Tiepide gocce calde, rincorrendosi sulle guance, lasciano rivoli di sale. Non più nascondo amare lacrime versate, ben conscia che la penombra non permetta loro di riflettersi allo specchio, dacché non noti il viso segnato dal pianto; viceversa, scruti l'ombra di ciò che sono adesso. Mai s'impone il silenzio, favorendo il chiasso e l'umore; con sussiego, la sua ridondante presenza m'incatena, mormorandomi inarticolate parole, a marchio dell'attesa per una realtà in cui mi crogiolo ancora.
Ti vidi... Ti ambii... Estranea a quel che ero; rifuggii da me stessa, onde ricercar quel ch'avrei voluto essere e ciò ch'avrei voluto. In un'eterogenia di sensazioni straripanti, i miei sensi, svincolati da una ragione che l'avea fatta da padrona troppo a lungo, nel tempo sconfinato nell'assurdo, rinascevan a nuova vita.
Mi vedesti... Mi ambisti... Circoscritto in un viver sconfortante, ti celavi dietro a specchi dacché non osservar dinanzi gli occhi inespressivi; eran spenti, parimenti ai rumori dissonanti. Occultato nei silenzi, rifuggiti addirittura alla spira d'impercettibili suoni e bisbigli, costante, quel timore di scoprirti ancora vivo. Disastrosa condizione d'una presa di coscienza; verità, in cui le lacrime d'un uomo, in atavica battaglia tra debolezza e dignità pretesa, mascherandosi d'apparenza, presero a sanguinare, ruzzolando sulla via del cuore
Fu un battito di ciglia, cotanto ardore ricolmo di mistero nell'estraneità presente di ambedue. Fervente desiderio incontrollabile, l'inconsistente onda travolgente non dissimile al primario slancio istintivo a cui t'aggrappasti, simulando un naufrago, sottratto alla fine grazie al richiamo d'una sponda.
Nell'impetuoso mare intarsiato di reciproci sentimenti, rinvenni colei che tornò ad amare. Estasianti baci e abbracci appassionati, in un rogo tutto nuovo e sorprendente, coronavano il nesso presupposto. Nuotando dentro il lago del tuo sguardo, lo rimiravo, annegato nel bruno mio, profondo. Rinnegato dai silenzi, gioivi d'esser vivo, saziandoti di gemiti e sussurri, dentro ore fatiscenti carpite all'orologio.
Orazioni, citavo alla morte, affinché mi lasciasse del tempo. Il suo pronto riscontro dicea: "Ma certo, convengo, benché il tempo restante non più t'appartenga". All'oscura risposta, un lato mi rendea indubbio conforto, ma l'altro palesavasi un enigma bello e buono, a discapito del mio pensiero speranzoso. Salii sul pennone d'un vascello galeotto, ch'ea parso ben disposto al mio fare clandestino. Da lassù, scrutando il cielo sì turchino, rievocante lunga chioma della fata di Pinocchio e trascritto un annuncio alquanto strano, lo inserii nella bottiglia, tanto assurda quanto vera, sì forgiata solo d'aria mista a vento, con l'intento che ruotasse per il mondo e ancora oltre, fin laddove si lambiscon i confini d'universo: "Tale tempo, che rimane, non ti degna il suo favore. D'esser tuo, non ha intenzione. Esso più non t'appartiene". Enunciò sorella morte, con l'aggiunta di parole, ben cosciente della mia aguzza mente, che, però, alla frase sibillina, restò inerme. Per cui sorse la domanda: "Ma, alfin, chi n'è il padrone?" Possa, dunque, chiunque legga il mio messaggio, far in modo di fornir l'esatta interpretazione o l'impertinente dubbio roderà quest'intelletto per il tempo ch'è rimasto. Detto fatto, scagliai in aere tale oggetto. Di riflesso, soffermai lo sguardo attorno, mentre il velo dell'arcano si dissolse, stimolando il mio sguardo ad ammirar: il quieto mare così immenso, cantastorie affascinante, che sapea ammaliar la gente, col suo immortale canto; le distese di montagne, dalle alture dritte al cielo, le lor coste, imbiancate o verdeggianti, emananti rari olezzi; il bel sole, fulgente di chiarore, incontrastato Imperatore, nel tramontar soave, di purpurea tinta s'ammantava; la fascinosa luna, pallida e altera, nell'imbrunir di sera, con rinnovato passo da Regina, avanzava fiera. le stelle palpitanti, come pietre iridescenti, rendean prezioso il manto di velluto nero. Stranita, alfin, sorrisi... L'eclettico capolavoro, d'egocentrici elementi, ambendo il mio tempo, sancivan, ch'attraverso, mi concedean cotal permesso: di sollazzar il rimirante sguardo allor fattosi attento, di consolar il cuore solitario, un poco affranto, di coronar l'eterno spirito d'immenso. A chi spettava il tempo mio, se non a loro? Ne avea ben dunque avuto buon motivo, d'un similare decretar, la morte; ovvia ragion per cui, tutto considerato, ebbi il buonsenso d'accettar tal compromesso.
