Se il guardo porti in cielo e vedi Dio, se lo riporti in terra e ancor l'incontri, se spazi sopra al mare e lì galleggia, se sul lago lo trovi e pur sui monti, se pensi al bruco fuoruscir dall'uovo, al cambiar di pelle e divenire crisalide e poi farfalla, se il pensier ti ritorna dalla farfalla all'uovo e in questa metamorfosi l'opera Sua immensa vedi e credi, se riconosci Egli nel tuo corpo, se tua fiducia in Egli tu riponi, se i bisogni tuoi ad Egli esponi e se confidi in Lui ogni certezza, se credi che in Egli sol'è salvezza, se ovunque il guardo giri e lì lo vedi, se nel morire credi andargli incontro, se credi ch'ha poter sui tuoi peccati, che per essi il Suo Figliolo in croce ha dato e che soltanto Lui tutt'ha creato, se tutto quest'è in te: Questa è la vera fede, la fede in Dio.
La bontà, è risaputo, qualità è del cornuto che quand'anco la sua donna trova a letto con l'amico a sfregarsi l'ombelico, li osserva desolato e per mera umanità, avvilito, se ne va.. Poi credendo che l'amico dipartito si sia già, come d'uso d'ogni dì, torna a casa al mezzodì; da sull'uscio fragoroso ode il riso degl'amanti e allora cosa fà? Scoraggiato se ne va. Attraversa il ponte grande, scende giù, verso la valle, si sofferma sulla sponda, guarda l'acqua gorgogliante: si lo fò. Indi pensa alla sua donna, indietreggia di un bel po': Poverina! Non lo fò. Ed allora cosa fa? Mogio, mogio se ne va. La campana dondolante dona l'ora della sera, il profumo delle viole sta a nunziare la primavera; Lui è solo nei suoi pensieri: a quest'ora ancor lo trovo? Certo no!, è ora di cena. Farfugliando in questo dire verso casa s'incammina. Mentre il sole cala a ponente avanzando lentamente, con il cuore palpitante guarda in alto, ahimè chi vede? È l'amico alla veranda che ridendo sta cenando. Si domanda: Mo che fò? Più lontano me ne vo. Poi, intanto, la campana dalla vetta al campanile lenta batte mezzanotte; con in cuore speranze vane fa ritroso il suo cammino, alla luce della luna della casa ai gradini stancamente s'incammina e la chiave nella toppa ruota lento, pian pianino e con fare quasi furtivo alla camera da letto tristemente s'avvicina. La sua donna con la guancia è distesa sulla pancia dell'amante ch'è d'accanto. Indietreggia, va in cucina, un trinciante stringe in pugno e s'avventa alla consorte e dell'uomo fa stessa sorte. Poi s'accascia lentamente e riposa, finalmente. Pure questo è risaputo qualità è del cornuto. N. Maruca.
Fummo perch'eravamo quand'ancor erano vitali, focosi e fermi Lor; or più non siamo perché saremmo solo se confissi rimasti fossimo in suolo e fosse in noi presenza vista di Loro e nostre ovazioni al Ciel fossero coro; contenti ancor vivremmo com'allora, quel ch'eravamo allora saremmo ancora.
Ma più non è e, più mai così potrà ch'ognuno disperso s'è dritto sentiero, colui che s'accompagna mai vorrà che si ritrovi quel sentiero primiero. China la fronte a ciò che a lor piace, imbelli seguitiamo l'altrui volere, ad altra volontà noi si soggiace. Non intelletto umano ma sol di fere.
Rosa il tuo nome e rosa eri di viso Ricordo, Mamma, il tuo bel sorriso; ricordo quell'incedere tuo lesto, ricordo radunati i capei a cesto.
Ricordo gli occhi tuoi castano scuro, ricordo del tuo amore sempre puro; ricordo il tuo bel mento ovaleggiante su quel bel viso splendido, raggiante
Ricordo, Mamma, quando al casolare, raccolti accanto al grande focolare raccontavi per noi fatti e romanze di principi e duchesse in grandi stanze.
Principato, ducato e marchesato Quante fiabe per noi hai tu inventato! Altro dare di più non si poteva: in miseria di guerra si viveva.
Ricordo i tempi degl'oscuramenti, i razzi a notte fonda rilucenti, ricordo le nottate fredde, io ignudo, quando il Tuo corpo a me facea da scudo
per quei rumori forti ed assordanti di velivoli in cielo roteanti. Di gran paura si stringeva il core ma Tu coprivi tutto col tuo amore. . Allo scoppio di bombe a noi vicino stringevi a Te più forte il corpicino; lo facevi così, con tant'ardore, che risentirlo lo vorrei a quest'ore.
