Se il guardo porti in cielo e vedi Dio, se lo riporti in terra e ancor l'incontri, se spazi sopra al mare e lì galleggia, se sul lago lo trovi e pur sui monti, se pensi al bruco fuoruscir dall'uovo, al cambiar di pelle e divenire crisalide e poi farfalla, se il pensier ti ritorna dalla farfalla all'uovo e in questa metamorfosi l'opera Sua immensa vedi e credi, se riconosci Egli nel tuo corpo, se tua fiducia in Egli tu riponi, se i bisogni tuoi ad Egli esponi e se confidi in Lui ogni certezza, se credi che in Egli sol'è salvezza, se ovunque il guardo giri e lì lo vedi, se nel morire credi andargli incontro, se credi ch'ha poter sui tuoi peccati, che per essi il Suo Figliolo in croce ha dato e che soltanto Lui tutt'ha creato, se tutto quest'è in te: Questa è la vera fede, la fede in Dio.
Sono allo scorcio, ormai, del mio sentiero ma più che mai vivere vorrei tanto per ricordare a tutti del tuo pianto e mantenere a lungo il tuo pensiero.
Io a rimuginare lo tengo in testa quell'eufemismo che mi desti in pasto quando aggiungesti, col tuo fare mesto, tace chi tiene perspicacia lesta.
Pure affermasti che giudizio tiene colui che in petto sempre l'ira contiene; lo dicesti con fermezza e certezza tanto che l'acquisii senza dubbiezza.
Nel bagaglio d'esperienza l'ho aggiunto e, in toto, ha già domato la mia grinta.
Fummo perch'eravamo quand'ancor erano vitali, focosi e fermi Lor; or più non siamo perché saremmo solo se confissi rimasti fossimo in suolo e fosse in noi presenza vista di Loro e nostre ovazioni al Ciel fossero coro; contenti ancor vivremmo com'allora, quel ch'eravamo allora saremmo ancora.
Ma più non è e, più mai così potrà ch'ognuno disperso s'è dritto sentiero, colui che s'accompagna mai vorrà che si ritrovi quel sentiero primiero. China la fronte a ciò che a lor piace, imbelli seguitiamo l'altrui volere, ad altra volontà noi si soggiace. Non intelletto umano ma sol di fere.
Rosa il tuo nome e rosa eri di viso Ricordo, Mamma, il tuo bel sorriso; ricordo quell'incedere tuo lesto, ricordo radunati i capei a cesto.
Ricordo gli occhi tuoi castano scuro, ricordo del tuo amore sempre puro; ricordo il tuo bel mento ovaleggiante su quel bel viso splendido, raggiante
Ricordo, Mamma, quando al casolare, raccolti accanto al grande focolare raccontavi per noi fatti e romanze di principi e duchesse in grandi stanze.
Principato, ducato e marchesato Quante fiabe per noi hai tu inventato! Altro dare di più non si poteva: in miseria di guerra si viveva.
Ricordo i tempi degl'oscuramenti, i razzi a notte fonda rilucenti, ricordo le nottate fredde, io ignudo, quando il Tuo corpo a me facea da scudo
per quei rumori forti ed assordanti di velivoli in cielo roteanti. Di gran paura si stringeva il core ma Tu coprivi tutto col tuo amore. . Allo scoppio di bombe a noi vicino stringevi a Te più forte il corpicino; lo facevi così, con tant'ardore, che risentirlo lo vorrei a quest'ore.
E, mi ricordo, Mamma, le speranze che in quelle tristi, brutte circostanze trasmettevi nel debol cuoricino Dell'arrivo di Papà così vicino.
Lo facevi con sì tanta fermezza che dissolvevi in me forte l'ebbrezza nella certezza di veder domani il Suo bel volto e le Sue grandi mani.
Or più non sei, dolce mia Mamma cara, di Te solo ricordi in alma serbo, ricordi che mi servono a pensare, ricordi che mi portano a sperare.
Dapprima all'uomo Iddio donò la vita, del costato di lui donna formò ardita, d'ella ad Adamo regalò il sorriso assieme a regale casa in Paradiso.
Nasce, così, il connubio umano ch'essendo buono diventa tosto strano tanto che pur di cristianità esser dottrina stringi una mano e presto sei in berlina.
