Combattere quest'analfabetismo, l'ignoranza è una decomposizione, il buio è tutto il sonno della cenere che si raccoglie in ciglia, tutto l'animo dorme in profonde più interiori altezze, e lontana parente del suo volto è la luna col cranio, quieta insonne, scompare sul cuscino di una nube chiude e riapre il suo occhio senza sosta liquido il Tempo come fluttuante, spume raddoppiano l'agitazione, ma pur di non vedere il vuoto scendere in mare, in terra, approfondirsi, Essa vi si aggrappa come fossero zattere... Ma qualcosa rimane nel passato, la pelle che si spense poco a poco in agonia di sangue col tramonto, il contatto dell'acqua le appiccò l'incendio che bruciava lentamente – solo carboni, quest'oscurità – s'alzò statica in scintille di ceneri – ogni granello aveva la certezza di non potere essere scomposto in qualcos'altro ancora, riaffioravano dal terreno del buio le sue palpebre, i capolini delle sue pupille ebbero nei riflessi una rugiada – dalla tabula rasa dei colori nella lettura di un testo già scritto di parole consistenti in un'unica lettera, ripetentesi infinita, cominciò a riconoscere la luce, materia prima di quest'universo, dal banco, dove stava, della terra, verso la cattedra, senza insegnante, del cielo, nell'aula del suo pianeta.
E questo risvegliarsi è un maledire – l'anima dello sguardo defluisce via, risacca, dalla costa dell'intimo – ebbe paura, gridò nel silenzio il tutto buio – finì per volerlo assuefatto, all'esterno, nella Notte – cosa congiura con il suo respiro con le sue dita, con il balbettio, alzò il capo, fece sì che vi fosse il ritorno del volto, congedò dallo sguardo celeste la sua nuca – il primo sonno per chi non può altro se non scendere giù e fargli toccare il fondo del pozzo in ogni asfalto – e in fila e folla, fiamme, quei lampioni – e l'insonne passante ch'è un dannato – le stelle, una minaccia della luce – oltre il suo ciglio, la pupilla ha al centro il sogno della lacrima nel lutto – un apice che discende obliandosi con dolcezza ormai estranea col riflesso – torce puntate su di te che aspiri animale notturno a compier crimini che tu stesso per primo non conosci.
Figlio perduto e Madre nel suo lutto, nell'unicum del cielo che si alterna in veste di colori azzurra e nera, pupilla dilatata in veglia insonne getta l'ombra sul dove fu sepolto, e piange ardendo lacrime di stelle che lo fanno risorgere da ceneri, miracolo di inconsapevolezza, fiamme accese di ceri già consunti balbettano in corale solitudine un incipit di preghiera che estingue in sparpagliate lontananze luce.
Palpebra superiore che lo veglia, ciglio vestito in abito di lutto, il bianco ha il suo declino nell'argento, lo specchio frantumato, le sue rughe... L'aldilà è Tempo, Notte, il matrimonio i funerali della solitudine all'altare del centro, su nel cielo, ostia innalzata a sguardi provenienti da peccati di insonnia per la via, giunge la sposa ch'abbassa il suo velo, e nella sabbia oscura senza fondo, sballottata dalle onde delle nubi, dal nulla del loro esser stati corpi alle ceneri della sparizione, la tregua è l'urlo sfumante dell'ossa, cuscini senza fianco che galleggiano sonnambuli sul loro pavimento, perla naufraga in cerca della sua ostrica, la luce nelle sue doglie di raggi la partorì col sangue del crepuscolo, l'abbandonò, sola, orfana alla sorte.
Cadde suicida a seppellirsi il Sole, sembrò scegliesse il mare come tomba, ed era invece l'infinito nulla. E dalla cremazione del defunto, dal buio delle sue ceneri emerse con le stelle la carne ch'era allora fuoco ridotto all'ultime scintille, sogno che aveva sulla fronte Dio di nostalgia su palpebre abbassate e su pupille dilatate come a urlare nel silenzio il loro lutto di cecità, Madre che perse il cuore nel vedere, strappato, il proprio figlio all'aldilà degli abissi profondi, eppure allungò il corpo col riflesso, tremando accarezzò la superficie, volto si fece solo alla scoperta dell'apparire della nudità, il resto fu un coprirsi custodendosi nel lutto della sua veste di sonno, e nel pallore di un'insonnia eterna guardò allo specchio di uno sguardo umano sé stessa diventata già il suo cranio, pianta la pelle via dalle sue ossa, purificata come dal peccato.
È una dilatazione di pupilla che si distende nel sonno agognato? È veglia di preghiera il firmamento? Le lacrime quel sogno delle esequie? È ciò che spera l'ateo nel tempo, nel suo spazio ch'è come fosse chiesa, porte aperte di un buio senza fine, la luna, ostia impossibile a raggiungersi per le labbra di un nottivago insonne? E ceri di inutilità infinita quasi fanno risorgere l'orrore della visione di una luce in pezzi, sillabe di una fede balbuziente in procinto di lasciarsi inghiottire dalle fauci di un buio di silenzio?
Il buio in lutto non può perdurare nella sua eternità di distensione sulla terra della sua atmosfera, ovunque è occhio salvato all'oblio, pupilla ch'è rimossa dal suo sonno, guancia che lascia lenta scivolare, un insieme di stasi da mirare, e le stelle sono pause di lacrime che con un'insistita intermittenza fanno come rinascere la luce!
Volto di buia cenere di chiesa riverso a riprovare che si china per toccare ogni fondo del suo pozzo: e tutto sembra morto dacché statico, quei lumini di stelle sono orpelli, tra gli uccelli oramai nessun fedele, nella preghiera di un volo di fretta, solo il quarto di luna con la forma di una lacrima d'osso suggerisce che esiste ancora un lutto di candore!
Il cadavere del lutto può risvegliarsi altro da sé stesso dove la morte è illuminata vita di altri sopravvissuti al dolore sul corpo in ogni punto fu un piegarsi di Madre precedente disperduta negli echi delle figlie, mai brillò così tanto il colore della luce, il defunto si fece fazzoletto a cui affidare lacrime di stelle.