Come quel coltello del suo desiderio di fanciullo, dalle lame spiegate e dal bel manico rosso, con il nome inciso. Ha trascorso anni a inseguirlo tra i sogni: sottili frecce di faggio o intagli di animali in legno di noce, il nodo antico di un cedro, il sangue di un primo corpo. Da grande, ne affila il taglio, conquistato nella memoria in cui abbatte le angosce che celano i ricordi.
Sono nato ai bordi di uno stagno tra i canneti, ho ancora addosso il sapore del germoglio e il freddo del vento che soffia tra le foglie; sono nato sotto la ragnatela e il nido del passero e ho visto luccicare il luccio quando veniva il temporale, e certi barconi avvicinarsi alla mia casa di canne come per prendermi con la loro civiltà e le loro regole, mi nascondevo tra i rami più folti, ero come una lucertola o un topo di campagna, ho sempre avuto un rifugio dove nascondermi agli uomini, sono invecchiato e conosco molto bene lo stagno, le canne, l'umido ma non so quasi niente di loro, miei simili.
Quando il chiurlo gorgheggia, non so dove sia. Profumo di sapone sulla pelle, di prato: ora le parole acquistano quasi significato. Chi leggerà questo, un giorno? Sai dove sono, come ti capisco?
Un dolore immenso Stringeva il mio esule Corpicino. Mi sentivo spingere Ma non capivo Cosa stesse succedendo. In un attimo Vidi un chiarore accecante In lontananza. Poi raggiunsi quel chiarore E capii che era luce. Sentivo la mamma Che urlava, non avevo mai sentito la mamma urlare. Non sapevo Se le urla Fossero bene o male… Forse la mamma Provava male Come me. Una bella signora Mi stava prendendo… Ma c'erano più signore Attorno a me. Una di loro Mi ha liberato Da un fastidio Dentro la pancia È ho pianto per il male. Un'altra signora Mi ha fatto conoscere La mamma. È bella La mia mamma. La signora Mi ha preso E mi ha lavata. Ma c'era anche un signore Con loro E sono stato con lui in braccio: ho scoperto chi è il mio papà. Ho chiesto al papà Di ringraziarvi Per avermi aiutato A nascere. Ringrazio la signora Che mi ha preso la testina, la signora che bagnava la mia mamma, la signora che ha tagliato la mamma per farmi uscire più comoda, e la signora che mi ha lavato e la signora che ha fatto le punture per non fare sentire dolore alla mia mamma.
Mi sveglio con le nubi negli occhi, lo specchio è uno schermo spento, il vetro rigato d'acqua non da luce, una lieve oscurità si diffonde attorno, il giorno avanza timido e faticoso.
Il mare dall'alto sembra un vetro sfregiato, le onde macchiano le rive stanche, e il vento solleva nugoli di speranze, le trasporta leggere sui tetti bagnati, verso finestre di uomini annegati in un confuso silenzio.
Una vecchia donna guarda la piazza deserta, chiusa tra la roccia e le case vuote. Un gatto noioso chiama la sua fame, gli alberi si stirano appena svegli e i monti attorno forse sorridono.
È un giorno senza nome, senza numero, caduto furtivo sulle nostre teste, ma non voluto, eppure lentamente va vissuto e consumato, come un regalo non desiderato, come la pioggia che asciuga l'acqua solo con altra acqua.
Vorrei bere fino ad ubriacarmi cadere a terra e poi rialzarmi sentire il dolore attraversarmi urlare al vento con tutta la mia voce gridare a Dio “dov’è la mia croce“ e alla fine del tormento riprendere i sogni buttati al vento. Furio Garzaro (da MARE APERTO - Taurus Editore)
La luna danza dentro le siepi ricoperte di verdi foglie danza nell'attesa sera con ali di luce spia tra gli alberi accarezza i germogli davanti a me la luna danza come una libellula mi scopre ancora una volta donna .
Sono una roccia frangibile sulla spiaggia della mia vita che le onde del mare del tempo Battendomi piano, piano Portano via pezzo per pezzo La mia gioventù