Duro m'è lo dovere comportare avverso il pensier mio e immane lotta con mia idea è da mane a sera e ad ogni nuovo albore m'ho maggior dolore; qual viva piaga col passar dell'ore. Vorrei tanto tornare com'ero prima ma lo timore che m'opprime in petto discosto mi trattiene dal primiero concetto. Ora, all'istante, mi balena in testa pensiero che a riflettere mi porta ch'è, forse, nascosto orgoglio più che timore dell'altrui oppressione. E allor lo mio pensiero in alto vola: All'immenso Iddio, e dentro al cuore la quiete subentra immantinente. Disteso mi ritrovo e all'amore dell'altrui ridonda il sentimento. La pace in alma è ritornata e solo un sentimento di vergogna in uno al pentimento mi travaglia in petto. Una umile, breve prece al Ciel rivolgo. Legger mi sento, non più peso in corpo e sgombra la mente da pensier distorto.
O Genitori che state sotto ai pini Udite la mia prece o miei divini, sentite quanto grande è il pentimento di me che non ho colto il buon momento.
Di stupidità pervasa la mia mente Indegnamente fui da Voi assente Ed or che più rimediar non posso Il danno rimpiango e il tempo lasso
E me compiango di quanto non fui lesto E per quanto vile fu ogni mio gesto Nel trascurare per bramosia i Vostri affanni ArrecandoVi assai molti più danni.
Per i dovuti e mancati omaggi Perdono: la mia prece è per Voi oggi, finché vivrò nel profondo del petto Vi terrò e sempre nei pensieri reconditi Vi avrò.
Del male fatto assai molto mi dolgo E a Voi Anime elette mi rivolgo: Alfin che trovi la perduta calma Raggiunga il perdon Vostro la mia alma.
Coperto d'un lenzuolo di bianco lino Mi ritrovai disteso sotto un pino. Il luogo mi pareva squallido e nero E il tutto m'appariva un gran mistero. Strani rumori, fruscii, non voci né lamenti, non alcuno presente, non erano viventi ma com'infiniti oceani pianeggianti solo lanterne fievoli e tremanti. Forte pulsavami lo core dentro al petto, sparire avrei voluto ma restai interdetto di freddo tremando e di paura mentre la mente si volgea a sciagura. Sussultando, stordito e impaurito Mi rigirai un poco e guardai indietro Da dove mi parea giungessero suoni D'inestricabili voci e di scarponi. Con lenta cadenza e andatura austera Avanzavano ver me, in veste nera, con in mano una un bastone dorato, l'altra, sul braccio, un pastrano ornato due alte figure di nobile casato con lo stemma sul petto disegnato. M'apprestai ad un inchino riverente Ma lor giraro tosto lato ponente. Consolato di sì tanta presenza Stanco, sedetti sopra una sporgenza Ch'avea pensato essere un muretto Invece, ahimè, trattavasi d'un ometto. Con tanto spazio che ti trovi intorno Non mi par vero che non senti scorno D'appollaiarti sul mio teschio scarno Come su ceppo di pietra di marmo. Giammai avrei osato così tanto Se non avessi pensato lungi alquanto Essere tu prossimo a un vivente In questo campo ove l'umano è assente. E, poiché la mente mia è allo sbaraglio Vogliami perdonare per lo sbaglio, per non avere in tempo conosciuto chi come me, in terra, era pasciuto. Mi girai, una grande distesa di viole, lui squagliato come neve al sole. Poggiai la mano sopra una casupola, caddi su un prato coltivato a rucola. Tre cagnolini dal pezzato pelo Guaivano tremanti intorno a un palo Mentre due donne dal vestito nero Avanzavano ver me a passo leggero. Dovere di cortesia m'imponeva inchino Ma già rivolte altrove, dietro un pino, Ignoravano lo saluto e a passo lesto, a testa china e con fare mesto giravano attorno un grande casolare dove erano più cani ad abbaiare. Per chetare la morsa della fame Seppur in pantofole e pigiama, l'abbaiare dei cani l'un l'altr'ostile tosto mi portarono in cortile ché l'alba da tre ore era già sorta e i poveracci non avean più scorta.