Appare volontà quel che fu caso, un eterno momento, ma l'occhio il naso suggellò veloce e la bocca nel vento ambigua errò per voce che sempre può parlare.
Questo il ritratto e questo è il mare, un rudere che striscia nel suo vecchio calore.
Così dall'ombra mosse una piccola biscia fuggendo il suo colore. Apparvero le fosse dei morti, il grigioverde dei topi e dei soldati.
Ha i minuti contati la morte che perde e moltiplica i piedi. Nel sole che vedi è il sole che langue, il formicaio del sangue.
Traccerò cerchi con ossidiana, segno per segno, seguendo il buio dei verbi quando il giorno sarà l'ultimo giorno in mezzo a bestie golose che con artigli lunari vorranno amare la vita di un solo verso beneficio di bussole indenni sotto colonne d'edera rannuvolate. Sarà così che non trascriveremo il corso di fiumi vivissimi. Resterò nei cerchi sotto nevi avverse e abolirò il mare che m'incendia la matita desolata di questi abissi.
Padre, io a te io inchiodato a te su questo scoglio divino che conosci la tua alba e allacci la tua potenza al fulmine da questo culmine di spasimo io vinto mando a te vincitore di padri la prora disorientata delle mie parole. Concedi a coloro che erano ciechi e a dismisura adesso vedono, rotto il sigillo della fiamma, l'ustione della carezza, il fragore del pugno, ora che sanno il tossico del palmo e delle nocche ed è notte, profonda notte a occidente di ogni immaginare ora che le iridi conoscono le costellazioni del dolore e del piacere; concedi loro di sopportare per ogni ciglio sospeso alle tenebre al tramonto di ogni palpebra sfinita la pronuncia dell'alba e del crepuscolo e il rombo immenso, che sale dall'uomo.
D'aprile, da piccolo gli alberi mettevano mitrie alzavano le teste in lunghe lunghe liturgie e tempio era il silenzio luminoso delle nuvole; oggi un mezzo aprile di tanti anni fa per tutto questo silenzio nessuno nasconde la testa nelle mani seduto, metto le tempie nella chiarìa di un cielo che li vorrebbe amati amati tutti, ognuno da qualcuno; ciascuno invece scuote la sua cenere e vedo ombre che passano vivendo in festa come fossero vissute orfano di tutti i moventi la primavera è guardarne il riflesso sulla peluria degli avambracci al sole.
È raro sentire cantare in strada molto più raro sentire fischiare o fischiettare se qualcuno lo fa l'aria sembra fargli spazio ti sembra che un refolo muova la flora dei tuoi pensieri ti metta dove prima non eri; ma come passa chi fischia la noia stende le vertebre al sole e tu rientri dov'eri dietro il douglas dei serramenti dentro il livore degli appartamenti al tango delle dita sul tavolo ti chiedi da quali trombe scosse scrollate le mura per quali brecce potremo vedere – fresca – come un sogno appena sbucciato la terra che calpesteremo, allegri.
L'oscurità va a tentoni, abbassa le dita sul dorso della mano: sono qui. Tiro via la mano. Se tu morissi: oserei toccarti. Se solo tu zoppicassi via per il corridoio sempre più lontano, ti rimpiccioliresti finché non ti riconoscerei più, in me saresti avvinta.
Verrà la morte e mi coglierà di sorpresa. Questa morte che mi accompagna dalla mattina alla sera. Si nasconde tra i miei vestiti, tra i miei capelli. Spunta come un'improvvisa macchia sulla camicia. S'incolla come una mollica sul palato. O come un lieve brivido si sposta sulla pelle.
Tu dormirai senza sospetto. Ma i tuoi seni staranno spaventati nel buio. Si sentiranno i passi sui gradini. Il cigolío della porta. Guarderanno le ombre sulle finestre per tutta la notte.
Miei vecchi amori. Ore visibili di un secolo che non vuole spirare. Lune intorno a me si spezzano di continuo. La luce che mi illumina sarà certo di stelle spente.
Per tutta la notte sradico sentimenti dal mio petto che rimane sempre verde. Erba secca con radici di eternità. Mi confonde il rumore del tempo. Scendo.
A cosa serve indugiare, rimanere dietro la tendina che si annerisce, guardare il miraggio in faccia, quando la malforme primavera fa scorrere la sua sciabica nell'isolato dei single: un balenio di nafta nel cervello, il ventilatore sfiletta il fumo, e nel nido di un palchetto sul retro gracchia una vecchia comédienne.
Già il tuo profumo mi ferì. Quando ti scottasti le dita, sentii un bruciore in mano. Ma il periodo di grazia è passato, è tempo, finalmente, che finisca ciò che un tempo era eterno: l'accendino fiammeggia, tira via il miraggio dal volto, batto il pugno sul gioco, distruggo un'altra nave aliena.