Poesie d'Autore


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

Il frutteto

Anche né malinconico né lieto
(forse la consuetudine assecondo
cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)
oggi varco la soglia del frutteto.

Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
È bene questo il luogo; in questa calma
conchiusa, certo l'intangibil salma
giacque per sempre dell'amor ucciso,

del vero antico Amore ch'io cercai
malinconicamente per l'inquieta
mia giovinezza, la raggiante mèta
sì perseguìta e non raggiunta mai.

Or mi soffermo con pupille intente:
le cose mi ritornano lontano
nel Tempo - irrevocabile richiamo! -
mi rivedo fanciullo, adolescente.

O belle, belle come i belli nomi,
Simona e Gasparina, le gemelle!
Pur vi rivedo in vesta d'angelelle
dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.

Ed anche qui le statue e le siepi
ed il busso ribelle alle cesoie.
(Natali dell'infanzia, o buone gioie,
quando n'ornavo i colli dei presepi!)

Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso
simmetrico, sui lauri, sugli spessi
carpini, sulle rose, sui cipressi,
sulle vestigia dell'antico lusso

da cento anni un folto si compose
di pomi e peri; il regno statuario
ricoperse; nel florido sudario
sfiorirono le siepi delle rose;

nell'ombre il musco ricoperse i cori
curvi di marmo intatto (l'Antenata
non vede lo sfacelo, contristata?)
e nell'ombre languirono gli allori.

Son l'ombre di una gran pace tranquille:
il sole, trasparendo dall'intrico,
segna la ghiaia del giardino antico
di monete, di lunule, d'armille.

M'avanzo pel sentiero ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto;
ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d'un frutto.

Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
in terra, sui busseti, sui rosai:
sire Autunno, quest'anno come mai,
munifico vuotò la cornucopia.

O gioco strano! Pur nella faretra
di Diana cadde una perfetta pera,
così perfetta che non sembra vera
ma sculturata nell'istessa pietra.

Il frutto altorecato assai mi tenta:
balzo sul plinto, il dono della Terra
tolgo alli acuti simboli di Guerra,
avvincendomi all'erma sonnolenta.

S'adonta ella, forse, ch'io la tocchi,
l'erma dal guardo gelido e sinistro?
(il tempo edace lineò di bistro
le palpebre lapidee delli occhi).

Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
attirante, soffuso di promesse,
- O miti elleni! - s'ella mi stringesse
d'improvviso, così, tra le sue braccia! -

E tolgo e mordo il frutto avventurato
e mi pare di suggere dal frutto
un'infinita pace, un bene, tutto
tutto l'oblio del tedio e del passato.

Ma guardo in torno. Vedo teoria
d'erme ridenti in loro bianche clamidi,
ridendi tra le squallide piramidi
del busso. - Torna la malinconia:

Ridevano così quando mio padre
esalò la grande anima e pur tali
(udranno allor le mie grida mortali?)
sorrideranno e morirà mia madre.

Ridevano così che nella culla
dormivo inconsapevole d'affanno:
implacabili ancor sorrideranno
quando di me non resterà più nulla.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    L'altro

    L'Iddio che a tutto provvede
    poteva farmi poeta
    di fede; l'anima queta
    avrebbe cantata la fede.

    Mi è strano l'odore d'incenso:
    ma pur ti perdono l'aiuto
    che non mi desti, se penso
    che avresti anche potuto,

    invece di farmi gozzano
    un po' scimunito, ma greggio,
    farmi gabrieldannunziano:
    sarebbe stato ben peggio!

    Buon Dio, e puro conserva
    questo mio stile che pare
    lo stile d'uno scolare
    corretto un po' da una serva.

    Non ho nient'altro di bello
    al mondo, fra crucci e malanni!
    M'è come un minore fratello,
    un altro gozzano: a tre anni.

    Gli devo le ore di gaudi
    più dolci! Lo tengo vicino;
    non cedo per tutte Le Laudi
    quest'altro gozzano bambino!