Lo sguardo del cielo assiste allo scempio di morti innocenti, sterminio di vite concepisce piaghe nell'animo di chiunque rimanga, nel grembo di Terra nativa che langue, piangendo le perse esistenze per mano del limbo insensato del niente. Terrore protratto da stolte pedine ubbidienti al truce comando di morti viventi; in lode a sfrenati interessi, cospargono l'odio pel Verbo diverso. Manovrano all'ombra le sorti del mondo. Danaro e oro nero, ricchezza e potere, son fame ch'ambiscon a soddisfare. Pertanto, s'evince ch'assai tristemente il grembo di Terra s'impreme di linfa vitale; si compion misfatti sui campi di Marte e spianano armi, guerrieri incoerenti, poiché ancor virgulti dagli occhi sognanti, ch'intravedon se stessi negli occhi smarriti di altri. E piangon, le madri, i resti dei militi ignoti, tra i tanti sfregiati nel corpo marchiato da guerre insensate e inconcluse, nel lungimirare saccente di pochi. Rimane soltanto lo spreco del sangue a marchiare l'impronta vitale sul suolo, nel ventre d'un mondo deluso. Quel sangue versato richiama vendetta, contando sui replay di lotta perpetua. Bistrattata, la Storia, insigne maestra imparziale, rinnegata la guerra, or lacrima sale e dolore, sotto un cielo velato d'indubbia impotenza, inadatto al disgrego di scelte inumane, analoghe gesta, sentimenti ricolmi d'infamia. Confuso, il cinereo sguardo svilito, ombrato dal crescente sentore di vivida rabbia, ricerca motivi pel senso d'una sì atroce svolta dell'umana specie, ch'ha nulla d'umano al momento. Ben cosciente che niente giustifichi il niente, indi getta la spugna, nell'assurdo, inconsulto freno di sé sì avvilente, incosciente d'un ritorno al pensiero assennato della razza terrestre.
Ei giunse, pel concetto d'esistenza veritiera, da un tempo non più suo, in quel luogo che n'è privo; laddove il sole, inibendo la sua luce, non s'insinua e tradisce il marmoreo volto della luna, che s'oscura, incapace di tralucer il suo pallido chiarore translucente, nel turchese dello sguardo trasparente, sotto il velo trascendente; di colui che era, un dì; dove stelle ipotizzate dai mortali non s'inoltran a gemmar splendente manto del mirabil firmamento immateriale, concepito dal brillio incommensurabile, che si nutre sol da luce inesauribile emanata dal Creatore d'universo. Il rumor, ammutolito, giace immerso nell'ovatta del silenzio, che, imperando, l'interezza sa annientare: non più suoni, non più voci, neppur echi roboanti, nulla sibila dall'ugole impotenti; tal sussurro nasce e muore, sulle labbra inconsistenti, destinato a che niuno possa udirlo. Sol lo sbigottito sguardo, pur avendo partorito esasperati quesiti inascoltati, nel contempo in cui ha fesso l'esordio tenebroso, scortante al preludio esistenziale d'altro tipo, non s'è arreso; plausibilmente, s'è rasserenato, nell'istante dell'inatteso squarcio innaturale, allorquando, dissolvendo il buio, esso l'ha attratto nell'immane varco accecante, in cui, quell'Angelo giungente, Messaggero alato, sfiorandolo con l'imponenti ali immacolate, accolto ha il suo infinito spirito confuso. Presumendo la sorpresa sul suo viso, poscia un'espressione fattasi fidente, anelando il suo sorriso scaturito, rammento che mai fu cotanto radioso espressamente, tutt'altro... Fors'anch'egli ne avrà testè ricordo, insito nello spazio senza tempo, immaginario, nel principio del risveglio posteriore a dipartita, in rinascita desiata e benedetta.
