Non si sa se le traversìe produttive del film ne abbiano condizionato l'esito. Sarebbe dovuto essere diverso il finale o il montaggio o la location da Dublino a Oxford? Quanto si discosta dalla vicenda vera? Il sito "History vs. Hollywood" ancora tace a(l) riguardo. "The Professor and the Madman" è comunque melgibsoniano sin'al midollo, con la sua ossessione per un obiettivo sovrumanamente folle che, a differenza del 1° Herzog, viene raggiunto per divina grazia sacrificale. Stavolta Gibson fa incarnare la follia a Penn come suo alter ego (dalla barba al resto) e per un'ora n'esce un buon classico, corale e "period drama", poi il buco nero dell'amore martirizzante inghiottisce (appunto sacrificandoli) i personaggi a uno a uno (non è spiegato il twist dell'alienista e svaniscono le figure femminili, le proli, i comprimari) e in scena rimane solo lui, il "Braveheart" "matt-attore" e purtroppo didascalico.
Quas'in memoria di Nora Ephron, la versione femminile di "Last Vegas" (Turteltaub, 2013): una favola per donne anziane che si cura più del senso di compassione che del senso del ridìcolo. E "More than This" dei Roxy Music (1982) sulla scena finale è una stilettat'al cuore. Momenti verI? Uno solo, quando la Keaton, abbandonata dalle figlie in fondo a una scala mobile, si trova circondata dalla tragica realtà dei suoi coetanei. E nel 1991 Marco Ferreri, con "La casa del sorriso", ne aveva fornito quest'ultima variante drammatica.
Torrenziale ma scorrevole biopic su Gerhard Richter: matrice televisiva cosparsa di frasi fatte (sull'arte e quant'altro) e paradossali scene di nudo con attori d'eugenetica bellezza. von Donnersmarck si ripresenta ossessionato dalla memoria d'una storia ch'invece non è ancora affatto passata ("Lui è tornato", Wnendt 2015).
Robin Hood trasformato in "V per Vendetta" (McTeigue, 2005) e aggiornato agl'attuali problemi di geopolitica: molte ingenuità, ma non sin'al punto da nominarlo per i Razzie Awards.
I critici hanno considerato "il futuro della 7a arte", italiana e non, questo tornare al cinema come cinema-tica pura, quella di cui è già capace chiunque faccia zapping. Sperimentazione di retroguardia, colma d'errori tecnici giudicati irrilevanti (durante la gara i 2 protagonisti fanno barspin e tailwhip, trick impossibili con bici da Downhill) e ripresi peggio anche solo d'alcuni video postati su YouTube. Il paio di riferimenti kubrickiani sono presuntuosa sfacciataggine per un film ch'è un remake di "Death Games" (Jonah Loop, 2011) o di "13" (2010), a sua volta remake di "13 Tzameti" (2005), entrambi diretti da Géla Babluani, con l'unic'aggiunta dello sport estremo.
Si sarebbero potuti limitare i tecnicismi, si sarebbe potuto vedere (dove?) il documentario sulla stessa persona, si sarebbe potuto girare un film formalmente rivoluzionario com'il suo contenuto, si sarebbe potuto fare un biopic sulla prima donna (conservatrice), e non sulla seconda (democratica), nominat'alla Corte Suprema. Nel frattempo si può godere d'"Una giusta causa", prodotto hollywoodiano per una volta al servizio d'una storia non indecente.
Tema spinoso e complesso affrontato con vergognosa semplificazione, che la superficialità yankee e chi ha vissuto una simile esperienza, a cominciare dal regista, gradiscono quant'un orsacchiotto per orfanelli. Family movie degno della Disney, se Anders avesse avuto la furbizia d'aggiungere la frase risolutiva del momento, "È complicato", sarebbe stato candidato agl'Oscar®.
L'SCU (Shyamalan Cinematic Universe) riconsegna il regista al suo rango d'insignificanza (Cahiers permettendo), dimostrando nuovamente quanto i suoi film si reggano su un'ossatura fragile come quella dell'uomo di vetro.
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