    Gli prendo le piccole dita,
    gli faccio vedere pel mondo
    la cosa che dicono Mondo,
    la cosa che dicono Vita...
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)
      Un tulle, verdognolo d'alga,
      l'avvolge: bellissimo all'occhio,
      ed Ella m'accenna dal cocchio -
      si sfolla il teatro - ch'io salga:

      «Positivista irredento
      un'ora fraterna e un the raro
      a casa vo' darle e il commento
      dell'opere di Fogazzaro».

      Sì! Vengo! Ideale, convertirci
      gli ardori dell'anime calme;
      uniscile come le palme
      toccantesi solo coi vertici.

      Le forme bellissime sue
      non curo, o Signora! Il Maestro
      (non so se pudìco o maldestro)
      ci vieta servircene a due.

      Daniele non bacia la bocca,
      ma fugge per Fede e Speranza,
      vaporeggiando a distanza
      l'amor della Donna non tocca.

      Ah! Lungi l'orrore dei sensi!
      E noi penseremo, o Signora,
      l'azzurreggiante d'incensi
      Cappella Sistina canora.

      Papaveri! E l'ora più blanda
      faremo, Signora, con quella
      del Sonno tremenda sorella:
      (prodigio di versi!...) Miranda.

      Dispongo le carni compunte,
      Marchesa, mia pura sorella,
      la palma pensando, che snella
      non lega le basi alle punte.

      Le basi... le punte incorrotte...
      il the... Fogazzaro... Marchesa!
      Ma questo sparato mi pesa!
      Non ho la camicia da notte...
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        La beata riva

        Quegli che sazio della vita grigia
        navigò verso l'isole custodi
        una levarsi intese fra melodi
        voce più dolce della canna frigia:

        «Uomo! Ritorna sulle tue vestigia
        al dolce mondo! Pel tuo bene m'odi!
        Ché l'acqua stessa dei canori approdi
        quella è che nutre la palude stigia».

        «Con un fiore il passato si cancella!»
        «Cancellerai la faccia della Madre
        e della Sposa?» - «Tu sola mi piaci!»

        «L'amarsi è bello!» - «Ma tu sei più bella!»
        «Fra queste braccia soffrirai!» - «Leggiadre!»
        «Verrà la Morte.» - «Pur che tu mi baci!»
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Elogio del sonetto

          Lodati, o Padri, che per le Madonne
          amate nel platonico supplizio,
          edificaste il nobile edifizio
          eretto su quattordici colonne!

          Nulla è più dolce al vivere fittizio
          di te, compenso della notte insonne,
          non la capellatura delle donne,
          non metri novi in gallico artifizio.

          Nessuna forma dà questa che dai
          al sognatore ebbrezza non dicibile
          quand'egli con sagacia ti prepari!

          O forma esatta più che ogni altra mai,
          prodigio di parole indistruttibile,
          come i vecchi gioielli ereditati!
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            in Poesie (Poesie d'Autore)
            Poeta, or che più lieto arride Maggio
            ritornerai al verde nido ombroso
            «con Quella che d'Amor ti tiene ostaggio».

            E lieto più che mai ti sia il riposo
            però che al tuo fratello hai dato il bene
            del libro salutifero e gioioso.

            Il senso della Vita alle mie vene
            ritorna ed alla mente il dolce lume
            e fuggonsi i fantasmi di mie pene

            se vado rileggendo il tuo volume.

            II.

            Ma tu non sa ch'io sia: io son la trista
            ombra di un uomo che divenne fievole
            pel veleno dell'«altro evangelista».

            Mia puerizia, illusa dal ridevole
            artificio dei suoni e dagli affanni
            di un sogno esasperante e miserevole,

            apprestò la cicuta ai miei vent'anni:
            amai stolidamente, come il Fabro,
            le musiche composite e gl'inganni

            di donne belle solo di cinabro.

            III.

            Or troppo il sole aperto mi commuove
            tanto fui uso alla penombra esigua
            che avvolgon le cortine delle alcove.

