Quel saccente "Cacasenno" Nella smania di far danno Come sempre, pur quest'anno Ha imbastito altro inganno. Con l'arte del tranello Sospinge il "comparello" buttarsi all'impazzata a tentare la traversata; indi assieme a scarpetta avvelena la polpetta. Acquattato tra le spine te, avversario, tiene a mira e tra rovi e tra spine è con ansia che respira Ha puntato, al petto strette, tutte quante le doppiette pronto a far partir le frecce.
Se assurgi e siedi in trono, a dispetto del "nostromo" mi costringi a farti un dono: La promessa fò su strada della sicula contrada. Se sarà tuo il successo venir meno non m'è concesso di donar quel ch'ò promesso. Se, però, ahimè non t'ergi e resti fermo e non emergi della sicula contrada la promessa è ritirata.
Se assurgi oppur non ergi il saccente serpentello * *furbetto fuoriesce di cervello. Indi sii vigile e lesto giacché chiusi i luoghi adatti al ricovero dei matti altro posto non l'accetta e perciò con furia matta spranghe impugna e doppietta qual suo ultimo rimedio a placare rabbia e tedio.
Lo rossore assomiglia ad un bel fiore; se lo coltivi, lo curi e l'hai nel cuore dal gambo alla corolla resta splendore e in ogni ora t'inebria del suo odore. Ma se nol curi, lo strappi e lo calpesti è qual morente dagli occhi spenti e pesti. E se pure lo raccogli tutto quanto mai riavrà la primiera bellezza del suo manto.
Così è l'uomo se decoro mantiene, se saldo lo rossore sempre detiene; ma se perde o oscura la sua faccia è pari al verme che sguazza nella feccia. E qui dire vorrei del topo di fogna che nella melma vive e la vergogna; ed è quell'uomo che col capo chino striscia qual biscia mentre fa l'inchino.
È faccia porcina, aspetto orripilante, nel letto dell'avverso trovasi d'amante e sol per qualche chicco di lenticchia tradisce la famiglia e la sua cerchia. Pezzente! Fare poteva solo l'inserviente ma lo portaro in cima: Ad assistente. E pure se insuperbito dell'alto rango la nostalgia lo rituffò nel fango...
Di limo in limo, ahimè, vaga strisciando ed or questo padrone or quel servendo ansimando ricerca lo caldo d'altro fuoco ma ognuno lo manda altrove: In altro loco. Stolto! Crede di fare dell'inciucio e non s'accorge d'esser nato ciuccio. Cerca di gareggiare con abili cervelli ma è solamente il re degl'asinelli.
Assicurando va d'essere paladino del cittadino e del suo destino. Nemmanco fosse il Grande Napolitano che nel costume è retto, integro, sano. Invece, il vero chiodo ch'ha in mente è rimanere lacché del presidente.
Quest'oggi il nervosismo è culminato, per questo ogni fatica ho trascurato, dopo avere girovagato alquanto entro deluso nella stanza accanto.
Quel che quest'anno qui è capitato è avvenimento che va raccontato alfin che sappia chi ci ruota intorno della confusion che regna e del frastorno.
Abbia pietà di nuova circostanza e prenda dell'ambiente nuova coscienza onde non abbia lui ad adirarsi e non costringa altri a morsicarsi.
Approda, cheto cheto, a dirigenza uomo discreto dai capelli senza; non un mugugno mai, non una lagna, convive la miseria e si rassegna.
Al contrario, però, vive quest'io che pur con nostalgia, fuori d'astio mi contorcio, mugugno e pur mi lagno tanto che cancrena l'ho financo in sogno.
Guardo, lì, seduta a tavolino donna vestita d'abito di lino che al posto ci cercare d'operare dilettasi sulla sedia a dondolare.
Lumacone somiglia a movimenti: Lenta nel fare, lenta in spostamenti. Con il lavoro pare ci si culla, a fine giorno non conclude nulla.
Delle tante disgrazie è la più magna che capitata m'è tra nuca e collo, meglio se fosse assente alla bisogna ch'è personaggio di corto cervello.
L'è di coronamento buon compagno che in tela incagliato pare sia di ragno. Prende, pone, riprende e poi ripone, s'arrovella, si strugge e non compone.
Dai gesti, dal parlar, dal comportare i due al mio cervello fanno pensare: Bisognerebbe metterli in struttura ove potere offrir sicura cura.
Stanco di permanenza in sì squallido loco mestamente m'avvio allo stanzone donde mi par proviene una canzone; accanto alla finestra è uomo gelido
che al collo cinghia tiene penzoloni mentre reggesi con mano i pantaloni. M'accosto, al saluto mio risponde: Hai visto al monte che bell'alte onde?
Brillano gli occhi, tremano le mani; presto men vò dicendo: Addio, a domani. Nel corridoio restano tre, in crocchio, che prima mai incontrato avea mio occhio.
L'uno in altezza supera la norma e dall'aspetto parmi non sia in forma. Mi dà conferma, di mia impressione, al mio saluto, la truce espressione.
Dei rimanenti due uno s'inchina, l'altro lancia coriandoli e farina. In aria li sparpaglia e volan via mentre gl'astanti invocano Maria.
Sbigottito del far di quei signori accedo alla sala di lettura ove di doglianza carca e malumori trovo persona di scarsa cultura.
In serbo tiene solo sconoscenza, superbia, arroganza ed indignanza ** d'intemperanza tien comportamento e mostra di suo volto abbrutimento.
Delle manchevolezze mie non dico: Quello che faccio spesso lo modifico. Dico soltanto che non son quel ch'ero, mi scordo quel ch'ò detto e se pur c'ero.
