«Carlotta»... Vedo il nome che sussurro scritto in oro, in corsivo, a mezzo un fregio ovale, sui volumi di collegio d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...
Nel salone ove par morto da poco il riso di Carlotta, fra le buone brutte cose borghesi, nel salone quest'oggi, amica, noi faremo un gioco. Parla il salone all'anima corrotta, d'un'altra età beata e casalinga: pel mio rimpianto voglio che tu finga una commedia: tu sarai Carlotta.
Svesti la gonna d'oggi che assottiglia la tua persona come una guaina, scomponi la tua chioma parigina troppo raccolta sulle sopracciglia; vesti la gonna di quel tempo: i vecchi tessuti a rombi, a ghirlandette, a strisce, bipartisci le chiome in bande lisce custodi delle guancie e degli orecchi.
Poni a gli orecchi gli orecchini arcaici oblunghi, d'oro lavorato a maglia, e al collo una collana di musaici effigïanti le città d'Italia... T'aspetterò sopra il divano, intento in quella stampa: Venere e Vulcano... Tu cerca nell'immenso canterano dell'altra stanza il tuo travestimento. Poi, travestita dei giorni lontani, (commediante!) vieni tra le buone brutte cose borghesi del salone, vieni cantando un'eco dell'Ernani, vieni dicendo i versi delicati d'una musa del tempo che fu già: qualche ballata di Giovanni Prati, dolce a Carlotta, sessant'anni fa... ...
Via per le cerule volte stellate più melanconica la Luna errò. E il lene e pallido stuol delle fate nel mar dell'etere si dileguò... Solo uno spirito sotto quel tiglio dev'ei si amavano s'udia cantar. Ahi! Fra le lacrime di quest'esiglio che importa vivere, che giova amar?... ... ... ...
Che giova amar?... La voce s'avvicina, Carlotta appare. Veste d'una stoffa a ghirlandette, così dolce e goffa nel cerchio immenso della crinolina. Vieni, fantasma vano che m'appari, qui dove in sogno già ti vidi e udii, qui dove un tempo furono gli Zii molto dabbene, in belli conversari.
Ah! Per te non sarò, piccola allieva diligente, il sofista schernitore; ma quel cugin che si premeva il cuore e che diceva «t'amo!» e non rideva. Oh! La collana di città! Vïaggio lungo la filza grave di musaici: dolce seguire i panorami arcaici, far con le labbra tal pellegrinaggio!
Come sussulta al ritmo del tuo fiato Piazza San Marco e al ritmo d'una vena come sussulta la città di Siena... Pisa... Firenze... tutto il Gran Ducato! Seguo tra i baci molte meraviglie, colonne mozze, golfi sorridenti: Castellamare... Napoli... Girgenti... Tutto il Reame delle Due Sicilie!
Dolce tentare l'ultime che tieni chiuse tra i seni piccole cornici: Roma papale! Palpita tra i seni la Roma degli Stati Pontifici! Alterno, amica, un bacio ad ogni grido della tua gola nuda e palpitante; Carlotta non è più! Commedïante del mio sognare fanciullesco, rido!
Rido! Perdona il riso che mi tiene, mentre mi baci con pupille fisse... Rido! Se qui, se qui ricomparisse lo Zio con la Zia molto dabbene! Vesti la gonna, pettina le chiome, riponi i falbalà nel canterano. Commediante del tempo lontano, di Carlotta non resta altro che il nome.
Il nome!... Vedo il nome che sussurro, scritto in oro, in corsivo, a mezzo fregio ovale, sui volumi di collegio d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...
Ricordi? Io la rivedo, rivedo la compagna, la classe, la lavagna, e lei china alla filza dei verbi greci... Smilza e mascula: un cinedo molto ricciuto e bello... Ricordi? Io la rivedo bionda, sciocchina, gaia: un piccolo cervello poco intellettuale di piccola crestaia molto sentimentale. Non la ricordi? Smorta, con certe iridi chiare dal vasto arco ciliare...
E l'anno scorso è morta. Ebbe un amante. Pare.
