S'è crudeltade la Morte o s'e pietade nessuno fino a ora l'ha mai saputo. Sol si conosce che con sforzo alcuno il forte leone abbatte e l'agnellino e non si cura del ricco uomo potente e nemmanco del misero e meschino e tutti stende senza alcun rimpianto e da sulla terra elimina ognuno.
Là, dove giunge, non fa differenza né di regnanti o poveri accattoni; per essa tutti quanti sono uguali e in egual maniera ghermisce ognuno. Dinnanzi ad essa cede l'attacchino come s'inchina pure il re supremo. La secolare quercia strugge e ingoia e il sacro fusto dell'odoroso alloro.
Non vale per fermarla oro o argento, ignora sia il signore che il poverello: Non guarda in faccia ne s'è brutto o bello e il debole risucchia senza sforzo come il forte atterra con un soffio. Alfine altro non è che affilata falce che stende l'erba tutta sulla propria ombra e inerte la ridona alla madre
Terra forse perché rinasca in vigoria o allontanarla dal terreno tormento... Nessuno, invero, sa perché ghermisce s'è per crudeltade o per pietade. Un solo Libro tratta l'argomento ma il contenuto arduo è interpretare. Solo chi tiene fede e spera in Dio capisce ciò che non conosco io.
Tanti furo i lupetti che in grembo teneva mamma lupa e al lembo di sua veste ciascuno s'attaccava appresso che amorevolmente allattava. Alla ricerca almeno del minimale, al fine di nutrire la prole frale, lontana dalla tana, in sofferenza il tutto procurava in perseveranza.
Del provveduto tutto ad essi dava e ogni cosa per se trascurava; allo stremo di forze pur ridotta giammai modificava la condotta. Onde impinguare di carne ad essi l'ossa il fisico distruggeva di se stessa; tutt'essi circondando del suo amore ch'ora, per gratitudine, pestano suo coro.
Mentre i lupetti, ora, son forti e belli del lor comportar ne tien gli affanni ché se pur avanti ita è negl'anni pochi di questi i danni, tanti di quelli. Essi or sono grandi, scostanti e arroganti, privi di dolcezza, tolleranza e garbo. Di mamma lupa, dei sacrifici e stenti alcuna memoria più tengono in serbo.
Per questo, poveretta, essa si contrista, la notte sul giaciglio sbuffa, si rigira, pensa quel ch'è stato, chiede a Colui ch'ispira: Iddio, ho tanto amato, perché mi si rattrista? Rivede i cuccioletti che ad essa s'aggrappavano quando scarne le ossa il caldo del suo corpo ognuno ricercava e lei, d'amor di mamma, tutti circondava.
Tutto è finito, ormai, tutto è concluso. Dei stenti e sacrifici tutto è fuso, tutto quel che fece era dovuto e, nulla, rispetto al dato, ha ricevuto. Sperando che i lupetti cambino gesta nei ricordi cheta se ne resta, delusa e sconfortata se ne giace, tornare a pensar quel ch'era le piace.
In quest'attesa ch'è mesta speranza l'è di conforto un essere vivente che sempre è fermo, per amore e usanza e in ogni occasione resta presente. Peccato! Sua natura verso non consente indi, dire non può, solennemente quant'è riconoscente. Il dolce strofinare, l'effusion gioiose lo stanno a dimostrare.
Di pelo biondo chiaro, striato grigio scuro, baffi lunghi e irsuti, pupille verde bruno affetto le dà grande, amor tenero e puro. Micio di razza, in cure supera ognuno.
Non persona che non l'abbia pronunciata, non persona che non l'abbia ricercata non è persona cui non faccia gola ché né uman né cosa può, se non essa sola donare contentezza e appagamento giacché sol'essa di tanto può far vanto e di quanto più belle essere cose superando la dolcezza delle Muse Per settant'anni io l'ho ricercata E manco un poco d'essa ho mai trovato. Forse è manchevolezza tutta mia O forse vive solo in fantasia.