            Tu mi richiami alla campagna irrugua?
            Troppo m'illuse il sogno di Sperelli,
            troppo mi piacque nostra vita ambigua.

            O benedetti siate voi, ribelli,
            che verso la salute e verso il vero
            ritemprate le sorti dei fratelli.

            Per me nulla tentar. Più nulla spero.

            IV.

            Me non solleverai. Forse già sono
            troppo malato e forse più non vale
            temprarmi alle terzine del tuo dono.

            Però senti e rispondimi: già un tale
            morbo tenne te pur? Tu pur malato
            fosti e guaristi del mio stesso male?

            Sorella Terra dunque t'ha sanato?
            Io pure ne andrò a lei, ma le mie smorte
            membra distenderò, come il Beato,

            per aspettare la sorella Morte.
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              Scritta da: Silvana Stremiz
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              Suprema quies

              Serrati i pugni bianchi come cera
              giace supino in terra arrovesciato
              e la faccia pel rivo insanguinato
              è quasi nera.

              Con orrido rilievo l'apertura
              della ferita tutto il sangue aduna
              su la nuca, sul collo, su la bruna
              capellatura.

              Giace supino. E non sembra dolere
              la bella bocca. Quasi ch'Egli avvinga
              ancor la Donna e la sua bocca attinga
              tutto il piacere.

              Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
              rischiarano il silenzio sepolcrale:
              allineati stan nello scaffale
              mille volumi

              che alluminava un mastro fiorentino
              d'orifiamme e d'armille in cento nodi.
              Aperti sul divano soni i «Modi»
              dell'Aretino

              e sul divano è un guanto che rimosse
              qui, nell'entrar, la Donna del Convito
              ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
              di rose rosse.

              Guata con gli occhi di mestizia pieni
              in capo al letto sull'arazzo infisso
              dolentemente immoto il crocifisso
              di Guido Reni.

              Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
              Come in un sogno d'armonia perplessa
              al Poeta ventenne è già concessa
              l'ultima pace.
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                Scritta da: Silvana Stremiz
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                L'esperimento

                «Carlotta»... Vedo il nome che sussurro
                scritto in oro, in corsivo, a mezzo un fregio
                ovale, sui volumi di collegio
                d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...

                Nel salone ove par morto da poco
                il riso di Carlotta, fra le buone
                brutte cose borghesi, nel salone
                quest'oggi, amica, noi faremo un gioco.
                Parla il salone all'anima corrotta,
                d'un'altra età beata e casalinga:
                pel mio rimpianto voglio che tu finga
                una commedia: tu sarai Carlotta.

                Svesti la gonna d'oggi che assottiglia
                la tua persona come una guaina,
                scomponi la tua chioma parigina
                troppo raccolta sulle sopracciglia;
                vesti la gonna di quel tempo: i vecchi
                tessuti a rombi, a ghirlandette, a strisce,
                bipartisci le chiome in bande lisce
                custodi delle guancie e degli orecchi.

                Poni a gli orecchi gli orecchini arcaici
                oblunghi, d'oro lavorato a maglia,
                e al collo una collana di musaici
                effigïanti le città d'Italia...
                T'aspetterò sopra il divano, intento
                in quella stampa: Venere e Vulcano...
                Tu cerca nell'immenso canterano
                dell'altra stanza il tuo travestimento.
                Poi, travestita dei giorni lontani,
                (commediante!) vieni tra le buone
                brutte cose borghesi del salone,
                vieni cantando un'eco dell'Ernani,
                vieni dicendo i versi delicati
                d'una musa del tempo che fu già:
                qualche ballata di Giovanni Prati,
                dolce a Carlotta, sessant'anni fa...
                ...

                Via per le cerule
                volte stellate
                più melanconica
                la Luna errò.
                E il lene e pallido
                stuol delle fate
                nel mar dell'etere
                si dileguò...
                Solo uno spirito
                sotto quel tiglio
                dev'ei si amavano
                s'udia cantar.
                Ahi! Fra le lacrime
                di quest'esiglio
                che importa vivere,
                che giova amar?...
                ...
                ...
                ...