Arricchito di sì tant'indigenza lesto men torno all'usuale permanenza convinto che l'ambiente mio disabile è, comunque, degli altri il più agibile.
Frutto di un emerito cretino circola per le vie un volantino; scritto l'ha con mano malandrina persona disgraziata, burattina.
Verme strisciante, misera carogna l'essere tuo è tutto una vergogna; sei un vile mascalzone puzzolento, essere abietto, indegno e virulento.
Mente maligna, produttor di male la lordura scritta, dimmi, a cosa vale? Il profano al divino hai mescolato per questo, farabutto, sarai schiacciato.
Mente malata, instabile e corrotta l'opera infame segna la tua condotta; peggio di Giuda sei e di Caino impiccati, bastardo, sei un assassino.
Di giovani hai violato i sentimenti, perché non hai attaccato altri elementi? Rispondi, lestofante, vieni avanti mostra tua faccia, i toni tuoi arroganti:
Aguzzino, miscredente, delinquente degno non sei di stare tra la gente giacché rifuggi dal civil confronto e dell'anonimato tieni conto.
Vergognati! Anima vile di peggiore specie, bestia feroce, trafiggitor di cuore, al posto delle mani hai degli artigli dimmi, carogna, tu ne hai di figli?
Hai conosciuto mai dei sentimenti? Sai dirmi quanto sono sublimanti? O rettile sei nato tu strisciante ed odio alberghi per la buona gente?
Hai segnalato del Vangel dei versi ma quei tuoi scritti ad esso son'inversi: Hai giudicato senz'alcun diritto possa in eterno piangere il tuo scritto.
Pusillanime, miserevole don Abbondio dell'Opera manzoniana turpe figuro, alla vista dei bravi, dal guardo truce e duro fu, tremante del proprio io, dimentico di Dio. Poscia, ancor, fremente di rabbia e di paura cavalcar dovette la dispettosa mula che rasentando sen'iva l'orlo dell'altura con la testardaggine degna d'essa mula.
Di sua paura colpa nessuna avea, il poverello, giacché cavalcato mai avea mulo o asinello. Mai, prima, di brutti ceffi fu a lor cospetto perciò il freddo trafissegli carni e petto. La sua dimestichezza era il breviario che al libro accompagnava del lunario; marchiato, pur tuttavia, fu di vigliaccheria cui mescolanza avea a risaputa tirchieria.
Col segno a fuoco sulla fronte impresso per la codardia, vittima fu di se stesso; qual'uomo da nonnulla fu additato e da ciascuno schivato e allontanato. Misero più d'egli è il cavaliere esperto che di bestie da soma fu domatore certo, dacché teschio è vuoto e di cervello senza per perdita d'onestà, scienza e coscienza.
Grand'uomini furonvi d'onori e d'armi che per amore ridussero lor intelletti inermi; l'Orlando per l'Angelica perse il cervello ma egli, per poco o nulla, perse il fardello. Quegli nobile sentimento seguitava per cui la sua pazzia giustifica trovava; questi l'amata lasciava per materia quando già dava, da trent'anni, onori e gloria.
Perso, con l'abbandono ha amori, grazie, onori e scomparsi sono i prati seminati a fiori; d'irsute spine la via tortuosa prende mentre ogni giorno più in basso scende. In quel che don Abbondio credea infausto giorno reggere, della stupida mula, seppe il governo e tra preghiere, lamentele, suppliche e lagne agli applausi, alla fine, passò dalle vergogne.
Il cavaliere credendosi sommo del meglio da furente il destriero lancia allo sbaraglio mentre, lemme, l'arciere scaglia la freccia che il cavaliere nuotar fa nella feccia. Ora s'affligge sull'operato suo nefasto cercando dar riparo al provocato guasto; al coccodrillo s'accosta a somiglianza che piange su distrutta figliolanza.
La vita mai grandi cose m'ha donato, anzi, tolto m'ha gl'affetti desiderati fors'anco perch'io l'ho mal cercati o che in altri è sentimento andato.
Sotto quel tetto tanti ne crescemmo, mai in diverbio o discrepanza fummo; sol quando spiccammo volo in altrui loco lo bene scordammo nostro per l'altrui.
A te son grato d'avere alla mia mente ridonato il senso che credevo andato, certo che face sia eternamente ricredomi di quanto avea pensato.
Allor ch'attenta fosti al mio dolore le guance mi pervase grande calore: Il sangue pulsò forte nelle vene quando mi mostrasti il tuo gran bene.
Tal sentimento avverte sol chi ama, chi di benevolenza ha sete e cura e, mai, in cuor suo ordito ha trama di rendere a alcun la vita dura.
Qual dono fosse bello più che mai il comparir dinnanzi a Chi non è ed in ginocchio dire: Mamma, ormai, il bene che ci hai dato tutto c'è.
Se non te, che d'opera riparatrice sei la più saggia, nessuno puote risanar sì grande fallo ché, noi, si dice ma dall'accostare il ben siam teste vuote.
A te, l'arduo compito è affidato che ancora giovinetta ci hai vegliato; per noi hai rinunciato parte di tua vita ma l'opera tua non è ancor finita.
La Scuola sta per cominciare, mamma, e conoscere voglio, tosto, i libri di testo ché l'acquisto vo farlo al più presto per seguitare bene, poi, il programma.
L'acquisto ora non è più dilemma, il portafogli è gonfio e a spesa desto grazie a zia e al brav'uomo mesto e costo pure gravoso non c'infiamma.
Se vuoi, mamma, tornare puoi al paesello E vivere, come prima, tra la gente, togliendoti del campo lo fardello.
Dover primiero dell'uomo è la famiglia, per essa del lavoro essere amante; chi sceglie non così, la scelta sbaglia.