Non vi fosse la penna a mostrare l'inganno, fare da intermediario, penserei che l'inchiostro fosse un sangue attirato da bianche calamite, quest'ossa, questi fogli che le chiedono di ricoprirli perché sia la vita risuscitata in loro, e la mia persa, come un foglio, lo scheletro, ormai bianco uno scolaro analfabeta ignaro della lingua del sangue dell'inchiostro.
Non sono io, la bocca ma tutto il resto dove non si parla, né si vede, s'ascolta, né s'odora, si tocca, né si gusta l'organo è il mio silenzio e lo dice la morte sul mio corpo.
Tutto quello ch'è mio io lo porto con me per l'ultimo viaggio fosse anch'un buio come quello da cui venivo prima di stare qui, stare? Passare qui! E chiedo intorno chi mi vuol seguire Chi? Chi, non solo chi, ma anche cosa, ma soprattutto cosa!? E vedo i miei oggetti fare spazio ad altri oggetti di cui fui in possesso come se tra di loro non sapessero quali fossero veramente miei, ma solo che alcuni tra di loro lo fossero, lo fossero ormai stati. Perché restava un vuoto nel davanti, sulla mia soglia, prima di partire vidi che le mie mani non avevano nessun oggetto, mi sentii più povero; e soprattutto vile perché feci subito dopo il corpo il mio possesso e quindi mi sentii ricco di me. Ma il corpo cadde via dalle mie mani volle cadere, lui, lasciarsi andare nel rimanere a terra, decomporsi; e mi trovai lontano da chiunque, privo d'ogni risposta in ogni altro, la domanda fu quasi una risposta che ripetei per rendermene certo: "Chi viene via con me, chi porto via?" Forse soltanto l'anima, invece solo il nulla!
"Solo le luci nere sono anima, un'interiorità che è dentro un corpo!" Disse una voce che era il mio silenzio. E sempre col silenzio le risposi che c'è la Notte: "è anch'essa luce nera, però, ecco, è esterna." E con lo sguardo poco rassicurante come a dirmi che dovevo tacere, così feci, ché non avevo capito un bel nulla: "anche la Notte è stare dentro un corpo, che è sconosciuto, ma è come un amante che dorme e sa che l'altro veglia altrove, dove?" Laddove c'è la luce bionda.
I Nuotare sotto la sua superficie con l’onde delle nuvole che vanno, - da sempre spuma - verso chissà dove, verso nessuna riva, verso Assenza, un non voler oltrepassare ciò che si dice vietato, un non volere dar adito a curiosità. Chi osa - un’eccezione in una moltitudine - trova la morte presso il Pescatore ch’ha gettato le sue canne di luce in ogni lago d’aria sottostante.
II Il balzo un po’ più alto. Solamente questo distingue tutti noi da voi, pesci resi degli uomini al visibile manifestarsi, umani resi pesci dal nuotare al disotto di un oceano. Il divieto è lo stesso: non andare al di sopra di me: lo dice il Cielo, dicono, è come se dicesse Dio.
III La morte è il solo rogo a cui si tende, la morte, dico morte, ma dovrei dire suicidio, uscire dalle acque d’un cielo sotterraneo, un incontrare a viso aperto, l’Inferno di luce che dia il Paradiso della grazia al pesce eletto che va via dal mondo.
IV Questo è l’Inferno azzurro in cui ho vissuto, la luce v’arrivava come un occhio, lo sguardo che sapeva penetrare era debole, presto si spegneva, i raggi erano ciglia limitate, l’azzurro in una corsa verticale non accennava a smettere di essere sempre più un buio, andando negli abissi, come una bocca che ci divorava trascinandoci giù. Ma venne il giorno in cui capii di essere un eletto dalla morte che feci e che mi scelse il Dio che mi limito a chiamare Destino. Fu un Satana di Luce il pescatore che mi provocò con le sue esche, mi spinse ad uscire, catturato da una delle sue canne, fu un Inferno celeste che io volli raggiungere, tenere finalmente nel mio presente, vivo per un po’. Ma fu la Morte, questa morte fu un’eccezione che mi rese eletto.
V Nel giorno era il Nostro Paradiso il buio ch’ormai aveva abbandonato l’azzurro della superficie bionda. Bionda come la luce che emanava nei suoi riflessi, un Satana dell’alto, la rendeva un calore soffocante: un contrappasso che era un’asfissia.
VI Vidi un compagno andare, voler osare i limiti, sfidare i divieti concreti ch’erano superficie dove finiva l’azzurra sostanza che ci rendeva vivi. Inconsapevoli di essere degli angeli, fu quello l’unico pesce conscio e stufo d’esserlo e che scelse l’Inferno dell’esterno, come l’Ulisse le colonne d’Ercole, senza più ritornare. Vide luce riflettersi, ingannarlo. Non sapeva, non poteva saperlo in quel momento, mentre il divino Pescatore in alto era felice d’aver catturato la sua ultima preda: fu una morte l’ennesima a essere eccezione!
Come Cristo agli inizi d'una Resurrezione inconsapevole quel finalmente tendere all'abbandono dello star supino sul letto oscuro della propria bara ch'al giorno ingiovanito si fa bianco grazie alla luce che si compromette - Lei, scesa da un possente trono, bionda! - è la lacrima uscita a sollevarsi sul viso del mio mondo sconosciuto.
Sarò ancora neonato nella notte, ma le mie labbra saranno più in alto, la vera sete solo nello sguardo, quando berrò il latte della luce la luna sarà fatta ultimo seno.
I Io falegname d’acqua, le mie lacrime sono le croci che vorrei piantare al Golgota dei sogni, ché finisca questo Calvario, inutile vagare col passo dello sguardo che non poggia a nessun suolo terreo - e vi permanga! -, ma tocca appena solo l’altra palpebra, come la terra quando cadde Cristo sentì la trafittura delle spine di ciglia penetranti farsi estranee… Io vinco ché rimane un’utopia!
II No, non avere ciglia, avere spine, sentirle solo quando nel contatto s’incontrano le palpebre, i Romani che poggiano sull’altro capo (Cristo!) la corona, e vi sgocciola del sangue, ma rimane martirio, anche se l’anima vuole apparire pura con le lacrime che porta nel suo tempo a suoli d’aria!
Questo sorriso atroce senza labbra, queste affilate fauci, denti a sciabola dei quali non s'avverte distinzione, questo sorriso con un solo dente ch'ha poco del sorriso, anzi nulla. È un invito a colpire casualmente, la palpebra abbassata della notte e tutte le sue ciglia a ogni passo, perché si svegli e gridi nel silenzio l'occhio solare resosi ormai nudo.