                Che giova amar?... La voce s'avvicina,
                Carlotta appare. Veste d'una stoffa
                a ghirlandette, così dolce e goffa
                nel cerchio immenso della crinolina.
                Vieni, fantasma vano che m'appari,
                qui dove in sogno già ti vidi e udii,
                qui dove un tempo furono gli Zii
                molto dabbene, in belli conversari.

                Ah! Per te non sarò, piccola allieva
                diligente, il sofista schernitore;
                ma quel cugin che si premeva il cuore
                e che diceva «t'amo!» e non rideva.
                Oh! La collana di città! Vïaggio
                lungo la filza grave di musaici:
                dolce seguire i panorami arcaici,
                far con le labbra tal pellegrinaggio!

                Come sussulta al ritmo del tuo fiato
                Piazza San Marco e al ritmo d'una vena
                come sussulta la città di Siena...
                Pisa... Firenze... tutto il Gran Ducato!
                Seguo tra i baci molte meraviglie,
                colonne mozze, golfi sorridenti:
                Castellamare... Napoli... Girgenti...
                Tutto il Reame delle Due Sicilie!

                Dolce tentare l'ultime che tieni
                chiuse tra i seni piccole cornici:
                Roma papale! Palpita tra i seni
                la Roma degli Stati Pontifici!
                Alterno, amica, un bacio ad ogni grido
                della tua gola nuda e palpitante;
                Carlotta non è più! Commedïante
                del mio sognare fanciullesco, rido!

                Rido! Perdona il riso che mi tiene,
                mentre mi baci con pupille fisse...
                Rido! Se qui, se qui ricomparisse
                lo Zio con la Zia molto dabbene!
                Vesti la gonna, pettina le chiome,
                riponi i falbalà nel canterano.
                Commediante del tempo lontano,
                di Carlotta non resta altro che il nome.

                Il nome!... Vedo il nome che sussurro,
                scritto in oro, in corsivo, a mezzo fregio
                ovale, sui volumi di collegio
                d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...
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                  Scritta da: Silvana Stremiz
                  in Poesie (Poesie d'Autore)
                  E l'anno scorso è morta.
                  Ebbe un amante. Pare.

                  Ricordi? Io la rivedo,
                  rivedo la compagna,
                  la classe, la lavagna,
                  e lei china alla filza
                  dei verbi greci... Smilza
                  e mascula: un cinedo
                  molto ricciuto e bello...
                  Ricordi? Io la rivedo
                  bionda, sciocchina, gaia:
                  un piccolo cervello
                  poco intellettuale
                  di piccola crestaia
                  molto sentimentale.
                  Non la ricordi? Smorta,
                  con certe iridi chiare
                  dal vasto arco ciliare...

                  E l'anno scorso è morta.
                  Ebbe un amante. Pare.

                  Quella è la casa dove
                  crebbe fanciulla. Guarda
                  quella finestra dove
                  vegliava ad ora tarda;
                  il biondo capo chino
                  su pergamene rozze
                  di greco e di latino,
                  sugli assiomi nudi...
                  Ma poi lascia gli studi
                  maschi, passando a nozze
                  cospicue: un amico,
                  pare, un amico antico
                  della madre, uno sposo
                  ricchissimo ed annoso,
                  inglese, che la porta
                  in terra d'oltremare...

                  E l'anno scorso è morta.
                  Ebbe un amante. Pare.

                  Volsero gli anni. Ed ella
                  esule sul Tamigi
                  non dava più novella...
                  Pure, nei giorni grigi,
                  tra i miei grigi ricordi,
                  vedevo a quando a quando
                  i coniugi discordi:
                  lo sposo venerando
                  e l'esile compagna
                  signora in Gran Bretagna...

                  Quand'ecco fa ritorno
                  fra noi, senza marito;
                  e fu rivista un giorno
                  più bella nel vestito
                  cupo... Cercava intorno
                  col volto sbigottito,
                  con pupilla assorta,
                  chi la volesse amare...

