Mi piaceva, abbracciandola, con bende di mani il capo fasciarle, sapere sulle dita di garza sotto i fini capelli la curva lunga e sottile della volta, nell'incavo ospitarla di guancia collo spalla, con i palmi di gesso come tenera calotta, come un secondo cranio contenerla.
Servi dello Stato colati a fondo, uno ad uno nella nebbia dimenticati nel nulla, lungo corsie di sangue a sirene spiegate, occhi di lince e fiuto di volpe, ma la morte è regina di notte, profuma di spine, si diletta trasformista come primattore da palco, si acquatta silenziosa, si muove sinuosa, come un serpente assume i colori del suolo, a redini sciolte cavalca con furia gli strali assassini, guida le mani nel bagno di sangue e si accende gli occhi nel porre fine alla vita. Colati a fondo ma vivi, solo nel ricordo di pochi, sacrificio inutile di anonimi eroi tenuti a morire pur di salvare una vita, importante più della loro e di amici e parenti, soli nella marcia per difenderne il nome, la memoria e il ricordo, verso lo Stato che ha comprato il suo perdono per l'inerzia e la complicità negli anni di piombo.
(Nel ventesimo anniversario del rapimento dell'onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse)
Come si muore, quale preghiera rimane, quale forza nel cuore, quali ancora parole se non lamenti. Insieme e in fondo soli, come si muore, senza più ricordi, senza pelle e più ossa, ombra della propria ombra di notte e col sole. Calda la paura rende di fuoco l'aria e di sangue le lacrime, di ghiaccio il sudore. Come si muore a pochi passi dalla morte, come si muore in piedi e ginocchia a terra, con occhi randagi a cercare la fuga non dalle anguste mura ma dai cento altri sguardi, sbarrati nell'orrore dell'addio alla vita e spaccati dall'odio dell'odio come un sasso nel cuore. Mano nella mano col silenzio nelle parole e il lamento nel cuore, dal profondo si leva l'urlo sotto le docce infami e assassine che bagnano di morte le schiene e i nudi capi chini. Come si muore insieme, spalla a spalla, corpo contro corpo vomitante sudore, nudi nel freddo e vuoti, ormai vuoti, già morti nella vita, già nella vita oltre la morte. Tutto rimane, le braccia marchiate, le vite segnate, le lacrime a spasso coi ricordi, a torturare l'anima di chi ce l'ha fatta, il ricordo di chi non è tornato e mai più tornerà. Come la neve, polveri bruciate e ceneri come la neve, sputate fuori dalla fiamma carnefice, che gli occhi segnò di giorno e di notte, che mai tremò nel dare la morte, legando il dolore e le fiamme, la vita alla morte.
Un silenzio evanescente, ma triste, inonda col suo tono sconsolato l'arsume della nostra lontananza.
Ma tu, così distante da me, e la sera sempre più lontana, fra i versi per i quali hai sorriso cerca il calore del mio petto (in mezzo a quelle macchie nere vive il nostro eterno abbraccio) perché possa un sorriso dileguare la malinconia.
Lungo viali di puro e limpido cristallo la vita trascorre e si evolve. Durante il cammino si raccolgono i pensieri e si condividono. Si condividono con i sogni che nascono, specchiandosi nelle trasparenze che si immaginano, e le realtà che si trovano, gardando freddamente dritti davanti a se. Il segreto della felicità è: camminare lungo questi viali senza farsi accecare dei riflessi dell'immaginazione né opprimere dalla freddezza delle realtà!
La felicità è il battito d'ali del coleottero che non calpesti. Il minusculo lembo di pelle che si stacca dal dito ferito. Una caraffa di bianco frizzante bevuta d'un fiato senza respiro. Le lacrime sincere d'una ragazza pallida il mattino alle cinque alla stazione dei treni. Quel momento unico d'estasi onirica quando tutto si blocca e intravvedi uno strappo nel tempo che ti regala un secondo di vita. La felicità è quello che non hai, sono i rimpianti e i ricordi a cui ti leghi nella sera o di notte.
Minime storie di vetro sono le vite umane. Infranti occhi che soccombono alla stanchezza degli anni. Brumose incertezze del tempo che passa sintesi estrema del piacere di vivere. Malinconia latente è il mio pensiero indifferente al mondo ma in esso incluso. Frattaglie e sangue sul sentiero innanzi.
Erano ragazzi normali e intelligenti, mi direte, e quando uccisero la madre di lei si dimostrarono lucidi e spietati... Ora applaudite la condanna unendovi al coro degli ipocriti: volete esorcizzare il vostro male! Erano ragazzi normali e potevano essere figli vostri... e ciò v'inorridisce. Ma forse noi dovremmo avere un po' di pietà per loro.
Ora che cosa potrei dire a Erika se fossi suo padre: Oddio, dov'ero Erika, come potevo non accorgermi che in cuore ti ribolliva quell'assurda e orrenda gelosia; perché soltanto di gelosia si tratta, ne sono certo. È colpa mia, non tua, se non me ne sono accorto. Come potevi credere che il mio amore fosse poco e divisibile? Il mio amore, tu non lo sapevi, era più grande e illimitato e comprendeva te, la mamma e il fratellino. È colpa mia, non tua, se tu non lo hai capito.
O voi tutti che giudicate, siete buoni! Voi avete sempre amato vostra madre, ricordate. Quando era vecchia l'avete messa in un ospizio, quel più comodo, sulla strada percorsa nei weekend. Così potevate fermarvi un momentino, senza perder tempo: -Cara mamma, ti ho portato un regalino, una scatola di biscotti, quelli molli, che puoi mangiare anche tu, senza dentiera. Sei contenta? - E andate via.
Anche voi avete ucciso vostra madre e dovreste avere almeno un po' di pietà per voi.