Finché il giorno arrivò del matrimonio giammai fu Adamo d'abominio a Dio. Sempre fedele fu agl'insegnamenti, mai il proibito toccò degl'alimenti.
Ma quando ch'ebbe con egli la compagna lasciossi intenerire da sua lagna; a viso bello, in personaggio abietto, resistere non seppe, poveretto!
Onde non essere ad ella in dispiacere fece quel ch'era d'ella il suo volere: Avido ingurgitò il frutto proibito che penzolava dall'albero lì sito.
Subito preso fu da gran terrore e d'incontrare Iddio ebbe timore; paura aveva d'essere trovato ma fu scovato e lesto fu scacciato.
Errabondo va l'uomo da quel dì per la scomunica ch'addosso gli finì, per colpa della donna maledetta l'umanità ridotta è alla distretta.
Beato chi da sol vita conduce ché, d'essa a fine, finisce nella Luce. Il Maligno da sé ha distanziato giacché donna in vita ha mai amato.
Per quel che sopra è detto, o uomo saggio, deserta il tristo tuo retaggio e da cattiva lonza stai in lontananza poiché lupo la veste perde, non l'usanza.
Di Preziosissime pietre adorni, due gioielli di platino con arte di divin mano forgiati, che mai ad umano concesso fu far sì belli ad altro, di men preziosità, furo affiancati. Alfin che in scrigno, come in corpo anima, li custodisse al par di reliquie di beati essi, cui alto valore dato non è far stima, ad orafo in cura furono affidati.
Fu l'orafo, ahimè, turbato dal Maligno che con fare suasivo quanto loquace dire a distruggere i preziosi del pregiato scrigno lo spinge e la ricchezza nel fango fa finire. Come voce umana sotto palazzi sgretolati miste a pianto e suppliche infinite due voci s'alzano a lamenti tormentati, per l'azione ricevuta, inorridite.
Sono le voci di due rondinini ch'assistono dolenti al frantumarsi del lor caldo nido di Dio, la sua pietà, piangendo implorano: Non trasportarci, no! in altro estraneo lido. All'esile filo della speranza appesi col cuore in gola, con la voce spenta, sconfitti, feriti, stressati, offesi e vilipesi pietà, oh Dio, pietà! Perché ci vuoi trafitti?
In un angolo remoto sono due stanche latte che il satanasso a calci e appulsi precipita in un fosso i cuori infranti, le costole rotte; mortificata ognuna, sì, ma non stizzita a sera lo guardo triste volgono al Ciel beato col pianto in cuore, col perdono in mente pregano alfin che l'orafo nel baratro calato al nido piagnucolante torni, serenamente.
O Genitori che state sotto ai pini Udite la mia prece o miei divini, sentite quanto grande è il pentimento di me che non ho colto il buon momento.
Di stupidità pervasa la mia mente Indegnamente fui da Voi assente Ed or che più rimediar non posso Il danno rimpiango e il tempo lasso
E me compiango di quanto non fui lesto E per quanto vile fu ogni mio gesto Nel trascurare per bramosia i Vostri affanni ArrecandoVi assai molti più danni.
Per i dovuti e mancati omaggi Perdono: la mia prece è per Voi oggi, finché vivrò nel profondo del petto Vi terrò e sempre nei pensieri reconditi Vi avrò.
Del male fatto assai molto mi dolgo E a Voi Anime elette mi rivolgo: Alfin che trovi la perduta calma Raggiunga il perdon Vostro la mia alma.
Pusillanime, miserevole don Abbondio dell'Opera manzoniana turpe figuro, alla vista dei bravi, dal guardo truce e duro fu, tremante del proprio io, dimentico di Dio. Poscia, ancor, fremente di rabbia e di paura cavalcar dovette la dispettosa mula che rasentando sen'iva l'orlo dell'altura con la testardaggine degna d'essa mula.
Di sua paura colpa nessuna avea, il poverello, giacché cavalcato mai avea mulo o asinello. Mai, prima, di brutti ceffi fu a lor cospetto perciò il freddo trafissegli carni e petto. La sua dimestichezza era il breviario che al libro accompagnava del lunario; marchiato, pur tuttavia, fu di vigliaccheria cui mescolanza avea a risaputa tirchieria.