                  E l'anno scorso è morta.
                  Ebbe un amante. Pare.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz
                    in Poesie (Poesie d'Autore)

                    Il commesso farmacista

                    Ho per amico un bell'originale
                    commesso farmacista. Mi conforta
                    col ragionarmi della sposa, morta
                    priva di nozze del mio stesso male.

                    «Lei guarirà: coi debiti riguardi,
                    lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;
                    ma pensi una modista, in un negozio...
                    Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.

                    Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.
                    Pagai le spese del viaggio. E costa!
                    Vede quel muro bianco a mezza costa?
                    È il cimitero piccolo e selvaggio.

                    Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.
                    La dovevo sposare nell'aprile;
                    nell'aprile morì di mal sottile.
                    Vede che piango... non me ne vergogno.»

                    Piangeva. O morta giovane modista,
                    dal cimitero pendulo fra i paschi
                    non vedi il pianto sopra i baffi maschi
                    del fedele commesso farmacista?

                    «Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
                    a sera, di svagarmi; lo potrei...
                    Preferisco restarmene con lei
                    e faccio versi... non me ne vergogno.»

                    Sposa che senza nozze hai già varcato
                    la fiumana dell'ultima rinunzia,
                    vedi lo sposo che per te rinunzia
                    alle dolci serate del curato?

                    Vedi che, solo, e affaticati gli occhi
                    fra scatole, barattoli, cartine,
                    preferisce le tue veglie meschine
                    alle gioie del vino e dei tarocchi?

                    «Non glie li dico: ché una volta detti
                    quei versi perderebbero ogni pregio;
                    poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio
                    per la morta a cui furono diretti.

                    Mi pare che soltanto al cimitero,
                    protetti dalle risa e dallo scherno
                    i versi del mio povero quaderno
                    mi parlino di lei, del suo mistero.»

                    Imaginate con che rime rozze,
                    con che nefandità da melodramma
                    il poveretto cingerà di fiamma
                    la sposa che morì priva di nozze!

                    Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista...
                    il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida...
                    Ma non si rida, amici, non si rida
                    del povero commesso farmacista.

                    Non si rida alla pena solitaria
                    di quel poeta; non si rida, poi
                    ch'egli vale ben più di me, di voi
                    corrosi dalla tabe letteraria.

                    Egli certo non pensa all'euritmia
                    quando si toglie il camice di tela,
                    chiude la porta, accende la candela
                    e piange con la sua malinconia.

                    Egli è poeta più di tutti noi
                    che, in attesa del pianto che s'avanza,
                    apprestiamo con debita eleganza
                    le fialette dei lacrimatoi.

                    Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
                    saputi all'arte come cortigiane,
                    in modi vari, con lusinghe piane
                    tentiamo il sogno per piacere agli altri.

                    Per lui soltanto il verso messaggiero
                    va dal finito all'infinito eterno.
                    «Vede, se chiudo il povero quaderno
                    parlo con lei che dorme in cimitero.»

                    A lui soltanto, o gran consolatrice
                    poesia, tu consoli i giorni grigi,
                    tu che fra tutti i sogni prediligi
                    il sogno che si sogna e non si dice.

                    «Non glie li dico: ché una volta detti
                    quei versi perderebbero ogni pregio:
                    poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio
                    per la morta a cui furono diretti.»

                    Saggio, tu pensi che impallidirebbe
                    al mondo vano il fiore di parole
                    come il cielo notturno che lo crebbe
                    impallidisce al sorgere del sole.

                    Di me molto più saggio, che licenzio
                    i miei sogni, o fratello, tu mantieni
                    intatti fra le pillole e i veleni
                    i sogni custoditi dal silenzio!

                    Buon custode è il silenzio. E le tue grida
                    solo la morta giovane modista
                    ode: non altri della folla, trista
                    per chi fraternamente si confida.

                    Non si rida, compagni, non si rida
                    del poeta commesso farmacista.
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