Spore di secondi, di minuti e d'ore perpetuan il divenir di giorni, di mesi e d'anni, in un preludio di verdi colori, frasche di speranza nasciture. Campi Elisi verdeggianti, eternamente da Zefiro carezzati. Oh, Speme d'Albore, che tu possa squarciar l'ombra del buio, nell'avvento d'ogni nuovo giorno, sgravar costei dal giogo infame d'obbrobriose colpe d'avvenire, vestendoti e riflettendo fanciullesca condizione. Vergin Sibilla, ch'atteggi, di profetica virtù, parola, inversamente all'immutabile propender tuo oscuro, palese parvenza, indossando sol vesti di savia coscienza, sii alla magione la beneamata benvenuta. Seppur fosti fonte d'ambigue predizioni pel dedalo d'accadimenti, oh, Tempio d'Oracolo, nel ricoprir tue chiome di chiaror di luna, ometti di svelar l'inenarrabile responso e viceversa fa sì d'esser benevola ispirata. Nella freschezza di note musicali, di risa gaudenti e di schiamazzi infantili, altresì di fredde acque cristalline, scroscianti da rupi scoscese e da rocciosi anfratti, rupestre paesaggio all'Eden riportante, nel coltivar l'epilogo, che non sia chimera, lusingo me stessa.
Preludio d'albore, in dorati e rosati veli soffici, accarezzanti il blu ceruleo d'orizzonte. Sublimante, il pennello del pittore nell'espressione radiosa di tinte pastello, liberamente, imprime in tal contesto librar d'ali di farfalla variegata, svolazzante nel prodigio dell'aere circostante. Del connubio di beltà e d'armonia, coniate da destrezza e fluidità del tocco sì sapiente, s'è impregnata la fortunata tela, affascinata dall'abito indossato. Di fine pizzo orlato, trina intagliata magistralmente, tessuta in sintonia con la volta celeste, tal copritavolo su cui poggian prelibatezze e inebrianti profumazioni floreali, in simbiosi con gradevoli e tenui colori appaganti l'olfatto e lo sguardo di chiunque potesse trovarvisi accanto, s'è fatto altare, atto a consacrar raro incanto. E sotto il firmamento, rispecchiantesi nel fluido specchio sottostante, tra sottintese note sinfoniche gaudenti, riposa, la tavolozza, del pennello sposa e madre d'un altro figlio beneamato, epilogo d'un sì capolavoro.
Dal maestoso castello sulle nubi, lesta, s'avvia alla Terra ed estranea al proprio potere, al suo leggiadro arrivo, la rende ancor più bella. Al suo passar, Madre Natura dal sonno si risveglia, inverdendo prati brulli e disseminando delicati boccioli, che testè s'apron, effondendo olezzi e andando ad acquietar e tinteggiar di blu il cielo e i mari sparsi. E di ritorno, con, tra i capelli, un fiore, raccontar deve, Primavera bella, all'amata sorella, che, in segreto al padre suo, l'esile piede posa sullo sconosciuto pianeta, che muta dov'ella si riposa. Succosi frutti, raggi brucianti dell'astro, in ciel, radioso, di campi distese, di spighe dorate, delle quali una afferrare e, tra folta chioma, inserire innanzi risalire e tutto raccontare, gioiosa Estate, al di lei fratello Autunno, che, mesto e incredulo, discende rendendo tutto triste e cupo, ingiallendo foglie e fomentando il vento, ma, altresì, assaggiando castagne e mosto, avanti tornare al proprio posto. "Fratelli menzogneri"... Proclama diafano l'Inverno. "Ognun di voi narra storia a sé, per cui, questa volta, deve toccar a me." Silenzio, intorno, al suo calare al suolo. Bigio il cielo e il sole scompare. Candido e gelido manto copre la Terra, mentre egli, sull'ali del vento, l'esplora senza esitare, ambendo verde prato fiorito, di grano distesa, grappolo d'uva matura e, ancor, dolce mosto saporito. Turbato, al castello occor far ritorno acciocché i fratelli smentire e sul pianeta, assieme, tornare per la verità appurare. Apocalittica impresa che il mondo sconvolge, in un solo momento d'incauto ignorare. "Ogni tre mesi, figli sciagurati, ad alternarvi siete comandati, finanche io, Re Tempo, padre vostro, lo imporrò poiché la Natura, vostra madre, proteggere dovrò!"
