La mia bocca si scaldava alla luce, plasmava obiezioni. Io cantavo il mio cruccio e l'amore, volavo, pesantemente adorna di perle, rivestita di felicità, incontro agli astri, che dei loro gioielli abbisognavano per le notti a venire, per guarire.
Giacinti, custodi del fiore della mia ferita. Sotto l'asse dei germogli ho trovato un disco di morte in stato di grazia. Grida di uccelli allineati, un filo di perle in diagonale sul monte di parole. Ora cadono piume lunari: il canto non consumato, per te. Il tempo ha per ognuno un cuore che, traendo i suoi sogni dalla polvere delle stelle, si strapazza di danze fino a diventare un folle. Ci diamo un cenno raffiche di luce da una bocca all'altra, un tocco di vento di papavero sulle nostre palpebre. Alla fine, davanti al cancello nell'ora arsa dal fuoco, la parola inespugnata.
Vitamia, dimmi, che un segno pasquale ci toglie dalla bilancia del dolore e che, dando la mano al vento del sud, la parola si rivela. Vitamia, prendi la luce che fugge e salva la parola in fuga dalla fuga. Baciami via il verso dalle labbra, intessilo delicatamente con la stella naufragata. Azzurro-febbre risplendono le spalle della collina, la notte minaccia la parola che invecchia portata dal vento. Vitamia, ascolta, accanto al pozzo sotto il frassino cantano i serpenti un Dio li adorna di una luce a macchie, e io, vitamia, gli succhierò fuori il veleno dalla bocca. Guarda, la sera mette le ciglia alla viola mammola e coglie piante-di-tenebra dai nostri capelli. Le ombre si affrettano a raggiungere un luogo senza patria, gli spiriti, ingannati dalle nostre palpebre, diventano ciechi.
Poco ha a che fare con gli esseri umani l'aridità della luna. Eppure è lì che fiorisce la verbena del cuore dalle rovine della luce, il giallo pozzo a carrucola dal fuoco lontano. Per giorni e giorni ho corso nella neve, non mi sono riscaldata e nessuno ha mantenuto la parola quando la mia si è infranta sul passo e sul rossore iracondo del cielo. Quando il silenzio ha mutato il mio piede in pietra. Neve, dunque, neve e carne in cui nessun canto soffia la vita, che porterebbe me all'aridità della luna oppure – anche questo -, che potrebbe essere redenta dai coltelli, come ultima consolazione. Ero leggera come un uccello con le penne d'oro, un segno nel vento serale e avvolta nello stupore del bambino. La mia bocca è passata oltre questo tempo felice, non vuole imparare a vedere, quando il giorno la interroga e cerca di afferrare un sorriso. Anche gli angeli, ora, sono diventati ciechi.
Una sera, consacrata con troppa premura, i vitigni fuggono in una felicità lontana dal linguaggio. Davanti alla cascina le ore di pietra, ammucchiate e bianche per via della mano del sole, che le ha coperte. Ora è tempo, fratello, di custodire la stella naufragata, perché nessuno la derida con la bocca tozza. Un grido vuole prendere fiato, il grido sacrificale della selvaggina toglie il cielo alla valle. Buttami la luna, il pane dell'instancabile. Fammi rotolare la stella davanti al sogno risvegliato col canto.
A mezzo volto, non velata, la carne di monaca in fuga da mani ermafrodite. L'altra, la pietra di luna o gemma di giglio di campo infuria nel mio cervello alla ricerca di una traccia di felicità breve o con le dita di cannella – semmai – la parola trasceglie attingendo da sogni nero-pece. Sono andata con piedi di luce. Impregnata di sonno a un lancio di stella appena sono andata con piedi di luce davanti alla tua porta sono diventata cenere.
Io sento l'aria ora di un'altra sfera e mi scolorano nel buio i volti benignamente a me prima rivolti. E alberi amati e strade come a sera oscurano, che appena li ravviso: e ombra tu chiara - voce al mio tormento - in più profonde fiamme ora sei spenta per solcarmi d'un brivido improvviso dopo la guerra cieca in cui deliro. In circoli mi sciolgo in lume, in suono e senza brama al fervido respiro in lode pura grato m'abbandono. Un violento soffio ora m'assale nell'ebbrezza del rito ove uno stuolo di donne implora prosternato al suolo. E il vapore di nebbie lento esala a una contrada fulgida di sole, che cinge solo alpestri ultime gole. Candida e molle come latte trema la terra... su dirupi enormi io varco: di là rapito della nube estrema, nuoto in un mar di cristallina luce - una favilla io ormai del fuoco sacro, io sono un rombo della sacra voce.
Talora a sera tarda - era la luna - c'incamminammo allegri abbrividenti, quasi, rigati dagli umidi fiori, varcassimo la selva delle favole. Tu mi guidavi alle incantate valli di nudo lume e pallidi sentori; m'indicavi le grotte ove matura il triste amore in gelo di tormenti.