Il termine, la vetta di quella scoscesa serpentina ecco si approssimava, ormai era vicina, ne davano un chiaro avvertimento i magri rimasugli della tappa pellegrina su alla celestiale cima. Poco sopra alla vista che spazio si sarebbe aperto dal culmine raggiunto... immaginarlo già era beatitudine concessa più che al suo desiderio, al suo tormento. Sì l'immensità, la luce ma quiete vera ci sarebbe stata? Lì avrebbe la sua impresa avuto il luminoso assolvimento da se stessa nella trasparente spera o nasceva una nuova impossibile scalata... Questo temeva, questo desiderava.
Su questo muro d'ombra Su questa tomba degli anni Su questa grata di nere parole Una mano di luce Come un miracolo Come un lampo improvviso Come un fiordaliso sul vetro
Un'ombra di smarrimento e di resa velava i tuoi occhi mentre mi cavalcavi selvaggia e maliosa, ma solo in apparenza vittoriosa. La gloria di donarti e di essere tu soprattutto ad amare era in realtà la tua vera vittoria.
Se dovessi andare a Samarcanda magari troveresti Sherazade in mille riproduzioni, vestita di lustrini, come souvenir, e le cupole dorate di Al-al-Din ricoperte di segnali turistici sovietici e ossidate, su un cielo metallico.
Ma restare è come partire. Da qui si stendono i campi dell'Oxfordshire già del colore di una sovrana d'oro. E quando il fieno è raccolto in balle che sembrano ruote, e l'occhio corre dai solchi scuri dei trattori all'orizzonte nudo dell'autunno, là brucerà là Samarcanda
Non è tempo di scrivere e io non ho che il solco della penna e sotto il foglio. Un inchiostro facile, un dire fragile tra voci che confondono, che vanno. E questo è un anno che trattiene i giorni li lega al calendario. I volti stanno lì, per caso. Ci chiedono un appiglio, lo scompiglio di un'altra primavera. Quasi non ci fossero, come se svanissero. Sistemali per poco qui, con le parole. In qualche stanza chiusa, in una nuova sera. Una nicchia, e poi fermarli, e poi imparare a dirli, a riconoscerli dagli occhi almeno. Tu, punto a capo senza corpo. Tu rimedio dell'assenza, poesia.
Abbiamo nel cuore un solitario amore, nostra vita infinita, e negli occhi il cielo per nostro vario cammino. Le spiagge i cieli, la riva su cui sassi e rovi e il solitario equisèto, e colli erbosi grassi rioni, città dispiegate come belle bandiere, e nude prigioni. Questa è la nostra vita. Questi nostri volti vagabondi come musi di cani ci somigliano. Il vento il sole le corolle rosse e blu, i sogni mai sognati i nostri sogni. Questa è la nostra vita e nulla più.
Pioggia, foglie giallastre, bagnate, come vecchi cenci, stanno attaccate, per miracolo; cielo brutto, biancheo, aspetto lacrimoso del tempo, giorno dei morti, rimembranza….
Vince chi piega la luce da farne origami; e lo ammiri: si può. Carta, quei fiori carnivori diretti da dita veloci e dimentico che s'aprono a rischio di scelta scricchiolano musica spinosa e vorrei che la luce lasciasse il suo angolo lineare per dirsi curva perfetta, insinuarmi nel cerchio da sola: non posso. Impermeabile strumento fuori resto a dare il ritmo agli ingranaggi; scivola altrove il merito di figli. Solo ha forma qualche cosa che rischia di cadere. Continueranno le mani a piegare la carta e incartare la luce, a rilucere i muti origami lì sul ciglio della buca.