Scritta da: Elisa Iacobellis
in Poesie (Poesie d'Autore)
L'eternità
È stata ritrovata!
- Cosa? - l'Eternità.
È il mare unito
Al sole.
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È stata ritrovata!
- Cosa? - l'Eternità.
È il mare unito
Al sole.
Domenica! Il dì che a mattina
sorride e sospira al tramonto!...
Che ha quella teglia in cucina?
Che brontola brontola brontola...
È fuori un frastuono di giuoco,
per casa è un sentore di spigo...
Che ha quella pentola al fuoco?
Che sfrigola sfrigola sfrigola...
E già la massaia ritorna
da messa;
così come trovasi adorna,
s'appressa:
la brage qua copre, là desta,
passando, frr, come in un volo,
spargendo un odore di festa,
di nuovo, di tela e giaggiolo.
La macchina è in punto; l'agnello
nel lungo schidione è già pronto;
la teglia è sul chiuso fornello,
che brontola brontola brontola...
Ed ecco la macchina parte
da sé, col suo trepido intrigo:
la pentola nera è da parte,
che sfrigola sfrigola sfrigola...
Ed ecco che scende, che sale,
che frulla,
che va con un dondolo eguale
di culla.
La legna scoppietta; ed un fioco
fragore all'orecchio risuona
di qualche invitato, che un poco
s'è fermo su l'uscio, e ragiona.
È l'ora, in cucina, che troppi
due sono, ed un solo non basta:
si cuoce, tra murmuri e scoppi,
la bionda matassa di pasta.
Qua, nella cucina, lo svolo
di piccole grida d'impero;
là, in sala, il ronzare, ormai solo,
d'un ospite molto ciarliero.
Avanti i suoi ciocchi, senz'ira
né pena,
la docile macchina gira
serena,
qual docile servo, una volta
ch'ha inteso, né altro bisogna:
lavora nel mentre che ascolta,
lavora nel mentre che sogna.
Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,
con una vertigine molle:
con qualche suo fremito incuora
la pentola grande che bolle.
È l'ora: s'affretta, né tace,
ché sgrida, rimprovera, accusa,
col suo ticchettìo pertinace,
la teglia che brontola chiusa.
Campana lontana si sente
sonare.
Un'altra con onde più lente,
più chiare,
risponde. Ed il piccolo schiavo
già stanco, girando bel bello,
già mormora, in tavola! In tavola!,
e dondola il suo campanello.
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso dè Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova trà nembi, e noi la vasta
Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
Dè colorati augelli, e non dè faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra
Degl'inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l'odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell'indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator dè casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D'implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.
Ogni incrostata conchiglia che sta
In quella grotta in cui ci siamo amati
Ha la sua propria particolarità.
Una dell'anima nostra ha la porpora
Che ha succhiato nel sangue ai nostri cuori
Quando io brucio e tu a quel fuoco ardi;
Un'altra imita te nei tuoi languori
E nei pallori tuoi di quando, stanca,
Ce l'hai con me perché ho gli occhi beffardi.
Questa fa specchio a come in te s'avvolge
La grazia del tuo orecchio, un'altra invece
Alla tenera e corta nuca rosa;
Ma una sola, fra tutte, mi sconvolge.
Sera piovosa in grigio stanco.
Tutto è così.
Gli alberi secchi
la mia stanza solitaria.
E i ritratti vecchi
e il libro intonso...
Trasuda la tristezza dai mobili
e dall'anima.
Forse
la Natura ha per me
il cuore di cristallo.
E mi duole la carne del cuore
e la carne dell'anima.
E parlando
le mie parole restano nell'aria
come sugheri sull'acqua.
Solo per i tuoi occhi
soffro questo male;
tristezze del passato
tristezze che verranno.
Sera piovosa in grigio stanco.
E va la vita.
Le colline digradano nel bianco.
Persone o stelle mi guardano con tristezza, le deludo.
Il treno lascia dietro una linea di fiato.
Oh lento cavallo color della ruggine, zoccoli, dolorose campane.
È tutta la mattina che
la mattina sta annerendo, un fiore lasciato fuori.
Le mie ossa racchiudono un'immobilità, i campi
lontani mi sciolgono il cuore.
Minacciano
di lasciarmi entrare in un cielo
senza stelle né padre, un'acqua scura.
Mi crocifiggono e io devo essere la croce e i chiodi.
Mi tendono il calice e io devo essere la cicuta.
Mi ingannano e io devo essere la menzogna.
Mi bruciano e io devo essere l'inferno.
Devo lodare e ringraziare ogni istante del tempo.
Il mio nutrimento son tutte le cose.
Il peso preciso dell'universo, l'umiliazione, il giubilo.
Devo giustificare ciò che ferisce.
Non importa la mia fortuna o la mia sventura.
Sono il poeta.
Al di là degli stagni, delle valli e dei monti,
al di là dei boschi, delle nuvole e dei mari,
al di là del sole, al di là dell'aria,
al di là dei confini delle stellate sfere,
Tu, mio spirito, ti muovi con agilità
e, come buon nuotatore che gode tra le onde,
allegro solchi la profonda immensità
con indocile e maschia voluttà.
Fuggi lontano dai morbosi miasmi,
voli a purificarti nell'aria più alta,
e bevi, come un puro liquido divino,
il fuoco chiaro che colma spazi limpidi.
Le spalle alla noia e ai vasti affanni
che opprimono col loro peso la nebbiosa vita,
felice chi con ali vigorose
si eleva verso campi sereni e luminosi;
Chi lancia i pensieri come allodole
in libero volo verso il cielo del mattino,
- chi si libra sulla vita e comprende senza sforzo
il linguaggio dei fiori e delle cose mute!
A volte
devi
indietreggiare
di uno o
due passi,
ri-
considerare
staccare
per un
mese
non
fare niente
non
volere
fare niente
la pace è
fondamentale
il ritmo è
fondamentale
qualsiasi cosa
tu voglia
non
l'avrai
provandoci
con troppa
insistenza.
Stacca
per
dieci anni
sarai
più
forte
stacca
per
venti anni
sarai
amcora più
forte.
Non c'è niente in
palio
comunque
e
ricorda che
la seconda cosa più bella
del mondo
è
una notte di sonno
tranquillo
e
la più bella:
una morte
serena.
Nel frattempo
paga la bolletta del
gas
se riesci
e
cerca di non
litigare con tua
moglie.
Pensiero, io non ho più parole.
Ma cosa sei tu in sostanza?
qualcosa che lacrima a volte,
e a volte dà luce....
Pensiero, dove hai le radici?
Nella mia anima folle
o nel mio grembo distrutto?
Sei cosi ardito vorace,
consumi ogni distanza;
dimmi che io mi ritorca
come ha già fatto Orfeo
guardando la sua Euridice,
e cosi possa perderti
nell'antro della follia.