Celati son a noi misteri esistenziali, origini dell'innate paure insormontabili, inconsulte reazioni, smarrimenti e aberrazioni. L'oscurità riconduce alla fonte dei disagi, la solitudine s'occulta nei silenzi prolungati e ci asseconda mestamente, inequivocabilmente, fedelissima amante.
Ci arrampichiam su specchi, onde palesarci degni ad altrui occhi, bensì nella matrice siam confusi, perennemente in cerca di noi stessi, dell'io che s'ostina a non svelarsi, a non aprirci gli occhi foderati alfin di dissipar dubbi circuenti le menti.
Stolti, peregriniam alla rinfusa, alla ricerca di qualcosa lungi dalla coscienza; ci aggrappiam alle radici, onde evitar d'esser estirpati e perder sì memoria d'esser nati. In ragione della moderazione, abdichiamo gl'istinti naturali, tuttavia viviam nella gravosa incognita d'ignorar realtà, attinente al pensiero filosofico, sul chi siamo, donde veniamo e dove andiamo.
Quant'acqua è corsa sotto i ponti, quanta pioggia s'è versata sopra i passi di bambina, inabissate impronte infaticabili divenute vane nel pensiero dei ricordi, ch'han scordato di stiparle nelle stanze di memoria.
Mi chiedo quanti n'abbia vergati senza senso, su declivi in salita e in discesa, esulando dal conoscere l'approdo, forse circoscritto allo stesso luogo, forse lungo i margini del mondo.
Perpetui passi tra le grinze d'un percorso rampicante, quando i minuti desideri s'accontentavano di molto poco, d'un gioco, d'un giocattolo ogni tanto, d'un bacio, proporzionati alla tenera età e alla sua speme.
Le crespe solcate dai miei passi divenuti grandi si son mutate in differenziati anfratti, dove s'alternava la luce con il buio e rose su steli inoffensivi, su cui all'improvviso spuntavano le spine, a fare male.
Impronte inasprite su pieghe sconnesse, sprofondan nel fango, talvolta e altrettante san sfiorar il suolo, tentando d'alzarsi a un metro dal cielo, per carpir l'effluvio dell'apogeo d'arcobaleno.
Dove viaggia il desio d'una bambina nel pensier d'una coscienza fattasi adulta. Alter ego, riflesso nell'attuale specchio.
Cangiando le sue quadrupli figure, il fuoco s'infiammò per la feconda terra, d'inimitabile natura intrisa, di cui percepiva l'ammaliante sensazione.
Contemplando l'incontaminato volto matriarcale, nei cui occhi s'affacciavan i tre regni naturali, l'orizzonte rispecchiava il suo serafico splendore, nei capelli entrava il sole, sulle mani sue poggiava la sostanza materiale; si struggeva per amore...
Furioso alquanto per la coscienza di rispecchiar se stesso, smaniava di dolore, quel singolare essere bruciante, ch'ardeva per l'assurdo, sconvolgente ardore.
L'eterea aria ossigenante e la scrosciante acqua sorgente sembianze alternative, ammutolite, subivan l'insensato malumore della cosmica entità, forgiata di filosofico concetto, implorante corrispondenza dell'inusuale sentimento.
Ribollente di passione, le sue lingue incendiarie lambivan pericolosamente tal sacral generatrice di materia primordiale, quella parte da lui amata follemente, incosciente ch'essa fosse il suo grembo naturale, la sua madre originaria, nutriente il suo calore, il suo fulgore.
Preso atto del reale, si dovette rassegnare ad amarla in tale veste.
La notte sì greve non porta ristoro, con eco rombante di tuono e dardi di fuoco che schiantano al suolo, con luce accecante, schiarente due ombre stagliatesi ai vetri, tra l'oscure fauci che gocciolan pianto dal cielo, similmente a saliva, di angeli neri, espulsi dal tempio del Padre, dall'atavico tempo del Verbo iniziale.
Essenze di demoni oscuri, avvolti da tetra clausura, intridon la stanza silente; negli occhi, divampa la fiamma infernale, scrutando quel viso dormiente del piccolo essere a palpebre chiuse, meticcio d'angelica e umana natura, ch'ha ali argentate, sì chiuse a riposo, tra riccioli d'oro, dispersi sul tenero corpo di bimba innocente.