Se all'inizial pudore ritornasse, Se alle virtù perdute risalisse Se di bellezza minor sfoggio facesse, se minore uso della lingua avesse, se insita l'umanità in essa fosse, se il senso di famiglia più alto tenesse e se quando altri parla lei tacesse, se fulcro in tutto essere non volesse, se non per se ma più per gli altri fosse, se dei malori suoi poco dicesse e con l'amore i dissapori superasse, se il sorriso sulle labbra più tenesse e se le sue fattezze meno mostrasse e mente a maggiore riflessione ponesse, se nel guardare le minuzie trascurasse e se l'altrui duolo suo lo facesse e delle sue miserie men conto tenesse e non i difetti altrui ma i suoi vedesse e all'umanità più amor mostrasse, se tutte queste doti racchiudesse della casa regina ad esser tornasse.
Pregno di gaiezza ai dì di fanciullezza Ti ricordo, ancora gaio nella giovinezza. Ti rivedo, da adulto, in contentezza Ti ritrovo e io maturo in allegrezza
Sei. Fece l'ingresso, poi, lo sfollamento E la migrazione divenne grand'evento Come deflusso in grande scorrimento, presto, indi, rimanesti in isolamento.
Eri un paesino, mia cara Falerna, da dolce espressione e sorridente ma poiché, ahimè, nulla cosa è eterna divenisti, pure tu, debole e perdente.
Ti sorrideva il mar Tirreno in faccia E ancor'oggi, tuttora, ti sorride. Allora sul terrazzo era gente all'affaccio Ora qualche vecchio che i tuoi fulgori vide.
Allorché l'animo invaso da timori e dubbi spezzommi qual fuscello lo corpo in due non odi, non rancori nulla tenevo e nessun fardello poiché la volontà s'era dissolta e latitante qual fuggiasco ai boschi iva veloce in cupa nebbia avvolta pensieri abbandonando buoni e loschi.
Intorno ruotano i conosciuti affetti d'ognuno m'avvidi la profond'amarezza impressa al volto qual medaglia ai petti per repente paterna debolezza. Mi scossi allora e superai l'umana incertezza rizzando il corpo, l'anima svegliando, con piglio fermo e buona rinnovata lena, mi fui qual ero prima.
Di ciascuno cogliendo ogni bisogno di giorno in giorno mi fui tanto attento quanto che a me pure quel fare parve sogno giacché lo pensier mio non fu più spento. Quanto saliente fosse lo star me bene intesi che nell'altrui sminuivano le pene e la tristezza che pria copria i volti dissolta fu e prese lieti risvolti.
Allorquando lo corpo di vigore iva percorso e mai mancar sentii le forze in esso, la morte mi parea solo uno scherzo e ne facea, perciò, fonte di scherno e ci ridevo e di battute tante ne facevo. Or che lo corpo è debole e floscio e alla vecchiezza s'è incamminato essa m'appare qualcosa di possente che pria del corpo schiacciami la mente. Ora la temo, più che temer la tremo, e ogni dì ver me venir la vedo. S'avanza e non s'arresta neppur per un momento brandendo negli artigli falce tagliente. Paura di guardarla in faccia tengo, la scarna sua figura m'appare mostro e a ogni passo più mi dà tremore. Vorrei poter sparire, nuvola divenire Per dare pace alla mia spaurita mente E allontanarla dal tremor di morte E riportarla ai gioiosi dì di giovinezza quando al rimembrare di cotanto mostro scherzavo e ridevo di gaiezza.
Se prima c'era solo una Madonna * Uno stipo, un messale e un altare, una finestra a mò di campanile senza né scala, senza né colonna or t'assicuro, Letterato altero ** molte di cose ha la chiesa, invero.
Da Eccellenza, il Vescovo in persona Fu consacrata il dì otto dicembre e affidata al popolo votato Rappresentato dall'uomo fidato Che sono certo, per innato istinto Non abbandona caso, pria ch'estinto.
Indi gli spettri Catroppa e Pantano Dalla chiesetta, ormai, restan lontano Che il loco sacrato è ai cristiani e nei dintorni mai più saran villani. Né il demone potrà fare più presa Giacché il devoto con Gesù ha intesa.
