Scritta da: Andrea De Candia
in Poesie (Poesie d'Autore)
Nella sera il tuo seno fra le foglie
il suo bianco dischiude di gardenia
assetata in attesa della notte.
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Nella sera il tuo seno fra le foglie
il suo bianco dischiude di gardenia
assetata in attesa della notte.
Insonne la gardenia distillava
nel palmo della notte il suo veleno
mentre il cielo piangeva le sue stelle
e la luna contava i moribondi.
Ti vidi ridere sola
nella notte. Sgusciare
dalla tela ruvida
le mandorle del seno.
Si ruppero le stelle
mentre la luna pregna deformata
sbirciava tra le barche
bisbigliando
dissennati rancori, lamentele.
La luna tralcio a tralcio rotolava
sulla vigna tremante di paura
partoriva conigli topi scorpioni
e noi stretti nascosti dietro il muro
la sentimmo guaire come un cane.
Un altro giorno s'annega all'orizzonte
il crisantemo del sole tra gli scogli
marcisce. Nei tuoi capelli
un'altra notte s'addensa nera di pioggia
ti riga il collo
mi piange fra le dita.
Il poeta, lui solo, ha unificato il mondo
che in ognuno di noi in frantumi è scisso.
Del bello è testimone inaudito,
ma esaltando anche ciò che lo tormenta
dà alla rovina purezza infinita:
e persino la furia che annienta si fa mondo.
La veglia strappa il velo di Maya
mai come allora palpebre ferite
il sangue oscuro ci si para avanti
come se fosse selva inestricabile
è un accatastamento di liane,
scimmie che imploran d'essere supine,
malati di ignoto puntano il dito
sulla pillola della Luna, la
vorrebbero trascorsa lungo i fiumi
squarciati di rivelata esistenza
e piattezza aderente al loro letto,
al suolo su cui striscia, serpe, l'ombra,
al fardello che lievemente pesa,
al bozzolo che libera la Morte,
all'istante farfalla che regala
voli esalati d'ultimi respiri,
all'amante gemello che sa infrangere
il già non specchio dell'aria, affacciandovisi
col suo unico occhio e le sue ciglia,
un accenno di un volto, tutt'un bacio.
Dio mi chiama, virgulto
mentre porto le vene giù nel mondo
fino a che si corrompano di terra.
Dio mi chiama a che canti altrove un grido
ed un sibilo ardente di vendette.
Dio che vuole i miei gemiti e la furia
mi raggela se tento mille mani
mettere la mia polvere di zelo.
Mai vidi uomo così irsuto e bruno
portatore di dura adolescenza,
dolce all'impatto con le cose pure
ché tu sei sempre casto e benedetto
dentro l'ansito grande dei tuoi occhi
ché somigli a tua madre nell'andare
nell'incedere puro nella scienza
e non ardisci di chiamare uomo
colui che non si getta la colata
di questa verità nella figura
Io ti ammiro e ti sento, una cascata
di forsennate e ripide parole
e il tuo silenzio pieno di coraggio.
Non meritavo nemmeno la cenere –
sembrava dirmi la Notte – il carbone
del mio castigo, l’insonnia infrangente
muri di inconsistenza d’aria – dai
luce col tuo passaggio a quest’asfalto –
se griderai si innalzerà la fiamma
di una richiesta disperata al nulla –
ché il cielo, tetto buio ti richiude,
smascherato l’inganno del suo azzurro.