Certe sere il lupo che credevamo morto privato d'infanzia ci mostra alla finestra la punta del muso ma è un altro lupo ed è un'altra infanzia che ci serve per ammansirlo Passiamo la notte nella neve delle carezze a cercare sui nostri corpi la scia dei suoi passi.
Farla non puoi, la vita, come vorresti? Almeno questo tenta quanto piú puoi: non la svilire troppo nell'assiduo contatto della gente, nell'assiduo gestire e nelle ciance.
Non la svilire a furia di recarla cosí sovente in giro, e con l'esporla alla dissennatezza quotidiana di commerci e rapporti, sin che divenga una straniera uggiosa.
Prima che asciughino quei due o tre baci sulla fronte e qui e lí, ti chinerai per bere acqua d'argento dallo specchio, e se nessuno ti starà a guardare ti toccherai le labbra con la bocca.
C'è un tempo in cui piú svelto delle dita che lo scultore passa sulla creta il sangue impaziente ti modella il corpo dal di dentro.
Forse stringerai tra le dita i tuoi giovani capelli e li solleverai sopra le spalle perché somiglino piuttosto ad ali, e davanti a loro prontamente correrai là dove proprio davanti agli occhi e sul fondo estremo dell'aria sta il grande, erto, conturbante e dolce nulla, che splende.
Quando su un volto desiderato si scorge il segno di tante stagioni e una vena troppo scura si prolunga nella stanza, quando le incisioni della vita giungono in folla e il sangue rallenta dentro i polsi che abbiamo stretto fino all'alba, allora non è solo lì che la grande corrente si ferma, allora è notte, è notte su ogni volto che abbiamo amato.
Per lei voglio rime chiare, usuali: in -are. Rime magari vietate, ma aperte: ventilate. Rime coi suoni fini (di mare) dei suoi orecchini. O che abbiano, coralline, le tinte delle sue collanine. Rime che a distanza (Annina era cosí schietta) conservino l'eleganza povera, ma altrettanto netta. Rime che non siano labili, anche se orecchiabili. Rime non crepuscolari, ma verdi, elementari.
Cerchiamo di parlare in due minuti, mentre qualcuno aggiusta le tende alle finestre e gli amici sono già per le scale. Sempre c'è poco tempo quando dobbiamo fare i conti con i morti. E cosí dico a mia madre di aver pazienza – a lei che vicina a morire, ancora vuol sapere com'era la mia cena...
Grandi stanze di vecchie case avite di provincia piene di fischi di navi lontane, piene di spenti rintocchi di campane e di battiti profondi d'orologi antichissimi. Nessuno abita piú qui dentro eccetto le ombre, e un violino appeso al muro, e le banconote fuori corso sparse sulle poltrone e sul letto largo con la coperta gialla. Di notte scende la luna, passa davanti agli specchi esanimi e coi gesti piú lenti rassetta dietro i vetri i fischi d'addio delle navi affondate.
Non canto le navi che ritornano, le stelle che ricamano girasoli sul cinto dell'estate. Né le rondini che volano nel cielo, per prendere il sangue di un'alba e tingerne i fiori...
Di notte sellano i cavalli, di notte passano, all'alba si disperdono alla ricerca di uccelli piumati e di donne slanciate, che brillano sui cuscini quando dormono la notte.
Brillano e sognano un grande amore, un grande figlio. Che abbia un sole nei capelli, una luna come specchio. E l'aquila sul volto a vegliare sul suo sonno.
Eccomi di nuovo. Sono in orario. Ti aspetto. Eppure, ne sono certo, non verrai. Ma devo dirtelo anche se a rimetterci sono ancora io. In questa faccenda ho anch'io da guadagnarci.
Questo giorno della mia vita. Particolare. Ho aspettato che sorgesse con il tuo pensiero. La strada che oggi è diventata un'altra. I battiti del cuore sfuggiti all'ordine consueto del loro ritmo.
Tutti i prodigi accaduti oggi. Oggi che ti dovevo incontrare.
Corpi belli di morti, che vecchiezza non colse: li chiusero, con lacrime, in mausolei preziosi, con gelsomini ai piedi e al capo rose. Tali sono le brame che trascorsero inadempiute, senza voluttuose notti, senza mattini luminosi.