Presto il suono s'udrà della campana Che dal colle eco farà al monte e al piano. Presto saranno i fari illuminati Cosi come volevi Tu e gl'antenati. Ancora il vento grida e si lamenta Ma in Chiesa troneggia la sua Santa Che benedice noi, ogni momento e i caduti del Sacro Monumento.
Cinquanta d'anni ne son già trascorsi e sentieri impervi tanti ne ho percorsi così come puranco, assai di rado, varcato, serenamente, ho qualche guado.
Ma sia che tempesta o bonaccia fosse giammai lo pensier mio da te si mosse e, per i ricordi del tuo grande affetto t'hò, piacevolmente, tenuto nel mio petto.
Rivedo il lungo, dolce viso sorridente in quell'amabile fare accattivante; ricordo quel primo assai felice incontro che ai timori miei non fu riscontro.
Avvenne il quinto giorno di lezione che perdemmo con "Turuzzo" la ragione; ci accapigliammo come due leoni per la macchia d'inchiostro sui calzoni.
Mettesti me sulla coscia destra "Turuzzo" lo ponesti sulla sinistra e facesti che morisse quel rancore donandoci il sorriso del tuo amore.
Stretti ci trovammo in un abbraccio mentre le lacrime solcavano le facce. Una carezza ancora, un bacio in fronte e fummo alla lavagna a far la conta.
Questo il primo insegnamento che mi desti, tant'altri mano a mano ne seguisti e lo facesti con la nobile arte che dello spirito tuo faceva parte.
Il senso di Dio nascere mi facesti. di Colui che dal nulla creò i Corpi celesti; di Chi tutto sa, tutto conosce e vede e dona vita eterna a chi Gli crede.
Nacque, così, nell'alma mia la volontà di pregarlo e venerarlo in umiltà. Questo il buon seme che mi regalasti dacché con pazienza e amore mi seguisti.
Presto il seme maturò buon frutto tanto che ad esso da allora devo tutto. Infondendo con la bontà l'amore in petto dell'essere mio facesti un uomo retto.
Oprare potevi solo tu questo prodigio col dire e il fare nel contegno ligio. Grazie, caro maestro mio, Grande maestro; per tutto questo, grazie mio caro Maestro.
Quest'oggi, quattro ottobre, suoni intorno sono e canti, vicino non son'ombre e i cuori paion contenti. Oggi è festa della Vergine, della Vergine Maria e sia grandi che piccine sono in massima euforia. Tutt'allegrezza è intorno, la gente si sollazza, sol'io da qualche giorno carco sono di tristezza. Mi piange dentro il cuore, sentomi afflitto e solo, lunghe trascorron le ore, dai piedi mi sfugge il suolo. Quel vaso di cristallo Mancante è di più fiori. Sta sopra al piedistallo Ma è come fosse fuori. È bello e rilucente Ma pare ombrato e vecchio: Gli manca la sua gente: Lo vedo nello specchio. Tre sono rimasti fuori Da quel cristallo puro. Son tre, son tre amori Che l'animo rendon scuro. In un cantuccio: In casa, credendo d'esser sola la faccia triste, or rosa, or pallida, or viola, solcata dalle lacrime piange una donna sola. Si contorce, si comprime, sola parla, sola ragiona. Alza gl'occhi all'improvviso E mi fissa desolata, mentre asciuga il dolce viso dice: Ahimè! Che sfortunata. Chiude gli occhi e chiede Muta: Ma perché, perché, perché!? Guardo in Cielo e muto chiedo: Ma perché, Maria, perché!? Dai lor figli tutti quanti Circondati son gli amici, vanno avanti, indietro, avanti coi parenti: Sono felici. Per il fare di certuni Io, però, non son contento, tutti affetti restan vani pel lor scarso sentimento. Dea Fortuna da me è scosta Canco pure per mala sorte Questo giorno solo resto Con due figli e la consorte. Lei non sa, la Dea bendata, che se un figlio manca in casa la sua mamma è addolorata e vien tetra ogni cosa. Questo giorno tanto bello Da quel vaso di cristallo Di bei figli mancan tre: Due Regine e un gran Re.