Prendi il tuo cuore e posalo al tuo palmo, strazio del non avergli dato un corpo permanente nell'immortale vita, rendilo dolce dono sacrificio, il sangue necessario della luce d'un biondo che va ormai oltre il candore raggiunga, nutra, abbeveri ogni essere che nello sguardo in cui la vita è anima rimanga e si rafforzi alle sue labbra.
Sono stanco di stare in questo buio. Ma fa che con le dita delle palpebre, e col tocco gentile dello sguardo (al suo risveglio, riprovando il tatto), io spezzi ancora il pane della luce e lo divida con i miei fratelli.
Il cielo spalancava la ferita, il suo cuore restava definito, ma i rivoli dei raggi zampillavano soffusamente ovunque. Mi macchiava l'anima dello sguardo liberatasi dal corpo delle palpebre, al momento di quella morte ch'era il mio risveglio, dopo la lunga vita del suo sonno. Mi sembrava chiamare con il grido della materia ch'era senza voce a che li richiudessi e la zittissi e ritrovasse in me la buia crosta che invocava – credette di morire.
Un vino come un sangue della luce ed essa come un corpo e come un pane. L'Ultima Cena avvenne al suo tramonto quando in ginocchio all'orto del suo mare pregò, l'oscura crosta della sera taceva gli urli delle sue ferite e il suo martirio, cominciato all'alba. Ed elevati i piedi dalla terra, il volto puro ormai si confondeva col suo sudario, senza essere dentro alcun sepolcro, ancora sulla croce d'un quartetto di raggi ch'alla vista sembravano spiccare sui restanti. Issatosi alla massima collina del Golgota celeste d'ogni ora, fece soffrire agli occhi peccatori il centro della sua crocefissione.
Un raggio sembra vedere la carne come un mare d'Inferno e tende verso il basso il suo sé stesso. Io chiudo l'occhio, ma non voglio accoglierlo in questo spegnimento dell'azzurro che volge il sotterraneo cielo al nero. Sono un padre terreno e so provare misericordia d'ogni figlio alto, so stare espanso in una solitudine che si spalanca come un cielo vuoto, senza l'ultima stella del suo sogno. Il mio silenzio è l'unica parola e non è inframezzato da nient'altro. Ne cominciai il suo pronunciamento dai miei albori e man mano ch'avanzo nel tempo stabilito della vita di giorno in giorno come da un secondo a un altro nei minuti dei miei anni aumento questa consapevolezza.
Il riflesso era un'eco che gocciava, sangue di luce dalla sua ferita. Nel Sole, il cuore ch'era sempre al centro - dovunque si trovasse, s'espandeva - esso aveva raggiunto l'obiettivo d'ogni suo desiderio: aveva reso più bianca la sua fiamma, alto l'Inferno, e riscaldava con la sua purezza il mare decaduto, decadente sempre più negli abissi di sé stesso.
I Ti seppellisco con ben altre lacrime, quelle che gli occhi sulle dita versano o silenzio, bambino mai nato, uso lo stesso questa bara bianca.
II Lutto del nero, fazzoletto bianco suolo fidato, cadano su me le tue parole-lacrime saprò custodirle scoperte.
III Creo catene con la penna nera: imprigiono il silenzio ch’è innocente; creo le sbarre della sua cella ma il silenzio, nel suo corpo ch’è anima, saprà che fare per restare libero.
IV E senza che ci fosse alcuna tazza, né bordi né pareti, solo il fondo riuscì a cadere e a formarsi un quadrato e a solidificarsi - sempre latte. Facevo colazione dopo il sonno, dormienti, nel silenzio, caddero come mosche le parole, e non volli salvarle e non lo seppi.
V E nella colazione del silenzio bevi quel latte senza una parola, la mosca nera che sembrò cadere!
VI Lacrime nere, le parole scese, il lutto del silenzio a porgere il suo fazzoletto bianco.
VII E sulla tazza bianca del silenzio cadde una mosca, una parola nera.
VIII E quando muore il corpo della mano che muoveva la penna, e la scrittura ha concluso la sua vita terrena, il mio piede saprà l’elevazione al cielo, un sole, l’anima, lo sguardo a leggere in un aldilà sereno le impronte del percorso sulla terra.
IX Sta sanguinando tutta la sua cenere e le parole sono emorragia, sta già morendo l’osso del silenzio.
X Il silenzio era un osso, un labbro chiuso ora emette il respiro della cenere: questo è il suo solo modo di parlare.
L'origine, la festa, la natura non l'hai vissute eri nel tuo sonno, e nel mare celeste, nel suo centro, ardeva un campo, un'isola di luce, e i raggi erano spighe che pungevano i passi che facevi con le palpebre, e l'ora della sveglia fu il tramonto quando dall'infarinatura uscì il ricordo del biondo come un'ostia, e ognuno camminante sulla terra come a volere dire al suo stesso che era senza peccati, che era puro, apriva la sua bocca ad ospitarla in questa chiesa dove non c'è posto e si cammina, mancano le mura, è un no l'attesa della comunione che nascosto e invisibile nel nero protende verso l'alto "il sacerdote- Dio" che mangia per sé dei pezzettini ad ogni messa dei giorni notturni mantiene accesi i ceri delle stelle e lascia noi al buio del digiuno.
E sempre incinti della nostra ombra (pur nella luce massima, violenta!)... partorirò la morte mi domando? E non potrò vederla, sarà orfana? Tutta la pancia della mia figura che non s'accresce in mesi di decenni... sto conservando dentro un bimbo morto? I piedi son cordoni ombelicali e succhi la sostanza già del nulla, l'aria, una ciotola di latte, vuota? E come stare sempre a bere il fondo? Ma anche se fossi nata e già saresti bambina, e (supponiamo) pure adulta, perché hai bisogno di tenermi affianco? Mi sento un cane che trascina un cieco! Come un aedo che trapassa il buio (come se fossi solo una pupilla) come se il corpo fosse un lungo inchiostro, scrivi oralmente o parli per iscritto ai fogli casuali delle strade il poema finito del destino!