Onde favorirsi dell'insorger dell'onda d'intuizione, l'intelletto annaspa nel mare del pensiero, da sé forgiato. Intervallandosi a brevi, placidi ondulii assai meschini, roboanti marosi straripan nel fiume delle contraddizioni, sennonché l'acquoso dolce, mitigando l'amare differenze, redarguisce la sì misera saggezza, ché doni voce alla propria muta coscienza. Affogate alfin le controversie dei figli della mente, ch'attualmente s'atteggian leggiadri danzatori, giungent'in flessuose movenze su punte, novo vento, in essa, appiccia miccia operante la scintilla veritiera. Dell'intuito, il barlume accresce nel rogo d'inclemenza e sol cenere resta del menzognero velo d'incoscienza, intanto che s'apre il sipario del vero.
Nell'oceano dei ricordi, essenzialmente quelli pregni di emozioni, oltre ad altri, in cui l'impulso di odori, sapori, note musicali, riporta alle mente antiche sensazioni, riaffiorano integralmente, onde non essere dimenticati in quanto frammenti di un passato che dà il senso a ciò che eravamo e probabilmente non siamo più... o forse siamo tuttora.
Mettete dei fiori nei vostri e nei nostri cannoni!
Abbandonando il sospiro nel nucleo spirale del vento, trae profondo respiro dal sì glabro petto. Inarcandosi sottostante volta d'orizzonte, fortemente eleva ossute braccia come a un padre, onde squarciarne il velo conclamante insofferenza. S'avesse l'ali, in sogno, palesate, anziché notarsi implume, indubbiamente l'avrebbe già raggiunto oppur nell'attimo presente si spingerebbe fin a esso, rifuggendo l'abominio d'una guerra dissacrante il bene. Sconfinato nel predominante male, sebbene ripudiato amante, attraverso matrice del pensiero, l'urlo sottinteso schizza all'apice del desiderio, dacché la voce gli s'è arroccata appresso, oramai fattasi rauca per il drammatico spreco.
"Mettete dei fiori nei vostri e nei nostri cannoni!"
Analogamente a imbelle barca indifesa, ripugnata l'avvilente arma e in procinto di naufragar i propri sensi nel tempestoso mare degli accadimenti, ove or l'ancora, in strettoia rocciosa, getterebbe, ond'approdar a sicuro lido affrancante ed esimersi dal rollar pressoché costante, equipollente al tremolio convulso d'una foglia sferzata da libeccio, seppur intenzionata a rimaner abbarbicata al pendulo peduncolo, ipotetico cordone legante se stessa al proprio ramo amato, mitragliato a sua volta da sibilanti raffiche violente, nulla gli rimane, se non aggrapparsi a speranzosa speme come fosse madre amata. Prono su terra rosseggiante, prostrato al fato, miraggio, gli appar, di verdi prati sterminati, nel sentor satollante d'olezzo floreale, sovrastante odore di ferroso sangue, d'assolate rene dorate, solcate da creste d'onda spumate di biancore, d'acque marine ornamentate di gemme lapislazzuli. Effluvio di vital salmastro, viceversa a putrida morte. Alfin, di nuvole, cumuli rincorrentisi e di frizzante aria, su pelle sì ignuda, sensazioni strabilianti, nell'impersonarsi libero parimenti a essa. Ineluttabilmente, l'offuscata coscienza è assalita da quesiti silenti d'un prode guerriero combattente...
... Per qual motivo ignoto, s'è dato sapere?
O all'opposto, rinnegante il malefico reale d'un giovin terrestre, sottratto alla propria esistenza ond'elargire dolore.
Putativo padre, quel sovrastante cielo può unicamente pianger lacrime amare!
