"Ma cosa dice il cervello" a Milani? Un remake di "True Lies" con la Cortellesi al posto della Curtis e dunque senza striptease? La commedia italiana che fu sferzava il malcostume nostrano, mentre questro è "delicato", cioè carino ma così leggero che me ne ricordo giusto "Take Five" buttato lì.
Nella categoria dell'arte autoreferenziale, autoanalitica e autobiografica, reputo più interessante il confronto con altri autori rispett'a quelli che ho trovato citati nelle recensioni a "Dolor y gloria". Non l'ho percepito un film riuscito, non ho ricevuto l'impressione ch'Almodóvar abbia saputo o voluto trasfigurare il suo personalissimo materiale. L'inizio coi capitoli "geografia" e soprattutto "anatomia", elenco animato dei vari acciacchi di salute, prometteva una forma di rielaborazione trieriana, potentemente ingegnosa, sarcastica al limite dell'autoparodia, ma non sono tonalità ch'appartengono alla tavolozza di Pedro. Altro regista notorio per la tormentata ricerca d'estendere il proprio ombelico alla condizione umana è Moretti, e il suo film migliore è quel "Caro diario" (1993) in cui s'è vincolato a una struttura classica come quella wolffiana (la stessa presente anch'in "Antichrist", 2009). Qui invece siamo vicini a un flusso di coscienza liberatorio e catartico più per chi lo esprime che per chi ne fruisce. Dett'altrimenti, ho qualche difficoltà a identificarmi con questo tipo di resoconto d'una vita eccentricamente banale, troppo soggettivo e troppo poco oggettivo.
Non capisco poi come si faccia a equivocare tra "8½" e "Amarcord", tra un bilancio esistenziale provvisorio ed uno testamentario di fine carriera. "Caro diario", Trier, "Youth" di Sorrentino rientrano nella 1a specie, questo d'Almodóvar nella seconda per ovvie ragioni anagrafiche.
Quas'in memoria di Nora Ephron, la versione femminile di "Last Vegas" (Turteltaub, 2013): una favola per donne anziane che si cura più del senso di compassione che del senso del ridìcolo. E "More than This" dei Roxy Music (1982) sulla scena finale è una stilettat'al cuore. Momenti verI? Uno solo, quando la Keaton, abbandonata dalle figlie in fondo a una scala mobile, si trova circondata dalla tragica realtà dei suoi coetanei. E nel 1991 Marco Ferreri, con "La casa del sorriso", ne aveva fornito quest'ultima variante drammatica.
"Wired" dice ch'è "utile per insegnare ai ggiovani chi sia Travis Bickle", dice. Ma è così necessario conoscere "Taxi Driver"? E poi questo "Joker" è riducibile a un remake solo di quel film o di "Re per una notte" ("The King of Comedy", 1983)? Semmai è una carrellata scorsesiana in cui le opere minori sono spesso migliori delle maggiori, e Todd Phillips è abile nell'omaggiare anche le prime, dalle sequenze sulle scale di "New York, New York" (1977) alle ambulanze di "Al di là della vita" ("Bringing Out the Dead", 1999). È un film che scorre via veloce, il che però è tant'un pregio quant'un difetto: a es. non c'è un serio approfondimento del nesso (bidirezionale?) fra disagio psichico e disagio sociale, un "elogio della follia" più esibito che spiegato, o del problematico inserirsi della soggettività nel warholiano mondo dello spettacolo (e infatt'il seminarista mancato ha dedicato un intero lungometraggio a ognuno di questi aspetti). Insomma si lascia vedere, spesso perfino a suo discapito. E l'invasione di topi l'avrei lasciata al Camus de "La peste" (1947).
Una sceneggiatura dat'in pasto al montaggio, anche perché quando si ripiega sullo scarafaggio come metafora la credibilità alberg'altrove. Incomprensibil'i 5 brani degl'Emerson, Lake & Palmer in soundtrack.
Una decina di giovani jihadisti massacra i facoltosi ospiti del prestigioso Taj Mahal Palace Hotel, tra i sopravvissuti una madre che si ricongiunge al bimbo affidato alla badante. L'esordiente Maras riesce nell'improba impresa di renderci più antipatici le vittime e gli ostaggi che i carnefici.
La contaminazione di generi e stili non è un valore intrinseco se non s'amalgano. 17 anni e 136 minuti per raccontare che, in definitiva, lo spazio e il tempo non cambiano nulla, al massimo decantano il disfacimento già in atto: quello antropologico, cinese, amoroso, amicale, corporeo. Un interminabile fiume corale ampollosamente immerso nella solitudine geografica dei territori sconfinati e in una cronologia iperdilatata abitata esclusivamente da storie di loser: un tentativo d'epopea fallimentare quanto i suoi personaggi, con simbolismi e stilizzazioni che distruggono sul nascere le parvenze di neorealismo. Poi, dopo il centesimo desertico campo lunghissimo, uno perd'il conto e s'annoia.
Trevor Nunn non dirige un biopic su Melita Norwood, a malapena citata sui titoli di coda come fonte d'ispirazione, poiché lei era una comunista agente del KGB. Semmai, a lui interessa un discorso sulla lungimiranza geopolitica da parte di un'esponente delle minoranze sociali dell'epoca, in questo caso le donne. Niente di male se non fosse per il malriuscito connubio fra spy story e romanticismo. Ritmo lento ma non noioso. E comunque, molto meglio di "Allied" (Zemeckis, 2016).
Non capisco poi come si faccia a equivocare tra "8½" e "Amarcord", tra un bilancio esistenziale provvisorio ed uno testamentario di fine carriera. "Caro diario", Trier, "Youth" di Sorrentino rientrano nella 1a specie, questo d'Almodóvar nella seconda per ovvie ragioni anagrafiche.