Nella spera del sole, intenerite per l'azzurro mattino che le imbeve, s'affollano le prime margherite a infoltir di freschezza questa lieve ripa, che si fa prato pel verde che le è nato.
Labili suoni, che la luce informa in fantasie fiorite ora dal suolo svelano che la terra, benché dorma già primaverilmente, esala il volo dei suoi sognanti amori che diventano fiori;
mentre le nubi in molli atteggiamenti imitano d'amplessi e baci d'aria le loro stesse curve sorridenti sdraiate in quella nudità plenaria cui non si danno veli nel talamo dei cieli.
Somiglia a un desiderio musicale questo prato ammirevole di fiori. E i suoi riposi, usciti nella luce primaverile della nostra gioia, respirano silenzi, innamorati dei sentori dell'erba: erba che sogna d'abbracciarsi all'ignuda aria distesa fra le corolle offerte della terra come labbra che il sole apre di baci. I pensieri di musica, taciuti quasi un pudore della primavera, nascondono di fiori le sue curve voluttuose, che la nube imita nei suoi diafani seni galleggianti. Si trasformano in spazio di silenzio melodioso in bei capricci d'oro ond'ella di soppiatto si vagheggia negli amplessi che sognano essere donna, benché la terra maschilmente soffra nell'attesa che l'uomo la sollevi.
Nelle ceneri delle stelle apparse in una solitudine respingente sé stessa e numerosa il corpo incorrotto della luce, le sue pupille come delle suppliche che lacrimano giù nell'aria buia ch'è l'anima di tutti e di nessuno trovano forse il riposo di un sogno col riflesso sulla schiena del mare, che russa senza avere le narici.
Anche se buio è il mare come il cielo tu ti ricorderai dell'umiltà, ritirerai l'offerta della lampada e chiuderai la bocca alla tua porta, le imposte chiuse come orecchie aperte ad ascoltare tutto il sonno - dentro - questa preghiera - morte e solitudine - sappi che non è cielo di nessuno - che non c'è alcun pianeta al tuo di sotto e nemmeno uno sguardo che si innalza a scongiurare di essere salvato - e Lui non è diverso da te stesso - si fa Pietà, da tuo amante diventa la più misera madre - la più liquida delle sculture che fa solo il Tempo, Tempo, quel genio artista, Tempo stronzo, Tempo che ci molesta, con le mani ci tocca, ci stiracchia, ci stravolge i connotati più che sottilmente - ma sappi il sogno non è mai supino - Inferno che non poggia su un terreno - l'anima è nuvola di fumo - bluff - ti risvegli e la pelle si ritrova sulla sabbia di scheletri pestati - e vieni, vieni, vieni ora ti chiama quest'amante illusoria che risucchia ancora te nella sua inesistenza - liane di pupille in questa selva - il lutto pianta in faccia il suo colore senza pudore di luci stellari gettando i fazzoletti delle nubi nella pena del non aver cestino - ché questa è Eternità - il non riposo il non trovarlo mai e il non saperlo.
Qualcuno, l'eco della mia memoria, l'ha definito Dio ed ha condannato la libertà d'azzurro dello sguardo ad una sbarra unica di buio, dei finti pentimenti della luce che singhiozzano le loro ragioni ai tribunali infimi degli uomini, ecco, quello che sono queste stelle, non ti danno nessuna assoluzione, tu gridi nel silenzio e chi ti ascolta è il silenzio stesso seppellito nella tomba di un vento che non c'è "nello stanotte dell'eternità".
