Tempo di dubbio, magnifica passione soltanto il tempo scorre tra le dita. Ah, variato dal nulla il nulla incerto e la canzone libera del sonno o sempreverde, libera, sicura giaccio nel paravento della voce.
Requiem a te che poggi questo labbro assetato di vita sulla zolla oscuro mutamento di stagione, requiem poiché rimani nell'asfalto sognando gli asfodeli del cammino, requiem per l'ostia che ti ha benedetto nell'ora del trapasso immacolato e per l'arido esempio di ogni uomo che cade. La mannaia della morte ha lasciato più tenero il sondaggio e i capelli fioriscono nel vuoto che noi umani diciamo. Signore, il tuo vuoto presente è religione. Requiem a te che cingi di corolla gli orizzonti celesti dei miei occhi e son lacrime incise come pietre e son duri scalpelli e sono noia della vita proterva a te riposo che canti nella vita il mio presente abbeverando tutte le stagioni.
Nelle fosse cunicoli ed occhiaie e fissazioni nude e mani cancrenose che scavano nel buio e l'agguato leggero della quieta follia che ti assalta la schiena come pantera nuda. E tutti incatenati formavano un fiore tumefatto odoroso pel firmamento nudo. Dove non cresce Dio lì cresce la tortura, dove non c'è la luce lì la tenebra sale, dove muore il tuo corpo lì cominciano l'ossa.
Dove arriva il mio urlo di silenzio? Una catena di vuoto infinito, un cadere pesante illimitato ai piedi fissi del piombo del buio, ecco, non so più piangere la luce, le stelle sono la mia nostalgia, la luna, un preavviso di cadavere. Ma la sete mi allaccia alla salvezza: bevo allo stagno della mia preghiera, e tutti i fiori e i ciuffi d'erba attorno sono sussurri materializzati, e quando finalmente mi rialzo dalla pausa della contemplazione ritorna al labbro un gusto d'amarezza. Ciondolo sulla strada dell'insonnia, porto le mani al volto disperato, nessuno c'era e nessuno c'è ancora. Eppure so che mi potrei donare.
I parto dal trampolino, dalla vetta, sono sangue di luce, punta aguzza che si vede circondata da notte - belva che spinge alla mia non memoria - mi tuffo e nell'abbandonare i piedi la certezza del terreno di prima sono sasso bevuto dalla musica e mi chino nel sonno che mi chiama, lago che ha meritato la sua pace.
Ii nuota, musica, tu, luce di suono, sfiora, tocca la pinna del mio orecchio contamina, volgendo al bene, l'animo, risveglia il bimbo che culla l'adulto nel sonno della sua coscienza, semina nubi, lacrime, vento, fiori, terra...
iii si nuota ovunque, tranne che in sé stessi - pupille, plancton verso l'estinzione - lo afferma il buio, balena in silenzio spalancato come amaca su abissi - ho prosciugato l'oceano dell'animo ed attirato altrove sono corso via col corpo, una barca trascinante tutto il peso della sabbia d'un'alba che stentava a vedersi all'orizzonte.
I Non cade la tua anima nel sonno, tutt'al più si riposa e vede l'ombra amaca e culla, tormento e cupezza, lenzuolo insradicabile ed atavico, gocciano note, carillon di luce, si riaccende l'infanzia dove sembra che a lutto il tempo usurpi lo spazio con un solo colore – quello lì! – e il vento è dito su nessuna bocca, chiede invano il silenzio tra gli assenti...
II Tutto è sonno, ma senza che sia corpo, ovunque è aria che rammenta assenza di anima, le strade srotolate, come zerbini a soglie d'orizzonte, solo indicano dove può arrivare lo sguardo in questa vita, e in nessun altra!
III Tutto era nascita, era preghiera, era l'implorazione di fermarsi – Notte regina che non ha pietà: si distende e non copre veramente! – era sbocciato il fiore delle palpebre e sotterrato dalle imposte chiuse non ebbe l'acqua di nessuna luce! – il silenzio portò le cose al grido e il grido stesso si adeguò al silenzio! – fu preda del sadismo l'indifeso, quello che volle definirsi dio finì per esser solamente sangue da cui nacque una folla di carnefici, e nel buio sarebbe l'uniforme culla se non vi fossero le stelle, sale di luce gettata violenta sulle ferite di pupille insonni.
Accatasta la legna delle palpebre, getta il carbone della tua pupilla, e libera il falò della tua lacrima e che l'asciughi, spegnendolo, il vento, il tuo amico fedele nel non esserci.
Io unita di parole orrende ansante di clamore: io che conosco baratri e sonde per l'incalcolata nudità dei remoti Paradisi, sospirosa bellezza, driade dai fuggevoli pensieri, consanguinea dei pioppi, alle betulle forte mite sorella, io che cedo il mio nome alle natanti filiazioni dell'onde, nuda baccante delle mie paure e fulgore d'alloro ed inebriato lento corso di stelle, io sempreviva, segno zodiacale, da immane ira protetta, deità del grido: spietata ho verghe di incorrotta fama e superbi destrieri al mio cammino.
Io mi so notti insonni sublimate in aromi fruscianti alle mie chiome io mi so spiritali mutamenti, lingue di fuoco ansanti alle mie vene: gioia rappresa le mie labbra ormai alzano incensi di silenzio al suono voluminoso della tua figura; e tu, dolcezza alle mie caste mani cedi: han vigore immane di connubi.
Venere salva sazia la mia ira con la visione vasta del tuo nome io, prosternata a tacite derive d'aspettazione ho sguardi di future cadute ed incline ad ogni forma pregna di spazio, alzata al lievitato equilibrio dei venti, sprezzo la forza mobile del dotto pensiero e mi concentro nell'aperta chiave della divinazione.