Il mio credo La schiera coscienziosa dei dubbiosi e degli indagatori a tempo perso vive col beneficio d'invetario che può rendere vago anche il tormento, diluisce spesso il male della vita nel fiume già melmoso della storia. Basta provare a vivere nei giorni i parti presuntuosi della mente a constatare il nerbo del reale. Se il passato è perduto, e se il futuro recalcitra ai progetti la verità violenta del presente dà la misura della sua realtà con la perseveranza del dolore.
Ma tu avevo in mente di farti vedere le mie piante sacre, non grasse ma secche parole di niente.
Avevo in mente di darti la pace ma tu scappi sempre vento disperso in un modo o nell'altro ed io ti riaspetto in un modo o nell'altro stanco ed immenso.
Avevo in mente di farti sentire qualcosa che viene da dentro ed esplode avessi coraggio... ma ho paura di perdere quel poco che ancora ci tiene sospesi in un modo o nell'altro ma tu mi consoli dicendo "sei pazzo" è nella testa -mi dici- nella mia testa che domina caos nell'anima, domina cosa?
Ho dentro un concerto stonato che preme che guida e mi lascia poi riprende mi schiaccia ma tu, danzi sempre al soffio del cielo ed io sento musica affranta e curata ripetermi cinica e dura che niente ritorna ed amare non basta.
Ma tu dici niente sotto controllo semplicità e che il tempo dirà quello che ora nessuno sente. Ma tu sei tu. E il resto è banale ovvietà che perdura amore che dura che fa paura.
Non come volse Pinabello avvenne de l'innocente giovane la sorte; perché, giù diroccando a ferir venne prima nel fondo il ramo saldo e forte. Ben si spezzò, ma tanto la sostenne, che 'l suo favor la liberò da morte. Giacque stordita la donzella alquanto, come io vi seguirò ne l'altro canto.
Dove è tagliato, in man lo raccomanda a Pinabello, e poscia a quel s'apprende: prima giù i piedi ne la tana manda, e su le braccia tutta si suspende. Sorride Pinabello, e le domanda come ella salti; e le man apre e stende, dicendole: - Qui fosser teco insieme tutti li tuoi, ch'io ne spegnessi il seme! -.
Bradamante, che come era animosa, così mal cauta, a Pinabel diè fede; e d'aiutar la donna, disiosa, si pensa come por colà giù il piede. Ecco d'un olmo alla cima frondosa volgendo gli occhi, un lungo ramo vede; e con la spada quel subito tronca, e lo declina giù ne la spelonca.
Ma ci fu dunque un giorno Su questa terra il sole? Ci fur rose e viole, Luce, sorriso, ardor? Ma ci fu dunque un giorno La dolce giovinezza, La gloria e la bellezza, Fede, virtude, amor? Ciò forse avvenne a i tempi D'Omero e di Valmichi: Ma quei son tempi antichi, Il sole or non è più. E questa ov'io m'avvolgo Nebbia di verno immondo È il cenere d'un mondo Che forse un giorno fu.
Dolce paese, onde portai conforme L'abito fiero e lo sdegnoso canto E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme, pur ti riveggo e il cuor mi balza tanto. Pace dicono al cuor le tue colline Con le nebbie sfumanti e il verde piano Ridente ne le piogge mattutine.
I Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone! L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione Indomito destrier. A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti, E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti L'urlo solingo e fier. I bei ginnetti italici han pettinati crini, Le constellate e morbide aiuole dè giardini Sono il lor dolce agon: Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori, La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori De le fanfare al suon; E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso, Il picciol collo inarcano e masticando il morso Par che rignino - Ohibò! - Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia D'un corpo che invecchiò, Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle, Guarda con muto orror. E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati, Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati, Dietro un velato amor. Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico! Non vedi tu le parie forme del tempo antico Accennarne colà ? Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo Solcar come una candida nube l'estremo cielo? Oh gloria, oh libertà!
II Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore Nè superbi silenzii il tuo superbo amore. Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio, Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr. E tutto ciò che facile allor prometton gli anni Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni, Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir. O immane statua bronzea su dirupato monte, Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir. A più frequente palpito di umani odii e d'amori Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori Ultime dee superstiti giustizia e libertà; E uscir credeami italico vate a la nuova etade, Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade, E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va. Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata! Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata, Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn, E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia, Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia, repubblica vergine, l'amazonio tuo sen. A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli, Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello E biondo capo languido chinavi, e te, fratello, Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color; Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia Protendea la repubblica santa le aperte braccia Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol. Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni, Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol? Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente, E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.— O popolo d'Italia, vita del mio pensier, O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo, Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo; E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.
III Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato ! Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato, I gravi e oscuri dí. Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto I falchi salutarono augurando ne l'alto E il bufolo muggí? Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano, Ove china su 'l nubilo inseminato piano La torre feudal Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi Il sonno sepolcral, Mentre tormenta languido sirocco gli assetati Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati Verdi tra il cielo e il mar, Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno Saliva, le fenicie rosse vele nel seno Azzurro ad aspettar? Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera Torre di Donoratico a la cui porta nera Conte Ugolin bussò Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante, Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante Ne l'inferno ammirò? Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte Novella il cacciator Quando al purpureo vespero su la bertesca infida I falchetti famelici empiono il ciel di strida E il can guarda al clamor. Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco; E la pietra pelasgica ed il tirreno speco Furo il mio solo altar E con me nel silenzio meridian fulgente I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente Veniano a conversar. E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada Che nè solchi de i secoli aperti con la spada Del console roman Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava; Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava, Comune italian, Tra le germane faide e i salmi nazareni Esultava nel libero lavoro e ne i sereni Canti dè mietitor. Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero, Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero Nel sano petto il cor. Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso: Ecco, tutte le redini io ti libero al corso: Corriam, fiera gentil. Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti, Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti; E a noi rida l'april, L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori, L'april santo de l'anima piena di nuovi amori, L'aprile del pensier. Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta Cavallo e cavalier, O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione, Con l'occhio ancora gravido di luce e visione, Su 'l toscano mio suol, Ed al fraterno tumolo posi da la fatica, Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica Verso il morente sol.
Zum Wein, zu Freunden bin ich dir entflohn, Da mir vor deinem dunklen Auge graute, In Liebesarmen und beim Kiang der Laute Vergaß ich dich, dein ungetreuer Sohn.
Du aber gingest mir verschwiegen nach Und warst im Wein, den ich verzweifelt zechte, Warst in der Schwüle meiner Liebesnächte Und warest noch im Hohn, den ich dir sprach.
Nun kühlst du die erschöpften Glieder mir Und hast mein Haupt in deinen Schoß genommen, Da ich von meinen Fahrten heimgekommen: Denn all mein Irren war ein Weg zu dir.
Fuggendo da te mi sono dato ad amici e vino, perché dei tuoi occhi oscuri avevo paura, e nelle braccia dell'amore ed ascoltando il liuto ti dimenticai, io tuo figlio infedele.
Tu però in silenzio mi seguivi, ed eri nel vino che disperato bevevo, ed eri nel calore delle mie notti d'amore, ed eri anche nello scherno, che t'esprimevo.
Ora mi rinfreschi le mie membra sfinite ed accolto hai nel tuo grembo il mio capo, ora che dai miei viaggi son tornato: tutto il mio vagare dunque era un cammino verso di te.