Un Angelo bianco, tessuto d'amore, racchiude il mistero d'un angelo nero, esplicito ai demoni, effigi del male, ch'attendono il giusto momento del vile misfatto, nel fulcro del bieco baratto, sancente il riscatto del nero sul bianco, del buio imperioso, su fulgida luce irradiante, artefatto da artigli bestiali, abiurando il destino prescritto da dita sacrali.
Qual fato risulterà indi avvallato? Soccombente alla spira del vile serpente o aderente alla progenie dell'imperituro bene, ancestrale genesi universale?
Laudato sii o mio Signore, nel Cantico di Francesco, rivolto al sommo artefice di tutte le creature, per le chiare stelle donate, la luna, il sole...
Laudato per l'Amore generato, fattosi martire, umiliato e agonizzante, poi trucidato, barattato col misfatto del peccato.
Eterogenia d'incalzanti sentimenti, emananti emozioni ridondanti, discioltesi in lacrimali stille sulle guance, fin da epoca remota, a suffragar sublime perfezione, palesemente trasudante la fede sottintesa, latente, dell'artista, espressa nel consacrar il volto della Madre, nonché del divin Figlio, scolpiti nel marmoreo blocco inanimato, arresosi alla ferrea volontà del Buonarroti, ai suoi sapienti tocchi di scalpello, atti a raffigurar l'apoteosi dell'amor materno, conclamante Pietà e Misericordia, che s'animò di vita, sancendo avverato l'infausto presagio, avvallante sospirata speme di rinascita.
Coniugazione di sembianze immacolate, intrise di strazio e d'afflizione, sul giovin viso di Maria; di sonno eterno, su quello di suo Figlio, il Nazareno, mirabili, nel di lei atto di regger sulle gambe l'adorato corpo dell'Eletto ad Amore universale a lei sottratto, arresosi a un profetico disegno prefissato; di cingerlo, nell'inespresso abbraccio astratto; nel di lui riverso viso esangue, addormentato tra mortali grinfie fatiscenti e adornato da riccioli fluenti, sparsi sul braccio di colei che fu prescelta; abbandonate, le discinte, sacre membra, l'affusolate mani e i piedi, trafitti e dissacrati.
Ha inteso d'esser immortale, il genio, velando, del mistero dell'attesa designata, tal istante immaginato, susseguente, del Cristo destinato, dall'origine del tempo, a essere immolato, similmente a un agnello.
Vergin Maria, a palpebre socchiuse, muta, nel suo dolore immane, quel palmo della mano verso il cielo, par implorare Dio, nel suo pensiero:
"Ecco, tutto ciò che hai comandato or s'è compiuto. Con dolore, rimetto a Te il Figlio amato, martoriato e ucciso, Tua trascendente Essenza, con speranza di riaverlo fra le braccia, per l'eternità del tempo. E così sia."
Contesto ambito, osannato in memorie antiche, l'armonia di chiacchiere e di vino, tra sinfonia di musicali note. Soave melodia di liriche parole, in scritti liberi o rimati, forgia Bacco a singolar cultore, ch'elegge i presenti esimi Poeti, spronati mai da vanità, e da mancanza d'umiltà, bensì da ciò ch'esula da questo. L'amor di quel ch'è un immortale canto trascritto in versi trasudanti sentimenti, suffraganti sensazioni, emozioni, circuenti menti, volenti o nolenti, decreta noi tutti vittime o artefici d'ispirazioni letterarie. Dalla profondità dell'animo, cacciando sentimenti ostili, differenze, discrepanze, tra sprazzi d'ispirazioni e scaglie di sapori, indossiam ali di farfalle, alfin di sconfinar nell'irreale, dal reale, rinnegato sì sovente, da cui sappiamo ben fuggire. Splendor di rilucenti stelle testimonia risa e fraterni abbracci, tra lo scorrer del rosso delle botti, del bianco, sprizzante bollicine, in gaudenti coppe, mai annacquate, giusto da poterne ampiamente assaporare l'inebriante gusto. Versatile aroma, sorseggiato tra esilaranti fumi, caccianti remore ai pensieri, che si fan fluidi, aprendo cuori allo scambio d'opinioni, nell'amicizie sublimate nel nome di Poesia, eclettica Dama, sempiterna Castellana, predominante, nello scemar dell'ore, dentro 'l sospiro d'una notte in amore.