Dov'era la luna? Ché il cielo notava in un'alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù: veniva una voce dai campi: chiù... Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare, sentivo un fru fru tra le fratte; sentivo nel cuore un sussulto, com'eco d'un grido che fu. Sonava lontano il singulto: chiù... Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento; squassavano le cavallette finissimi sistri d'argento (tintinni a invisibili porte che forse non s'aprono più?... ); e c'era quel pianto di morte... chiù...
Poi le luci girando al vicin colle, dov'era il cespo che ' bel piè trafisse, fermossi alquanto a rimirarlo, e volle il suo fior salutar pria che partisse; e vedutolo ancor stillante e molle quivi porporeggiar, così gli disse: "Sàlviti il Ciel da tutti oltraggi e danni, fatal cagion dei miei felici affanni: Rosa, riso d'Amor, del Ciel fattura, rosa del sangue mio fatta vermiglia, pregio del mondo e fregio di natura, de la Terra e del Sol vergine figlia, d'ogni ninfa e pastor delizia e cura, onor de l'odorifera famiglia, tu tien d'ogni beltà le palme prime, sovra il vulgo dè fior Donna sublime. Quasi in bel trono Imperatrice altera siedi colà su la nativa sponda. Turba d'aure vezzosa e lusinghiera ti corteggia d'intorno e ti seconda; e di guardie pungenti armata schiera ti difende per tutto, e ti circonda. E tu fastosa del tuo regio vanto porti d'or la corona e d'ostro il manto. Porpora dè giardin, pompa dè prati, gemma di primavera, occhio d'aprile, dite le Grazie e gli Amoretti alati fan ghirlanda a la chioma, al sen monile. Tu, qualor torna a gli alimenti usati ape leggiadra o zeffiro gentile, dài lor da bere in tazza di rubini rugiadosi licori e cristallini. Non superbisca ambizioso il Sole di trionfar fra le minori stelle, che ancor tu fra i ligustri e le viole scopri le pompe tue superbe e belle. Tu sei con tue bellezze uniche e sole splendor di queste piagge, egli di quelle. Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo, tu Sole in terra, ed egli rosa in cielo. E ben saran tra voi conformi voglie: dite fia '1 Sole, e tu del Sole amante, ei de l'insegne tue, de le tue spoglie l'aurora vestirà nel suo levante. Tu spiegherai nè crini e ne le foglie la sua livrea dorata e fiammeggiante, e per ritrarlo ed imitarlo appieno porterai sempre un picciol Sole in seno. "
Maurizio, non piangere, non sono qui sotto il pino. L'aria profumata della primavera bisbiglia nell'erba dolce, le stelle scintillano, la civetta chiama, ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia nel nirvana beato della luce eterna! Và dal cuore buono che è mio marito, che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d'amore: - digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui, hanno foggiato il mio destino — che attraverso la carne raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace. Non ci sono matrimoni in cielo, ma c'è l'amore.
Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
Li osservo, questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti d'una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell'ultima forma storica di Roma. Li osservo: in tutti c'è come l'aria d'un buttero che dorma armato di coltello: nei loro succhi vitali, è disteso un tenebrore intenso, la papale itterizia del Belli, non porpora, ma spento peperino, bilioso cotto. La biancheria, sotto, fine e sporca; nell'occhio, l'ironia che trapela il suo umido, rosso, indecente bruciore. La sera li espone quasi in romitori, in riserve fatte di vicoli, muretti, androni e finestrelle perse nel silenzio. È certo la prima delle loro passioni il desiderio di ricchezza: sordido come le loro membra non lavate, nascosto, e insieme scoperto, privo di ogni pudore: come senza pudore è il rapace che svolazza pregustando chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno; essi bramano i soldi come zingari, mercenari, puttane: si lagnano se non ce n'hanno, usano lusinghe abbiette per ottenerli, si gloriano plautinamente se ne hanno le saccocce piene. Se lavorano - lavoro di mafiosi macellari, ferini lucidatori, invertiti commessi, tranvieri incarogniti, tisici ambulanti, manovali buoni come cani - avviene che abbiano ugualmente un'aria di ladri: troppa avita furberia in quelle vene...