E, mi ricordo, Mamma, le speranze che in quelle tristi, brutte circostanze trasmettevi nel debol cuoricino Dell'arrivo di Papà così vicino.
Lo facevi con sì tanta fermezza che dissolvevi in me forte l'ebbrezza nella certezza di veder domani il Suo bel volto e le Sue grandi mani.
Or più non sei, dolce mia Mamma cara, di Te solo ricordi in alma serbo, ricordi che mi servono a pensare, ricordi che mi portano a sperare.
Dapprima all'uomo Iddio donò la vita, del costato di lui donna formò ardita, d'ella ad Adamo regalò il sorriso assieme a regale casa in Paradiso.
Nasce, così, il connubio umano ch'essendo buono diventa tosto strano tanto che pur di cristianità esser dottrina stringi una mano e presto sei in berlina.
Finché il giorno arrivò del matrimonio giammai fu Adamo d'abominio a Dio. Sempre fedele fu agl'insegnamenti, mai il proibito toccò degl'alimenti.
Ma quando ch'ebbe con egli la compagna lasciossi intenerire da sua lagna; a viso bello, in personaggio abietto, resistere non seppe, poveretto!
Onde non essere ad ella in dispiacere fece quel ch'era d'ella il suo volere: Avido ingurgitò il frutto proibito che penzolava dall'albero lì sito.
Subito preso fu da gran terrore e d'incontrare Iddio ebbe timore; paura aveva d'essere trovato ma fu scovato e lesto fu scacciato.
Errabondo va l'uomo da quel dì per la scomunica ch'addosso gli finì, per colpa della donna maledetta l'umanità ridotta è alla distretta.
Beato chi da sol vita conduce ché, d'essa a fine, finisce nella Luce. Il Maligno da sé ha distanziato giacché donna in vita ha mai amato.
Per quel che sopra è detto, o uomo saggio, deserta il tristo tuo retaggio e da cattiva lonza stai in lontananza poiché lupo la veste perde, non l'usanza.
O Genitori che state sotto ai pini Udite la mia prece o miei divini, sentite quanto grande è il pentimento di me che non ho colto il buon momento.
Di stupidità pervasa la mia mente Indegnamente fui da Voi assente Ed or che più rimediar non posso Il danno rimpiango e il tempo lasso
E me compiango di quanto non fui lesto E per quanto vile fu ogni mio gesto Nel trascurare per bramosia i Vostri affanni ArrecandoVi assai molti più danni.
Per i dovuti e mancati omaggi Perdono: la mia prece è per Voi oggi, finché vivrò nel profondo del petto Vi terrò e sempre nei pensieri reconditi Vi avrò.
Del male fatto assai molto mi dolgo E a Voi Anime elette mi rivolgo: Alfin che trovi la perduta calma Raggiunga il perdon Vostro la mia alma.
Pusillanime, miserevole don Abbondio dell'Opera manzoniana turpe figuro, alla vista dei bravi, dal guardo truce e duro fu, tremante del proprio io, dimentico di Dio. Poscia, ancor, fremente di rabbia e di paura cavalcar dovette la dispettosa mula che rasentando sen'iva l'orlo dell'altura con la testardaggine degna d'essa mula.
Di sua paura colpa nessuna avea, il poverello, giacché cavalcato mai avea mulo o asinello. Mai, prima, di brutti ceffi fu a lor cospetto perciò il freddo trafissegli carni e petto. La sua dimestichezza era il breviario che al libro accompagnava del lunario; marchiato, pur tuttavia, fu di vigliaccheria cui mescolanza avea a risaputa tirchieria.
Col segno a fuoco sulla fronte impresso per la codardia, vittima fu di se stesso; qual'uomo da nonnulla fu additato e da ciascuno schivato e allontanato. Misero più d'egli è il cavaliere esperto che di bestie da soma fu domatore certo, dacché teschio è vuoto e di cervello senza per perdita d'onestà, scienza e coscienza.
Grand'uomini furonvi d'onori e d'armi che per amore ridussero lor intelletti inermi; l'Orlando per l'Angelica perse il cervello ma egli, per poco o nulla, perse il fardello. Quegli nobile sentimento seguitava per cui la sua pazzia giustifica trovava; questi l'amata lasciava per materia quando già dava, da trent'anni, onori e gloria.