Dire addio alla luce, e ché sia il nero il colore che illumini la vita questo lo sa nel sonno il senza sogno, lo sente e non lo può testimoniare nella sua solitudine abissale – s'aprì come oceanica voragine a separare il petto dalla schiena si trovò a navigare solo al centro senza potere arrivare alle sponde – che cosa vuole dire questa Luna che come ultima ostia viene offerta alla fame notturna senza labbra, al fedele che non è una persona, a un sacerdote che non può più esistere, la fase intera è la sua comunione – vive d'ossa la vita che si nega nell'aldiqua che al corpo pur prolunga il suo tempo di permanenza. In corso le esequie, il lutto il cielo lo ha vestito fino a cambiare colore di pelle, ma l'anima dell'aria è pur la stessa, incolore, impalpabile, sfuggente, trafitta, trapassata, già guarita dalla ferita di un passaggio insonne – O angeli vegliate su di me le lacrime remote dei riflessi mi cadano alla tomba che ora sono dice il mare col sussurro dell'onde – ma resta più profondo il suo segreto col suo seppellimento nella pace – strappate dalla cecità comune le stelle, gocce di cera consunta, resistenti al cadere fin nel fondo, custodite il ricordo col colore che ebbi e fui, posatevi all'ingresso – esso è la sola chiesa che rimane e non respinge alcun sguardo ascendente a trovare pietà nella carezza del suo palmo infinito, interminabile, prima di una Babele dimostrate nell'eterno presente di una lingua sulla pagina scritta ove parlate la sua preghiera – ch'è la sola acqua!
Questo mare è un inferno di quiete non si vede la luce sotterrata e il suo colore è troppo profondo come il suo passato, quando il lutto si cala sul silenzio si raddoppia l'oblio di un volto mai esistito, lo sguardo è come fosse tutto il corpo, chiede un appoggio nel cielo - è un inganno che sia una vetta, eppure è in alto, è piana! - non c'è guancia, né palpebra, né mento, solo qualcosa che ricorda ciglia e pupille e il mio corpo costretto dentro a fare un passo indietro il petto mosso è un passo di scarpa - si corruga la fronte, il sopracciglio - la pena è questa eternità esibita palmi aperti a donare solitudini, la clessidra del tempo si è fermata, non c'è una fratellanza tra i granelli, si riconosce quello che fu il Sole, il firmamento è la sua autopsia, cenere che lo lascia lacrimare senza che cada scivolando piano, ed il riflesso è un po' l'ultima carta, è un dire tentennando, ma a sé stessi, vorrei morire, stendermi supino, voglio arrivare a fondo, io, discendere.
Sepoltura resuscitante in stelle, quando il lutto che unisce spazio e tempo, ben memore di sparpagliare luce, dà come di una rappresentazione di un pugno arreso in palmo che fa andare in continua discesa solo ceneri, coreografia delle solitudini, con l'applauso delle mani dell'onde, un sipario che a riva è di silenzio, e alle spalle è già il pubblico di sabbia, e sono io col vento a disturbare la mia venuta via, andata altrove.
Un dito che minaccia di silenzio che si fa divorare dalle onde - la cecità che diventa pupilla onnipresente, abito di lutto che senza più le lacrime di luce dà l'idea d'accennarsi come pianto su quelle cose appena sottostanti - un cigno che si bagna, che scompare - un canto materiale del colore - l'ultimo biondo con le spalle al muro - d'un azzurro morente di spavento - ecco le nozze nere con la morte - e la sposa del nulla che abbassò, nel mostrarlo, il suo velo, con la luna come ostia offerta alla voracità di tutta una nessuna bocca fatta dal tempo nello spazio - il lividore di una ferita che era già crosta - un riflesso fu un gemito di perla, che gridò l'orfanezza dalla sua ostrica.
Cercare dove il mare porta tracce di spegnimento, dove si rivela la realtà sommersa, dove esso non è più nessun riflesso, ma un'esistenza autonoma, placenta che racchiude in sonno il feto solare, nelle sue alterne capriole, nel tuffarsi da nessun trampolino, nella caduta nera della morte, nella cenere buia che ha ormai reso il cielo un posacenere incrostato, dove il colore stesso ha oltrepassato persino il no al fumo che ancor vede l'insonne barcollante sulla strada - egli facendo scendere il suo sguardo vide il suo passo tastare la terra - un'infinita madre in resistenza - sbronze di luce, quei lampioni in fila - sorsi e sorsi riofferti senza fine a una bocca più estrema che arrancava - non ostruirono lassù le stelle - scintille ancora calde dell'incendio che mai vi fu, minacce inesistenti, su un cumulo di ceneri e carboni.