Poesie d'Autore migliori


Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)

L'uomo che impara

Prima costruii sulla sabbia,
poi costruii sulla roccia.
Quando la roccia crollò
non ho più costruito su nulla.
Poi ancora talvolta costruivo
su sabbia e roccia, come capitava, ma
avevo imparato.

Coloro ai quali affidavo la lettera
la buttavano via.
Ma chi non curavo
me la riportava.
Allora ho imparato.

Le mie disposizioni non furono rispettate.
Quando giunsi, m'avvidi
che erano sbagliate.
Era stato fatto
quel che era giusto.
Così ho imparato.

Le cicatrici dolgono
nel tempo di gelo.
Ma spesso dico: solo la fossa
non m'insegnerà più nulla.
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    Scritta da: Silvana Stremiz
    in Poesie (Poesie d'Autore)

    In Barca

    Vedi le stelle, amore,
    Ancor più chiare nell'acqua e splendenti
    Di quelle sopra a noi, e più bianche
    Come ninfee!

    Ombre lucenti di stelle, amore:
    Quante stelle sono nella tua coppa?
    Quante riflesse nella tua anima?
    Solo le mie, amore, le mie soltanto?

    Guarda, quando i remi muovo,
    Come deformate s'agitano
    Le stelle, e vengon disperse!
    Perfino le tue, lo vedi?

    Rovesciano le stelle le acque
    Acque povere, inquiete, abbandonate...!
    Dici, amore, che non viene scosso il cielo
    E immobili son le sue stelle?

    Là! hai visto
    Quella scintilla volare su di noi? Le stelle
    In cielo neanche son sicure.
    E di me, che sarà, amore, di me?

    Cosa sarà, amore, se presto
    La tua stella fosse lanciata sopra un'onda?
    Sembrerebbero le tenebre un sepolcro?
    Svaniresti tu, amore, svaniresti?
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      in Poesie (Poesie d'Autore)

      Il clown

      Saltimbanco, addio! Buona sera, Pagliaccio! Indietro, Babbeo:
      Fate posto, buffoni antiquati, dalla burla impeccabile,
      Fate largo! Solenne, altero e discreto,
      ecco venire il migliore di tutti, l'agile clown.

      Più snello d'Arlecchino e più impavido di Achille
      è lui di certo, nella sua bianca armatura di raso:
      etereo e chiaro come uno specchio senza argento.
      I suoi occhi non vivono nella sua maschera d'argilla.

      Brillano azzurri fra il belletto e gli unguenti
      mentre, eleganti il busto e il capo si bilanciano
      sull'arco paradossale delle gambe.

      Poi sorride. Intorno il volgo stupido e sporco
      la canaglia puzzolente e santa dei Giambi
      applaude al sinistro istrione che l'odia.
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        Scritta da: Marco
        in Poesie (Poesie d'Autore)

        Versi di Congedo, a vietarle il lamento...

        Siano pur due, lo sono come i rigidi
        gemelli del compasso sono due:
        la tua anima il piede fisso che all'apparenza
        immoto muove al moto del compagno.

        E, se pure dimori nel suo centro,
        quando l'altro si spinge lontano,
        piega e lo segue intento,
        tornando eretto quando torna al centro.

        Così tu sei per me che debbo, simile
        all'altro piede, obliquamente correre:
        con la tua fermezza chiude giustamente il mio cerchio
        e al mio principio mi riporta sempre.
        Composta domenica 11 ottobre 2009
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          Scritta da: Sylvia Drago
          in Poesie (Poesie d'Autore)

          Consigli a me stessa quando piove

          Dormi in silenzio

          Non far rumore quando non ci sei
          Coltivati
          ma non covare pietre

          i mattoni servono per costruire ponti
          i giorni per tessere
          il mattino per ricominciare
          la carne è pesante per ancorare all'amore

          Piangi, lasciati piovere, lasciati stare
          Riposati, lasciati vegliare
          Brinda, ci sono notti da ubriacare

          Se le tue mani ti sembrano opache
          dipingi le unghie di rosso

          Ricorda che per sopravvivere bisogna disobbedire

          Porta con te un ombrello a colori

          se non puoi vincerla, sfoggia la malinconia.
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            Scritta da: Violina Sirola
            in Poesie (Poesie d'Autore)

            Bruto minore

            Poi che divelta, nella tracia polve
            Giacque ruina immensa
            L'italica virtute, onde alle valli
            D'Esperia verde, e al tiberino lido,
            Il calpestio dè barbari cavalli
            Prepara il fato, e dalle selve ignude
            Cui l'Orsa algida preme,
            A spezzar le romane inclite mura
            Chiama i gotici brandi;
            Sudato, e molle di fraterno sangue,
            Bruto per l'atra notte in erma sede,
            Fermo già di morir, gl'inesorandi
            Numi e l'averno accusa,
            E di feroci note
            Invan la sonnolenta aura percote.

            Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
            Dell'inquiete larve
            Son le tue scole, e ti si volge a tergo
            Il pentimento. A voi, marmorei numi,
            (Se numi avete in Flegetonte albergo
            O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
            È la prole infelice
            A cui templi chiedeste, e frodolenta
            Legge al mortale insulta.
            Dunque tanto i celesti odii commove
            La terrena pietà? dunque degli empi
            Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
            Per l'aere il nembo, e quando
            Il tuon rapido spingi,
            Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

            Preme il destino invitto e la ferrata
            Necessità gl'infermi
            Schiavi di morte: e se a cessar non vale
            Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
            Si consola il plebeo. Men duro è il male
            Che riparo non ha? dolor non sente
            Chi di speranza è nudo?
            Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
            Teco il prode guerreggia,
            Di cedere inesperto; e la tiranna
            Tua destra, allor che vincitrice il grava,
            Indomito scrollando si pompeggia,
            Quando nell'alto lato
            L'amaro ferro intride,
            E maligno alle nere ombre sorride.

            Spiace agli Dei chi violento irrompe
            Nel Tartaro. Non fora
            Tanto valor né molli eterni petti.
            Forse i travagli nostri, e forse il cielo
            I casi acerbi e gl'infelici affetti
            Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
            Non fra sciagure e colpe,
            Ma libera né boschi e pura etade
            Natura a noi prescrisse,
            Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
            Sparse i regni beati empio costume,
            E il viver macro ad altre leggi addisse;
            Quando gl'infausti giorni
            Virile alma ricusa,
            Riede natura, e il non suo dardo accusa?

            Di colpa ignare e dè lor proprii danni
            Le fortunate belve
            Serena adduce al non previsto passo
            La tarda età. Ma se spezzar la fronte
            Né rudi tronchi, o da montano sasso
            Dare al vento precipiti le membra,
            Lor suadesse affanno;
            Al misero desio nulla contesa
            Legge arcana farebbe
            O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
            Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
            Figli di Prometeo, la vita increbbe;
            A voi le morte ripe,
            Se il fato ignavo pende,
            Soli, o miseri, a voi Giove contende.

            E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
            Candida luna, sorgi,
            E l'inquieta notte e la funesta
            All'ausonio valor campagna esplori.
            Cognati petti il vincitor calpesta,
            Fremono i poggi, dalle somme vette
            Roma antica ruina;
            Tu sì placida sei? Tu la nascente
            Lavinia prole, e gli anni
            Lieti vedesti, e i memorandi allori;
            E tu su l'alpe l'immutato raggio
            Tacita verserai quando né danni
            Del servo italo nome,
            Sotto barbaro piede
            Rintronerà quella solinga sede.

            Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
            E la fera e l'augello,
            Del consueto obblio gravido il petto,
            L'alta ruina ignora e le mutate
            Sorti del mondo: e come prima il tetto
            Rosseggerà del villanello industre,
            Al mattutino canto
            Quel desterà le valli, e per le balze
            Quella l'inferma plebe
            Agiterà delle minori belve.
            Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
            Siam delle cose; e non le tinte glebe,
            Non gli ululati spechi
            Turbò nostra sciagura,
            Né scolorò le stelle umana cura.

            Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
            Regi, o la terra indegna,
            E non la notte moribondo appello;
            Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
            Conscia futura età. Sdegnoso avello
            Placàr singulti, ornàr parole e doni
            Di vil caterva? In peggio
            Precipitano i tempi; e mal s'affida
            A putridi nepoti
            L'onor d'egregie menti e la suprema
            Dè miseri vendetta. A me d'intorno
            Le penne il bruno augello avido roti;
            Prema la fera, e il nembo
            Tratti l'ignota spoglia;
            E l'aura il nome e la memoria accoglia.
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