Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz
Il mio credo
La schiera coscienziosa dei dubbiosi
e degli indagatori a tempo perso
vive col beneficio d'invetario
che può rendere vago anche il tormento,
diluisce spesso il male della vita
nel fiume già melmoso della storia.
Basta provare a vivere nei giorni
i parti presuntuosi della mente
a constatare il nerbo del reale.
Se il passato è perduto, e se il futuro
recalcitra ai progetti
la verità violenta del presente
dà la misura della sua realtà
con la perseveranza del dolore.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    Ma tu
    avevo in mente
    di farti vedere
    le mie piante sacre,
    non grasse ma secche
    parole di niente.

    Avevo in mente
    di darti la pace
    ma tu scappi sempre
    vento disperso
    in un modo o nell'altro
    ed io ti riaspetto
    in un modo o nell'altro
    stanco ed immenso.

    Avevo in mente
    di farti sentire
    qualcosa che viene
    da dentro ed esplode
    avessi coraggio...
    ma ho paura di perdere
    quel poco che ancora
    ci tiene sospesi
    in un modo o nell'altro
    ma tu mi consoli
    dicendo "sei pazzo"
    è nella testa -mi dici-
    nella mia testa
    che domina caos
    nell'anima, domina cosa?

    Ho dentro un concerto
    stonato che preme
    che guida e mi lascia
    poi riprende mi schiaccia
    ma tu, danzi sempre
    al soffio del cielo
    ed io sento musica
    affranta e curata
    ripetermi cinica
    e dura che niente
    ritorna ed amare
    non basta.

    Ma tu dici niente
    sotto controllo
    semplicità
    e che il tempo dirà
    quello che ora
    nessuno sente.
    Ma tu sei tu.
    E il resto è banale
    ovvietà che perdura
    amore che dura
    che fa paura.
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      Non come volse Pinabello avvenne
      de l'innocente giovane la sorte;
      perché, giù diroccando a ferir venne
      prima nel fondo il ramo saldo e forte.
      Ben si spezzò, ma tanto la sostenne,
      che 'l suo favor la liberò da morte.
      Giacque stordita la donzella alquanto,
      come io vi seguirò ne l'altro canto.
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        Dove è tagliato, in man lo raccomanda
        a Pinabello, e poscia a quel s'apprende:
        prima giù i piedi ne la tana manda,
        e su le braccia tutta si suspende.
        Sorride Pinabello, e le domanda
        come ella salti; e le man apre e stende,
        dicendole: - Qui fosser teco insieme
        tutti li tuoi, ch'io ne spegnessi il seme! -.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          Bradamante, che come era animosa,
          così mal cauta, a Pinabel diè fede;
          e d'aiutar la donna, disiosa,
          si pensa come por colà giù il piede.
          Ecco d'un olmo alla cima frondosa
          volgendo gli occhi, un lungo ramo vede;
          e con la spada quel subito tronca,
          e lo declina giù ne la spelonca.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Tedio invernale

            Ma ci fu dunque un giorno
            Su questa terra il sole?
            Ci fur rose e viole,
            Luce, sorriso, ardor?
            Ma ci fu dunque un giorno
            La dolce giovinezza,
            La gloria e la bellezza,
            Fede, virtude, amor?
            Ciò forse avvenne a i tempi
            D'Omero e di Valmichi:
            Ma quei son tempi antichi,
            Il sole or non è più.
            E questa ov'io m'avvolgo
            Nebbia di verno immondo
            È il cenere d'un mondo
            Che forse un giorno fu.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Avanti! Avanti!

              I
              Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
              L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione
              Indomito destrier.
              A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti,
              E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
              L'urlo solingo e fier.
              I bei ginnetti italici han pettinati crini,
              Le constellate e morbide aiuole dè giardini
              Sono il lor dolce agon:
              Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
              La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
              De le fanfare al suon;
              E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
              Il picciol collo inarcano e masticando il morso
              Par che rignino - Ohibò! -
              Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
              Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
              D'un corpo che invecchiò,
              Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle
              Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
              Guarda con muto orror.
              E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati,
              Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
              Dietro un velato amor.
              Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
              Non vedi tu le parie forme del tempo antico
              Accennarne colà ?
              Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
              Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
              Oh gloria, oh libertà!

              II
              Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
              Nè superbi silenzii il tuo superbo amore.
              Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
              Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio,
              Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
              E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr.
              E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
              Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
              Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
              O immane statua bronzea su dirupato monte,
              Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
              Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.
              A più frequente palpito di umani odii e d'amori
              Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori
              Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
              E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
              Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
              E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.
              Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
              Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
              Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn,
              E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
              Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia,
              repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.
              A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
              Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli
              Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
              Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello
              E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
              Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;
              Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
              Protendea la repubblica santa le aperte braccia
              Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
              Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
              Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni
              —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?
              Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
              E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.—
              O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
              O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
              Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
              E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.

              III
              Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato !
              Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato,
              I gravi e oscuri dí.
              Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
              I falchi salutarono augurando ne l'alto
              E il bufolo muggí?
              Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
              Ove china su 'l nubilo inseminato piano
              La torre feudal
              Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
              Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi
              Il sonno sepolcral,
              Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
              Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
              Verdi tra il cielo e il mar,
              Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
              Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
              Azzurro ad aspettar?
              Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
              Torre di Donoratico a la cui porta nera
              Conte Ugolin bussò
              Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
              Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
              Ne l'inferno ammirò?
              Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
              Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
              Novella il cacciator
              Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
              I falchetti famelici empiono il ciel di strida
              E il can guarda al clamor.
              Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
              E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
              Furo il mio solo altar
              E con me nel silenzio meridian fulgente
              I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
              Veniano a conversar.
              E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
              Che nè solchi de i secoli aperti con la spada
              Del console roman
              Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
              Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
              Comune italian,
              Tra le germane faide e i salmi nazareni
              Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
              Canti dè mietitor.
              Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero,
              Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
              Nel sano petto il cor.
              Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
              Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:
              Corriam, fiera gentil.
              Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
              Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
              E a noi rida l'april,
              L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori,
              L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
              L'aprile del pensier.
              Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
              Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
              Cavallo e cavalier,
              O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
              Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
              Su 'l toscano mio suol,
              Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
              Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
              Verso il morente sol.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                An die Melancholie / Alla malinconia

                Zum Wein, zu Freunden bin ich dir entflohn,
                Da mir vor deinem dunklen Auge graute,
                In Liebesarmen und beim Kiang der Laute
                Vergaß ich dich, dein ungetreuer Sohn.

                Du aber gingest mir verschwiegen nach
                Und warst im Wein, den ich verzweifelt zechte,
                Warst in der Schwüle meiner Liebesnächte
                Und warest noch im Hohn, den ich dir sprach.

                Nun kühlst du die erschöpften Glieder mir
                Und hast mein Haupt in deinen Schoß genommen,
                Da ich von meinen Fahrten heimgekommen:
                Denn all mein Irren war ein Weg zu dir.


                Fuggendo da te mi sono dato ad amici e vino,
                perché dei tuoi occhi oscuri avevo paura,
                e nelle braccia dell'amore ed ascoltando il liuto
                ti dimenticai, io tuo figlio infedele.

                Tu però in silenzio mi seguivi,
                ed eri nel vino che disperato bevevo,
                ed eri nel calore delle mie notti d'amore,
                ed eri anche nello scherno, che t'esprimevo.

                Ora mi rinfreschi le mie membra sfinite
                ed accolto hai nel tuo grembo il mio capo,
                ora che dai miei viaggi son tornato:
                tutto il mio vagare dunque era un cammino verso di te.
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