Perso, con l'abbandono ha amori, grazie, onori e scomparsi sono i prati seminati a fiori; d'irsute spine la via tortuosa prende mentre ogni giorno più in basso scende. In quel che don Abbondio credea infausto giorno reggere, della stupida mula, seppe il governo e tra preghiere, lamentele, suppliche e lagne agli applausi, alla fine, passò dalle vergogne.
Il cavaliere credendosi sommo del meglio da furente il destriero lancia allo sbaraglio mentre, lemme, l'arciere scaglia la freccia che il cavaliere nuotar fa nella feccia. Ora s'affligge sull'operato suo nefasto cercando dar riparo al provocato guasto; al coccodrillo s'accosta a somiglianza che piange su distrutta figliolanza.
Alta sei donna mia turchese e bella ch'appari quale dal ciel discesa stella, lo guardo delicato è freccia in core che riempie di dolcezza e tant'amore.
Profumata sei qual rosa e giglio più ch'al mattino emana fior di tiglio, là, ove il passo posi ride la via inebriata di profumo delicata scia.
Sul dolce, sereno, splendido visino l'aspetto che raduni par divino, par che discendi da città remota, non già nata sull'umano pianeta.
D'umana razza tieni appartenenza Indi pur d'essa tieni somiglianza; tuttavia diversa è ogni fattezza Per quanto stile e immensa tenerezza.
Quest'oggi il nervosismo è culminato, per questo ogni fatica ho trascurato, dopo avere girovagato alquanto entro deluso nella stanza accanto.
Quel che quest'anno qui è capitato è avvenimento che va raccontato alfin che sappia chi ci ruota intorno della confusion che regna e del frastorno.
Abbia pietà di nuova circostanza e prenda dell'ambiente nuova coscienza onde non abbia lui ad adirarsi e non costringa altri a morsicarsi.
Approda, cheto cheto, a dirigenza uomo discreto dai capelli senza; non un mugugno mai, non una lagna, convive la miseria e si rassegna.
Al contrario, però, vive quest'io che pur con nostalgia, fuori d'astio mi contorcio, mugugno e pur mi lagno tanto che cancrena l'ho financo in sogno.
Guardo, lì, seduta a tavolino donna vestita d'abito di lino che al posto ci cercare d'operare dilettasi sulla sedia a dondolare.
Lumacone somiglia a movimenti: Lenta nel fare, lenta in spostamenti. Con il lavoro pare ci si culla, a fine giorno non conclude nulla.
Delle tante disgrazie è la più magna che capitata m'è tra nuca e collo, meglio se fosse assente alla bisogna ch'è personaggio di corto cervello.
L'è di coronamento buon compagno che in tela incagliato pare sia di ragno. Prende, pone, riprende e poi ripone, s'arrovella, si strugge e non compone.
Dai gesti, dal parlar, dal comportare i due al mio cervello fanno pensare: Bisognerebbe metterli in struttura ove potere offrir sicura cura.
Stanco di permanenza in sì squallido loco mestamente m'avvio allo stanzone donde mi par proviene una canzone; accanto alla finestra è uomo gelido
che al collo cinghia tiene penzoloni mentre reggesi con mano i pantaloni. M'accosto, al saluto mio risponde: Hai visto al monte che bell'alte onde?
Brillano gli occhi, tremano le mani; presto men vò dicendo: Addio, a domani. Nel corridoio restano tre, in crocchio, che prima mai incontrato avea mio occhio.
L'uno in altezza supera la norma e dall'aspetto parmi non sia in forma. Mi dà conferma, di mia impressione, al mio saluto, la truce espressione.
Dei rimanenti due uno s'inchina, l'altro lancia coriandoli e farina. In aria li sparpaglia e volan via mentre gl'astanti invocano Maria.
Sbigottito del far di quei signori accedo alla sala di lettura ove di doglianza carca e malumori trovo persona di scarsa cultura.
In serbo tiene solo sconoscenza, superbia, arroganza ed indignanza ** d'intemperanza tien comportamento e mostra di suo volto abbrutimento.
Delle manchevolezze mie non dico: Quello che faccio spesso lo modifico. Dico soltanto che non son quel ch'ero, mi scordo quel ch'ò detto e se pur c'ero.
Arricchito di sì tant'indigenza lesto men torno all'usuale permanenza convinto che l'ambiente mio disabile è, comunque, degli altri il più agibile.