Col segno a fuoco sulla fronte impresso per la codardia, vittima fu di se stesso; qual'uomo da nonnulla fu additato e da ciascuno schivato e allontanato. Misero più d'egli è il cavaliere esperto che di bestie da soma fu domatore certo, dacché teschio è vuoto e di cervello senza per perdita d'onestà, scienza e coscienza.
Grand'uomini furonvi d'onori e d'armi che per amore ridussero lor intelletti inermi; l'Orlando per l'Angelica perse il cervello ma egli, per poco o nulla, perse il fardello. Quegli nobile sentimento seguitava per cui la sua pazzia giustifica trovava; questi l'amata lasciava per materia quando già dava, da trent'anni, onori e gloria.
Perso, con l'abbandono ha amori, grazie, onori e scomparsi sono i prati seminati a fiori; d'irsute spine la via tortuosa prende mentre ogni giorno più in basso scende. In quel che don Abbondio credea infausto giorno reggere, della stupida mula, seppe il governo e tra preghiere, lamentele, suppliche e lagne agli applausi, alla fine, passò dalle vergogne.
Il cavaliere credendosi sommo del meglio da furente il destriero lancia allo sbaraglio mentre, lemme, l'arciere scaglia la freccia che il cavaliere nuotar fa nella feccia. Ora s'affligge sull'operato suo nefasto cercando dar riparo al provocato guasto; al coccodrillo s'accosta a somiglianza che piange su distrutta figliolanza.
Frutto di un emerito cretino circola per le vie un volantino; scritto l'ha con mano malandrina persona disgraziata, burattina.
Verme strisciante, misera carogna l'essere tuo è tutto una vergogna; sei un vile mascalzone puzzolento, essere abietto, indegno e virulento.
Mente maligna, produttor di male la lordura scritta, dimmi, a cosa vale? Il profano al divino hai mescolato per questo, farabutto, sarai schiacciato.
Mente malata, instabile e corrotta l'opera infame segna la tua condotta; peggio di Giuda sei e di Caino impiccati, bastardo, sei un assassino.
Di giovani hai violato i sentimenti, perché non hai attaccato altri elementi? Rispondi, lestofante, vieni avanti mostra tua faccia, i toni tuoi arroganti:
Aguzzino, miscredente, delinquente degno non sei di stare tra la gente giacché rifuggi dal civil confronto e dell'anonimato tieni conto.
Vergognati! Anima vile di peggiore specie, bestia feroce, trafiggitor di cuore, al posto delle mani hai degli artigli dimmi, carogna, tu ne hai di figli?
Hai conosciuto mai dei sentimenti? Sai dirmi quanto sono sublimanti? O rettile sei nato tu strisciante ed odio alberghi per la buona gente?
Hai segnalato del Vangel dei versi ma quei tuoi scritti ad esso son'inversi: Hai giudicato senz'alcun diritto possa in eterno piangere il tuo scritto.
Quando ch'ancora il latte mi donava persi l'aggrappo a lauta mammella di quella nobile figura dolce e bella che sopra al core suo mi dondolava. Un dì per smisurata malasorte in fretta si partì per luminosa via lasciandomi di nettare desiosa alfin di Dio venire a maestose Porte.
Inver con me voleva ella restare ma divin Forza al ciel la fa carpire e a nulla valser lo suo reagire né le suppliche mie per fer voltare. Troppo piccina per attaccarmi a Te, Madre Divina, che se possanza avessi avuto per'amore Tuo, e gl'eccessi pianti, per caritade, mi sarei gaudente.
Qual uccelletto io ancora implume restar volevo nel mio caldo nido ma lo destino tristo quant'infido non volle lì mettessi le mie piume. Pregarti, allora, Madonna, non potevo ché ancor lo cervel mio non connetteva né la mia lingua verbo ancor diceva né di mie gambe passo alcun movevo.
Ma ora che lo cervello s'è ingrandito e lo cuor mio per malor si è spanso e molto a ragionar riesco e penso a questa preghiera l'ascolto Tuo invito: Se darmi non vuoi ancor l'amata mamma perché poss'io toccarla e abbracciarla, se in Cielo vuoi Tu ancora trattenerla privandomi ognora della mia fiamma
fa ch'io giunga almeno ai Tuoi piè santi, fa che alla scala dell'empireo approdi, lascia almeno lì che la mia mamma godi e di sospiri la copri e di miei pianti.