Sono usciti dal ventre delle loro madri a ritrovarsi in marciapiedi o in prati preistorici, e iscritti in un'anagrafe che da ogni storia li vuole ignorati... Il loro desiderio di ricchezza è, così, banditesco, aristocratico. Simile al mio. Ognuno pensa a sé, a vincere l'angosciosa scommessa, a dirsi: "È fatta, " con un ghigno di re... La nostra speranza è ugualmente ossessa: estetizzante, in me, in essi anarchica. Al raffinato e al sottoproletariato spetta la stessa ordinazione gerarchica dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia, in un mondo che non ha altri varchi che verso il sesso e il cuore, altra profondità che nei sensi. In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
Traccio un solco per terra, in riva al mare: e la marea subito lo spiana. Così è la poesia. La stessa sorte tocca alla sabbia e tocca alla poesia al via vai della marea, al vien-vieni della morte.
Padre vinto nel sonno oscuro e lontano, il bambino ti sveglia con la mano. Ancora nato nel tuo sogno chiede ricordo dell'età che ti correva giovane agli occhi, mesto al sollievo della sua sembianza non vuole che tu creda la morte buia nell'eternità. Era così soave il cielo intorno, a respiro e a cadenza della sera tu mi portavi in braccio al sonno fresco di primavera. Forse è questo la morte, un ricordare l'ultima voce che ci spense il giorno.
A me non piace il vano dizionario delle frasi e vocaboli d'amore: "Sei mio". "Son tua". "Io t'amo!". "Tuo per sempre".
A me non piace essere schiavo. Io guardo la donna bella in fondo alle pupille e le dico: "Stanotte. Sai, domani è un altro giorno, nuovo e bello. Vieni. Portami una follia nuova, trionfale. All'alba me ne andrò via per cantare".
L'anima mia è semplice. Nutrita fu dal vento salmastro e dall'aroma resinoso dei pini. Ella è segnata dalle impronte medesime che rigano la pelle segaligna del mio viso, che è bello della squallida bellezza delle fredde marine e delle dune.
Così pensavo lungo la frontiera di Finlandia, la lingua decifrando strana nei verdi occhi dei Finni scialbi. C'era gran pace. Accanto alla banchina un treno pronto accese fuoco e fumo. Pigra la russa guardia doganale riposava su un cumulo di sabbia erto, dove finiva il terrapieno. Là cominciava un'altra terra, e muta una chiesa ortodossa contemplava lo sconosciuto estraneo paese.
Così pensavo. Ed ella sopraggiunse, si fermò sulla china: erano gli occhi rossi di sabbia e sole. Ed i capelli, unti come la resina dei pini, cadevan sulle spalle in flutti azzurri. S'accostò. S'incrociò il suo ferino sguardo col mio sguardo ferino. Rise ad alta voce. E gettò contro a me un ciuffo d'erba e un pugno d'aurea sabbia. Poi con un balzo risalì. Scomparve, galoppando al di là del terrapieno.
La inseguii di lontano. Mi graffiavano le felci il volto. Insanguinai le dita, mi lacerai il vestito. Ma correvo urlando come belva e la chiamavo: e la mia voce era suon di corno. Ma lei, delineando un'orma lieve sulle dune friabili, scomparve fra le trame notturne degli abeti.
Ora io giaccio anelando sulla sabbia. Ma ancora nelle mie rosse pupille ella corre, ella ride: ed i capelli ridono ancora, ridono le gambe, ride al vento la veste nella corsa.
Io giaccio e penso: oggi sarà notte. Domani sarà notte. Rimarrò qui finché non l'agguanti come fiera o col suono di corno della voce non le tagli la fuga. E non dirò: "Mia. Sei mia". Purché lei mi dica: "Son tua! son tua!"
Apparirà all'improvviso dal giaciglio del firmamento Un venerando irritato che griderà ad una folla gremita: "Oh ignari titubanti tra certezza e incertezza Il vostro cammino non deve seguire questa né quella".