Mai, per te, scrissi prima parole, o alcuna frase, nel corso della vita, giacché i ricordi restan vaghi, avendomi lasciata ancor bambina... Flash, dentro la mia mente, riportano a quell'età solare, dove i pensieri volavano leggeri sull'ali bianche della spensieratezza di quell'infanzia che m'appariva lieta, in specie nei giorni della festa, quando s'andava in campagna a passeggiare con il lindo vestito domenicale, tenuto in serbo durante la settimana. Io, a cavallina sulle tue spalle sicure, guardavo il mondo, trovandomi su, in alto, a toccar il cielo con la mia piccola mano. Anche il mio nome rammenta il tuo ricordo, di quella notte che udì il mio primo pianto, quando cantasti l'Iris di Mascagni, con la possente voce or così distante, che vorrei poter sentir anche per un istante. Padre mio amato, perduto troppo presto, idealizzato nel cuore e nel pensiero, son qui a scriver, per te, d'amor, parole, dolci come le caramelle che non mancavi di portare a questa piccola tua figlia, prima di dover andare in una vita celestiale, che ti richiamava a sé, a cui non ti potesti rifiutare.
Speranzosi desideri, al confine d'illusioni, in silente processione, scanditi da barlumi di realtà dacché nutriti d'ambrosia e miele, nonché dondolati nella culla dell'arcano, benché alternati ad altrettanti avversi, quale univoco fardello d'infestante erba cattiva dissipata, si scindon dal velenoso amaro, tal insidiosa genesi di chimere sconfinanti. Dondolata soavemente nella speme esistenziale, prevenendo detto evento, già in partenza con il piglio positivo, mi sottraggo al dispiacere del dileggio del destino. Piroettando come foglia trascinata dal marino o farfalla strabiliante, in un valzer nell'ellissi intorno al Sole, prim'ancora d'un declino sopra un lido assai fecondo, confacente a radicare, dove il vento scema in brezza, dentro e sotto un orizzonte riportante al Paradiso, pongo picche al negativo e son plagiata di bellezza.
Chi era colui ch'attendeva la morte, sotto un cielo dannato di ombre? Chi era colui ch'era pronto a soffrire, perire, qual segno estremo d'amore? Amore schernito e svilito, smarrito, in oceani di macchie sommerso. Tormento, nell'uomo nell'orto di ulivi sul far di portar la sua croce su spalle piagate da nerbo scandente lo strazio nel tempo. Dolore traspare da sguardo immortale, sul volto bagnato di sale; corrugata la fronte abbassata in preghiere all'eterno suo Padre; silenzio, al posto di sante parole. Il Dio umanizzato scacciava il plagiante serpente dall'ara del male, cosicché consacrarla all'inverso potere. Onorando l'intento divino, l'agnello attendeva la sorte, qual Figlio del Dio universale, da bocca di "roccia" sortito allorché non ancor rinnegato l'aveva. Il tempo impietoso arrivava a sancirne la fine, omicida di vita carnale. Chi era tal uomo diverso, che, scontando i peccati del mondo, trasudava martirio e perdono? La corona pressata sul capo reietto... Qual fonte di stille di sangue, lui stesso ogni spina conclamava reliquia. Chi era colui che, aspettando la morte, invocava suo Padre, sotto un cielo dannato da ombre?
Disseminato è il candore del manto, sprazzi di neve sui rami rinsecchiti e sui sempreverdi, dove il verde, in parte, s'è arreso al bianco maculato. Muro cinereo, coniato di vapore, sottrae il crepuscolo mattutino, quel barlume, divenente albore adamantino, risvegliante la coscienza e lo stupore, per l'astratta concezione di concreta, incantevole visione. Purezza di paesaggio pregna lo sguardo e altrettanta quiete, l'udito; anche il vento s'ea assopito tra le fronde, per scovar un nido vuoto, indi riposare; raminghi cinguettii son iti altrove, sfuggiti, all'implementar della stagione. Né voci, urlate o sussurrate, né canti né pianti, neppure risa attorno; l'atmosfera rarefatta, plasmata di gelo e di silenzio saturo altresì di solitudine, ha relegato ognor nelle dimore, membra intirizzite e desianti calore. S'ode raro palpito d'ardito cuore, a intervallar mutismo stagnante, col suo vivace ritmo roboante, seppur non basti a richiamar il vento. Or che dorme, vane son insensate parole, illusorie frasi d'amore; disillusa speranza che spirino in vetta per esser udite da orecchie insicure, bramanti tutt'altro che bieche menzogne ad acquietar penuria d'amore di chi tace nel sacrale limbo di pace ch'appare, ch'il vento non osa dissacrare, per dar immotivato corpo al niente.