Quella è la casa dove crebbe fanciulla. Guarda quella finestra dove vegliava ad ora tarda; il biondo capo chino su pergamene rozze di greco e di latino, sugli assiomi nudi... Ma poi lascia gli studi maschi, passando a nozze cospicue: un amico, pare, un amico antico della madre, uno sposo ricchissimo ed annoso, inglese, che la porta in terra d'oltremare...
E l'anno scorso è morta. Ebbe un amante. Pare.
Volsero gli anni. Ed ella esule sul Tamigi non dava più novella... Pure, nei giorni grigi, tra i miei grigi ricordi, vedevo a quando a quando i coniugi discordi: lo sposo venerando e l'esile compagna signora in Gran Bretagna...
Quand'ecco fa ritorno fra noi, senza marito; e fu rivista un giorno più bella nel vestito cupo... Cercava intorno col volto sbigottito, con pupilla assorta, chi la volesse amare...
Ho per amico un bell'originale commesso farmacista. Mi conforta col ragionarmi della sposa, morta priva di nozze del mio stesso male.
«Lei guarirà: coi debiti riguardi, lei guarirà. Lei può curarsi in ozio; ma pensi una modista, in un negozio... Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.
Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio. Pagai le spese del viaggio. E costa! Vede quel muro bianco a mezza costa? È il cimitero piccolo e selvaggio.
Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno. La dovevo sposare nell'aprile; nell'aprile morì di mal sottile. Vede che piango... non me ne vergogno.»
Piangeva. O morta giovane modista, dal cimitero pendulo fra i paschi non vedi il pianto sopra i baffi maschi del fedele commesso farmacista?
«Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno a sera, di svagarmi; lo potrei... Preferisco restarmene con lei e faccio versi... non me ne vergogno.»
Sposa che senza nozze hai già varcato la fiumana dell'ultima rinunzia, vedi lo sposo che per te rinunzia alle dolci serate del curato?
Vedi che, solo, e affaticati gli occhi fra scatole, barattoli, cartine, preferisce le tue veglie meschine alle gioie del vino e dei tarocchi?
«Non glie li dico: ché una volta detti quei versi perderebbero ogni pregio; poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio per la morta a cui furono diretti.
Mi pare che soltanto al cimitero, protetti dalle risa e dallo scherno i versi del mio povero quaderno mi parlino di lei, del suo mistero.»
Imaginate con che rime rozze, con che nefandità da melodramma il poveretto cingerà di fiamma la sposa che morì priva di nozze!
Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista... il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida... Ma non si rida, amici, non si rida del povero commesso farmacista.
Non si rida alla pena solitaria di quel poeta; non si rida, poi ch'egli vale ben più di me, di voi corrosi dalla tabe letteraria.
Egli certo non pensa all'euritmia quando si toglie il camice di tela, chiude la porta, accende la candela e piange con la sua malinconia.
Egli è poeta più di tutti noi che, in attesa del pianto che s'avanza, apprestiamo con debita eleganza le fialette dei lacrimatoi.
Vale ben più di noi che, fatti scaltri, saputi all'arte come cortigiane, in modi vari, con lusinghe piane tentiamo il sogno per piacere agli altri.
Per lui soltanto il verso messaggiero va dal finito all'infinito eterno. «Vede, se chiudo il povero quaderno parlo con lei che dorme in cimitero.»
A lui soltanto, o gran consolatrice poesia, tu consoli i giorni grigi, tu che fra tutti i sogni prediligi il sogno che si sogna e non si dice.
«Non glie li dico: ché una volta detti quei versi perderebbero ogni pregio: poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio per la morta a cui furono diretti.»
Saggio, tu pensi che impallidirebbe al mondo vano il fiore di parole come il cielo notturno che lo crebbe impallidisce al sorgere del sole.
Di me molto più saggio, che licenzio i miei sogni, o fratello, tu mantieni intatti fra le pillole e i veleni i sogni custoditi dal silenzio!
Buon custode è il silenzio. E le tue grida solo la morta giovane modista ode: non altri della folla, trista per chi fraternamente si confida.
Non si rida, compagni, non si rida del poeta commesso farmacista.