Per te musica è solo silenzio. Per questo passeggiate solitarie. Per questo il sipario nero del cielo alzato ad offuscare la visione del pubblico solare, per questo solamente il silenzio, vuol dire che nessuno può inventarlo lo strumento da cui può scaturire nell'eternità. Il silenzio diventa musicista e ti utilizza come suo strumento. E la strada è spartito ed è teatro. E il corpo penna ed esecuzione. E i passi note e mimica che interpreta. E l'ombra che continua come una eco è una clemenza per chi resta indietro, incluso te stesso se poi ti volti. Non sai nemmeno se il vento è un applauso. Non sai di quante mani. Se sia una sola oppure si giochino a confondersi fino a finire nell'innumerevole. Tu giochi, e ormai lo sai, e al tuo ritorno, al tuo rientro in casa dal portone è terminata la vita dell'opera. E se si cerca il cadavere è che tu non sei, non sai, non puoi sapere. Un attimo brevissimo immortale che hai consumato e gettato nel cesto indifferenziato di un lungo oblio.
Sono venuto e indietreggiavi, nulla, ho lasciato la compagnia del vento, ai miei piedi la cenere dell'ombra pezzi di me al passato anche al futuro la carne-fiamma bruciava di insonnia - vedevo profilarsi all'orizzonte la tua porta, un addio prima di nascere - veniva lacrimato via il mio sogno ed ero troppo inerte per accorgermene.
La civiltà della luce è crollata, e neanche la polvere riesce a dare una parvenza del suo esistere, cantano un pianto carillon di stelle sul neonato che è una culla di scheletro, si calpesta, scavandolo, il terreno, e il passo è il grido nel buio insicuro del fatto che sia carne oppure cenere: vi si affacciano, Narcisi nolenti su un lago ormai di ostinato ghiaccio, scivolano in compromessi di riflessi, infimità marina in decomposte urla, disfatta tela di Penelope, gesso caduto orizzontalmente su una lavagna davanti alla quale non c'è mai stato fosse anche un alunno, dove scrittura è un oblio ribevuto, dove non si fa in tempo a dire fine.
Trafiggi stelle, pregustando sangue, entrerai dentro il cuore di una lacrima che piange spappolata la sua luce, proseguirai la tua razzia nel vuoto, predatrice che si è autocondannata, resta una zanna, monade, asociale, che non è stata mai neanche d'avorio, notte, vestita da rinoceronte.
Legna carbonizzata è questa notte, estesa senza avere intermittenze, fiamme accese di zanzariere, gli astri, gocce di fuoco piante da paura, solitudini di distanziamento, sorelle che s'osservano in modo circospetto: entra in scena lo sguardo dell'insonne dal palcoscenico di un marciapiedi al proscenio d'una strada isolata in cui la passeggiata si è tenuta come monologo della sua insonnia, ed è il silenzio del suo sguardo, parla l'occhio di bue in un occhio di uomo proietta in una folle lontananza l'orizzonte della sua direzione, è arrivato da sempre a quella vetta, all'applauso dell'occupar (n)e il centro, alla pausa scandita d'altro tempo risponde con sublime indifferenza: consuma il pasto d'ossa della luce.
Il sonno è sosta, è solo sospensione. Fuggire dal dolore che ti insegue come il gatto col topo, spalle al muro sanguinante dell'alba, al risvegliarsi. Entrare dentro e scoprirsi scissi, quest'anima ch'è solamente ombra è una formica che trascina esanime la briciola di pane del suo corpo al cimitero ch'è il cielo di notte e non giovano stelle a lacrimarsi per dire con lo sguardo nel silenzio ch'è una resurrezione della luce striscia, cammina, tutta ti appartiene la strada, la più innocua delle serpi, la carnefice e vittima smembratasi per riproporre la dualità – si viaggia fluttuanti verso il sogno, questa tomba di pace senza fine.
L'eco lontana portata nel vento si infrangerà contro pareti ignote i confini rinascono nel sangue, ogni fiato una vena capillare, credi il silenzio sia l'inosservanza sotto cui passi lucido ed illeso, credi la schiavitù no, non ti chiami, il padrone del sonno che riallaccia il guinzaglio dell'ombra finalmente alla cuccia del letto, credi pure che ancora non vi sia da far domande – perché non temo di restare solo nell'interiorità che si fa abisso.
Non si continua alcuna discendenza. Nessun cerchio perfetto che si chiude, collo di una civetta che si illude di non muovere almeno la sua testa, è un voltarsi indietro ad un rimando, è un andare avanti e abbandonarlo. Letto di morte come sala parto. I sacerdoti furono le ostetriche. Con le doglie degli ultimi respiri, dall'utero del mio corpo finale, si credette di partorire l'anima, si mise a un altro mondo nessun figlio.
Ho annaffiato col sonno le mie ossa, ho seminato l'animo di sogni, ho taciuto l'ebbrezza del mio sangue, ho lasciato al passato ed al futuro l'inizio tenero della violenza e lo stormo compatto che son stato lo ho fatto rammollire, lo ho legato alla gabbia terrestre del mio letto.
Più nessuna speranza. Roghi di stelle accesi in solitudine, lacrime imbalsamate nella stasi del tempo, dove l'uomo finge morte col sonno, specchio di ciò ch'è nell'alto, sul palcoscenico intimo del letto, unico ruolo e prove innumerate, più nessuna speranza se il carbone compatto della Notte non cede mai a trasformarsi in cenere.