Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...

Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: "È fatta, " con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    Verso le Terme di Caracalla

    Vanno verso le Terme di Caracalla
    giovani amici, a cavalcioni
    di Rumi o Ducati, con maschile
    pudore e maschile impudicizia,
    nelle pieghe calde dei calzoni
    nascondendo indifferenti, o scoprendo,
    il segreto delle loro erezioni...
    Con la testa ondulata, il giovanile
    colore dei maglioni, essi fendono
    la notte, in un carosello
    sconclusionato, invadono la notte,
    splendidi padroni della notte...

    Va verso le Terme di Caracalla,
    eretto il busto, come sulle natie
    chine appenniniche, fra tratturi
    che sanno di bestia secolare e pie
    ceneri di berberi paesi - già impuro
    sotto il gaglioffo basco impolverato,
    e le mani in saccoccia - il pastore
    migrato
    undicenne, e ora qui, malandrino e
    giulivo
    nel romano riso, caldo ancora
    di salvia rossa, di fico e d'ulivo...

    Va verso le Terme di Caracalla,
    il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
    che il feroce Frascati ha ridotto
    a una bestia cretina, a un beato,
    con nello chassì i ferrivecchi
    del suo corpo scassato, a pezzi,

    rantolanti: i panni, un sacco,
    che contiene una schiena un po' gobba,
    due cosce certo piene di croste,
    i calzonacci che gli svolazzano sotto
    le saccocce della giacca pese
    di lordi cartocci. La faccia
    ride: sotto le ganasce, gli ossi
    masticano parole, scrocchiando:
    parla da solo, poi si ferma,
    e arrotola il vecchio mozzicone,
    carcassa dove tutta la giovinezza,
    resta, in fiore, come un focaraccio
    dentro una còfana o un catino:
    non muore chi non è mai nato.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Il canto popolare

      Improvviso il mille novecento
      cinquanta due passa sull'Italia:
      solo il popolo ne ha un sentimento
      vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
      la modernità, benché sempre il più
      moderno sia esso, il popolo, spanto
      in borghi, in rioni, con gioventù
      sempre nuove - nuove al vecchio canto -
      a ripetere ingenuo quello che fu.

      Scotta il primo sole dolce dell'anno
      sopra i portici delle cittadine
      di provincia, sui paesi che sanno
      ancora di nevi, sulle appenniniche
      greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
      i nuovi colori delle tele, i nuovi
      vestiti come in limpidi roghi
      dicono quanto oggi si rinnovi
      il mondo, che diverse gioie sfoghi...

      Ah, noi che viviamo in una sola
      generazione ogni generazione
      vissuta qui, in queste terre ora
      umiliate, non abbiamo nozione
      vera di chi è partecipe alla storia
      solo per orale, magica esperienza;
      e vive puro, non oltre la memoria
      della generazione in cui presenza
      della vita è la sua vita perentoria.

      Nella vita che è vita perché assunta
      nella nostra ragione e costruita
      per il nostro passaggio - e ora giunta
      a essere altra, oltre il nostro accanito
      difenderla - aspetta - cantando supino,
      accampato nei nostri quartieri
      a lui sconosciuti, e pronto fino
      dalle più fresche e inanimate ère -
      il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

      E se ci rivolgiamo a quel passato
      ch'è nostro privilegio, altre fiumane
      di popolo ecco cantare: recuperato
      è il nostro moto fin dalle cristiane
      origini, ma resta indietro, immobile,
      quel canto. Si ripete uguale.
      Nelle sere non più torce ma globi
      di luce, e la periferia non pare
      altra, non altri i ragazzi nuovi...

      Tra gli orti cupi, al pigro solicello
      Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
      d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
      di Toscana, con strilli di rondinini:
      Hor atorno fratt Helya! La santa
      violenza sui rozzi cuori il clero
      calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
      feroce nel feudo provinciale l'Impero
      da Iddio imposto: e il popolo canta.

      Un grande concerto di scalpelli
      sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
      sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
      suona, giganteggiando il travertino
      nel nuovo spazio in cui s'affranca
      l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
      jersera... ripete con l'anima spanta
      nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
      resta nel popolo. E il popolo canta.

      Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
      e trepidi nel vento napoleonico,
      all'Inno dell'Albero della Libertà,
      tremano i nuovi colori delle nazioni.
      Ma, cane affamato, difende il bracciante
      i suoi padroni, ne canta la ferocia,
      Guagliune 'e mala vita! In branchi
      feroci. La libertà non ha voce
      per il popolo cane. E il popolo canta.

      Ragazzo del popolo che canti,
      qui a Rebibbia sulla misera riva
      dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
      è vero, cantando, l'antica, la festiva
      leggerezza dei semplici. Ma quale
      dura certezza tu sollevi insieme
      d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
      tuguri e grattacieli, allegro seme
      in cuore al triste mondo popolare.

      Nella tua incoscienza è la coscienza
      che in te la storia vuole, questa storia
      il cui Uomo non ha più che la violenza
      delle memorie, non la libera memoria...
      E ormai, forse, altra scelta non ha
      che dare alla sua ansia di giustizia
      la forza della tua felicità,
      e alla luce di un tempo che inizia
      la luce di chi è ciò che non sa.
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        Scritta da: Gloria Levrini
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        La tigre

        Tigre! Tigre! Divampante fulgore
        Nelle foreste della notte,
        Quale fu l'immortale mano o l'occhio
        Ch'ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?

        In quali abissi o in quali cieli
        Accese il fuoco dei tuoi occhi?
        Sopra quali ali osa slanciarsi?
        E quale mano afferra il fuoco?
        Quali spalle, quale arte
        Poté torcerti i tendini del cuore?
        E quando il tuo cuore ebbe il primo palpito,
        Quale tremenda mano? Quale tremendo piede?

        Quale mazza e quale catena?
        Il tuo cervello fu in quale fornace?
        E quale incudine?
        Quale morsa robusta osò serrarne i terrori funesti?

        Mentre gli astri perdevano le lance tirandole alla terra
        e il paradiso empivano di pianti?
        Fu nel sorriso che ebbe osservando compiuto il suo lavoro,
        Chi l'Agnello creò, creò anche te?

        Tigre! Tigre! Divampante fulgore
        Nelle foreste della notte,
        Quale mano, quale immortale spia
        Osa formare la tua agghiacciante simmetria?
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          Scritta da: Gloria Levrini
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          La Divina Immagine

          Grazia, Amore, Pace, e Pietà
          Chi è negli affanni prega,
          E ad esse virtù che liberano
          Torna l'animo grato.

          Grazia, Amore, Pace, e Pietà
          È Iddio, Padre caro,
          Grazia, Amore, Pace e Pietà
          È l'uomo, Suo figliolo e Suo pensiero.

          La Grazia ha cuore umano;
          Volto umano, Pietà;
          Umana forma divina, l'Amore,
          E veste umana, Pace.

          Ogni uomo, d'ogni clima,
          Se prega negli affanni,
          L'umana supplica forma divina,
          Amore e Grazia e la Pietà e la Pace.

          Da tutti amata sia l'umana forma,
          In Turchi si mostri o in Ebrei;
          Dove trovi Pietà, l'Amore e Grazia,
          Iddio sta di casa.
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            Scritta da: Marianna Mansueto
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            Il sorriso

            C'è un sorriso d'amore,
            e c'è un sorriso della seduzione,
            un sorriso c'è dei sorrisi
            dove si incontrano quei due sorrisi.

            C'è un aggrottamento dell'odio
            e c'è un aggrottamento del disdegno,
            ed un aggrottamento c'è degli aggrottamenti
            di cui invano tentate di scordarvi,

            Poiché a fondo nel profondo del cuore penetra,
            e affonda nelle midolla delle ossa-
            e mai nessun sorriso fu sorriso,
            ma solo quel sorriso solo,

            sorriso che dalla culla alla fossa
            sorridere si può una volta una sola;
            quando è sorriso
            ha fine ogni miseria.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
              in Poesie (Poesie d'Autore)

              Unicità

              In fondo è questo, lasciare scappare ciò che nutre
              il sangue, poterne fare a meno. Abituarsi al secco
              cuore. Dal mattino una distrazione il resto:
              andare, venire, umiliare le braccia e la sobrietà.
              Ogni tanto un passaggio, una stretta affondata
              che ha ragione nel fumo della sigaretta.
              Ecco il marchio. Ciò che siamo è invulnerabile.
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