si sta vedendo l'altra.
Somiglia a te:
i passi, la stessa fronte aggrondata,
gli stessi tacchi alti
tutti macchiati di stelle.
Quando andrete per strada
insieme, tutte e due,
che difficile sapere
chi sei, chi non sei tu!
Così uguali ormai, che sarà
impossibile continuare a vivere
così, essendo tanto uguali.
E siccome tu sei la fragile,
quella che appena esiste, tenerissima,
sei tu a dover morire.
Tu lascerai che ti uccida,
che continui a vivere lei,
la falsa tu, menzognera,
ma a te così somigliante
che nessuno ricorderà
tranne me, ciò che eri.
E verrè un giorno
-perché verrà, sì, verrà-
in cui guardandomi negli occhi
tu vedrai
che penso a lei e che la amo
e vedrai che non sei tu.